Fognini è una regola

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Fognini è una regola

Fabio Fognini ha perso la nona finale su quattordici disputate. C’è un problema di approccio, proviamo a capire qual è

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È sempre un sollievo quando un argomento di cui sembra esserci una spasmodica urgenza di discussione lascia il posto ad altro, meno allettante sotto il profilo mediatico ma ben più attinente con l’universo tennis. Fabio Fognini ha chiuso maluccio un’ottima settimana a San Pietroburgo, impreziosita da una vittoria tutt’altro che banale contro Bautista Agut in semifinale. Fabio aveva sconfitto lo spagnolo, virtualmente in corsa per le ATP Finals, anche in semifinale a Gstaad. Tra i monti svizzeri Fognini aveva poi sollevato il trofeo, mentre nella tiepida San Pietroburgo gli hanno fatto difetto il coraggio e forse un pizzico di benzina. Dzumhur, lesto e prodigo di chop di dritto, non si è fatto pregare e ha vinto il primo titolo ATP in carriera.

Nella stagione dei 30 anni l’italiano si è qualificato per le finali numero 13 e 14 in carriera, vincendo soltanto la prima delle due. La finale persa in terra russa non pregiudica però una statistica: il 2017 è la miglior stagione sulle superfici rapide di Fognini, che al momento vanta 12 vittorie e 7 sconfitte. Con cinque tornei ancora da disputare – Pechino, Shanghai, Mosca, Vienna e Bercy – a Fognini bastano due vittorie per migliorare le tredici delle stagioni 2014 (13-14) e 2016 (13-12), rispetto alle quali ben cinque quest’anno sono state ottenute a Miami e gli sono valse la prima semifinale in un M1000 su cemento, la seconda dopo Montecarlo 2013. Un risultato che fa pendere la bilancia decisamente dalla parte della stagione in corso, peraltro ancora migliorabile.

In effetti c’è una statistica intaccata dalla sconfitta di San Pietroburgo. È quelle delle finali perse dal ligure, che a fronte di cinque titoli è stato ben nove volte il runner-up. Nove sconfitte su quattordici non è esattamente lo score di un cecchino, sebbene due di queste siano arrivate contro Ferrer (Buenos Aires 2014 e Rio 2015) e una contro Nadal (Amburgo 2015). Tra tutte le argomentazioni che vengono smosse per giustificare la distanza tra aspettative e realtà quando si parla di Fognini, la retorica del talento inespresso ci porta a trascurare un aspetto tutt’altro che secondario nell’analisi di incontri decisivi. Sarà mica che l’esuberanza dei comportamenti nasconde una certa mancanza di coraggio, o quantomeno una tendenza all’auto-assoluzione in caso di sconfitta?

Si obietterà che contro Dzumhur, nel terzo set, Fognini ha giocato quasi soltanto da fermo. Già contro Bautista aveva fatto ricorso al trattamento medico per il ginocchio destro e sul sinistro è comparsa una fasciatura per tutta la settimana. A qualcuno è persino tornata in mente la stoica vittoria contro Montañés agli ottavi del Roland Garros 2011, quando un infortunio piuttosto tangibile alla coscia sinistra gli aveva impedito di prendere parte al meritatissimo quarto di finale contro Djokovic. Fabio non era al massimo, questo è evidente. Di contrasto c’è che a settembre, al 48esimo match stagionale e quarto in quattro giorni, è complicato per tutti (e non solo per Fognini) scendere in campo in condizioni di forma ideali.

Con gambe meno reattive la mente è meno lucida, ma questo va messo in preventivo quando si disputa una finale. Tra le qualità che è necessario possedere per vincere un torneo c’è anche il saper gestire le energie. Come extrema ratiodove i quadricipiti non sanno spingerti potrebbe riuscirci una voglia “operaia” di lottare e quindi primeggiare, che è sembrata completamente assente nel linguaggio del corpo di Fognini nel terzo set contro il bosniaco. Dzumhur, viceversa, certamente più fresco, aveva azzannato la preda senza la minima intenzione di farla rientrare in gioco.

Non è la prima volta che Fognini palesa questo atteggiamento arrendevole, quasi rassegnato. Agli ottavi dell’Australian Open 2014 il ligure incappa in un Djokovic oltre i limiti dell’ingiocabile, tanto che al termine di uno dei tanti game perfetti disputati dal serbo, dopo una serie di gesti di frustrazione, Fabio si ritrova a mimare un joystick per dare l’idea del gioco “telecomandato” del suo avversario. Fognini ovviamente non aveva alcuna chance di fare match pari contro quel Djokovic, così come probabilmente il resto del circuito in quel momento. Quel che fa riflettere è l’approccio alla difficoltà. Il siparietto con Nole è simpatico e ne hanno sorriso tutti, compreso chi scrive, ma al medesimo tempo conferma la sensazione che l’ostacolo in campo sia visto da Fognini, quando troppo alto, come una scusa per defilarsi. 

Non è vero che le sconfitte sono tutte uguali e non è vero che il tentativo di contestualizzarle sfocia immancabilmente nella dicotomia tra assoluzione e colpa. Si può e si deve interrogarsi sul perché uno come Fognini, che il talento per stare davvero dietro ai migliori non ce l’ha ma ne ha comunque in abbondanza, cada troppo spesso contro avversari che cederebbero un quarto del montepremi guadagnato per avere il suo braccio. Forse non c’è da andare troppo lontano e basta diagnosticargli un cuore non esattamente di leone. “Fognini è una regola“, come la Bologna di Luca Carboni, “che abbiamo provato a spiegarvi noi“.

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