Borg-McEnroe: quando eravamo re (Azzolini). La sfida infinita tra il “gentiluomo” e il “villano” (De Luca). Challenger Ortisei, Seppi torna a casa: «Riparto da qui» (Tommasini)

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Borg-McEnroe: quando eravamo re (Azzolini). La sfida infinita tra il “gentiluomo” e il “villano” (De Luca). Challenger Ortisei, Seppi torna a casa: «Riparto da qui» (Tommasini)

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Borg-McEnroe: quando eravamo re (Daniele Azzolini, Avvenire)

McEnroe era un pazzo, che credeva di essere John McEnroe. Borg al contrario sapeva che per essere davvero Björn Borg poteva recitare solo nei suoi panni. E ne fu presto annoiato. Poli opposti di uno sport che finirono per essere così distanti da ritrovarsi presto amici. Provate a considerare l’insolita natura del tennis di quegli anni, che finì per offrire un palcoscenico sperimentale alla recita quotidiana di molti e superbi attori, portatori sanissimi di novità e in grado tutti assieme di rendere comprensibili le esasperazioni tecniche e personali dei due che, fra tutti, furono gli autentici innovatori. Era il tennis degli anni Settanta, intriso di quell’ansia di cambiamento che veniva da vari strati della società e dalle masse giovanili in particolare. Un tennis da poco professionalizzato che cercava le sue strade e affrontava il nuovo senza rinunciare ai gesti antichi, affiancando ai colpi morbidi le prime esagerazioni del top spin, alla strategia la corsa, all’educazione la rissa. Ma era un modo di azzuffarsi che, con gli occhi di oggi, si rischia di rammentarlo persino gioioso. Borg venne prima e altre antitesi si trovò ad affrontare, in attesa dell’avvento del suo esatto contrario, un tennista che sembrava venuto su apposta per fare tutto in termini esattamente opposti ai suoi. Fu un riformatore, lo svedese, e lo fu per altri versi anche McEnroe. Uno cambiò il gioco. L’altro lo rese teatro. Con una racchetta pesantissima – impossibile da utilizzare per i tennisti odierni -, Borg imprimeva al gioco rotazioni allora fuori da qualsiasi schema. Lo faceva colpendo la palla nella parte superiore, da maestro del top spin. La sfera subiva un’accelerazione in avanti e un innalzamento della traiettoria, al contempo anticipava la ricaduta. Si disse, a ragione, che Borg aveva allargato il campo da tennis. Una sua pallata sulla riga obbligava l’avversario a retrocedere di quattro metri buoni per recuperarla. McEnroe inseguiva ben altri estri, ma tutti proiettati in avanti, verso una rapida soluzione dello scambio. Tocchettava, smistava, accelerava d’improvviso e piombava a rete per volleare con naturale eccentricità, tenendo la racchetta fra le dita come un cucchiaino da tè. Borg diventò il capofila di una generazione sbagliata. Al grido di «vince chi sbaglia meno» il suo tennis gonfiò insieme l’orda degli imitatori e il settore dei tennisti di cui si poteva fare a meno. Presero da lui gli aspetti più difensivi, senza capire perché mai un simile palleggiatore riuscisse con facilità a domare la superficie più infida, l’erba dei Championships (con 5 vittorie di seguito), che si diceva nata per i soli attaccanti. Al lato opposto della tecnica, McEnroe fu invece inimitabile. Chi si azzardò ne porta ancora le conseguenze alla schiena e ai legamenti del polso. Quando i due vennero a contatto, ben prima che le finali di Wimbledon avvampassero, McEnroe fu subito in grado di battere Borg. Era il 1978 a Stoccolma, Borg aveva vinto già due volte Wimbledon e tre il Roland Garros, insieme con altri 33 tornei; Mac aveva 19 anni e si era fatto conoscere nel 1977 scalando i Championships fino alle semifinali, dove si era arreso a Connors scoprendo che poteva esistere, sul campo, uno più antipatico di lui. A dirla tutta, nel percorso compiuto per «sentirsi sempre più McEnroe», John raramente toccò le corde dell’antipatia. Poteva riuscire grossolano, strafottente, e dire le cose più impensabili, mai però con quella punta di astio che muove dalle profondità più sulfuree dell’animo. Era il bimbo che è in tutti noi. Fu bandito dal Queen’s, il Club della Regina, perché in pochi secondi dette una spiegazione orribile all’anziana signora che chiedeva accesso al campo, sui mille modi per utilizzare una racchetta. Era la moglie del presidente del club, e dama di corte. Ne scaturì un terremoto sui media. Poi venne cancellato dall’elenco dei soci dell’All England Club, il club dei Championships (e riammesso, ma solo più avanti) per aver sentenziato che certo Wimbledon era importante, «ma se fosse stato in Tanzania» lui si sarebbe trovato decisamente meglio. Inutile qui elencare le marachelle, le sfide agli arbitri, le urla con cui McEnroe condì il suo tennis. Più che il Grande Antipatico, John fu il Grande Attore del tennis. Gli errori, i momenti di sbandamento, erano sottolineati da espressioni di disgusto verso se stesso, quasi fosse lui l’unico responsabile dei punti ottenuti dall’avversario. Mac sapeva come pretendere rispetto, soprattutto dagli arbitri e sapeva come influenzarli. Ed era bravissimo a sfruttare a proprio vantaggio le sue stesse sfuriate, rientrando in partita più carico di quando l’aveva lasciata. Borg era distante, solido, concentrato. Ma anche lui in maschera. Dietro la corazza che indossava ogni mattina scorreva sangue caldo. Spesso bollente. Panatta, suo grande amico, lo dipinge come un «matto calmo», e racconta delle infinite volte che lo riportò a braccia in albergo, tramortito da qualche epica bevuta. «Sapevo che la mattina successiva si sarebbe presentato sul campo incapace persino di sudare. Era una macchina». Le due finali a Wimbledon del 1980-81 furono al centro di una disputa finita nel mito. Borg vinse il primo confronto (e il suo quinto Championship) ma non riuscì a impedire a McEnroe di realizzare, anche nella sconfitta, l’impresa della giornata, vincendo al 34° punto il tie break del quarto set, forse il più avvincente mai giocato. Due forme distanti di tennis che si saldarono in un insieme di straordinaria purezza. Borg si vide cancellare, uno a uno, 5 match point. Ma vinse al quinto, perché, disse, «ero ancora convinto di essere il più forte». L’anno dopo quella convinzione non c’era più, e McEnroe si prese tutto. Borg finì battuto anche nella successiva finale degli Us Open e capì che non avrebbe più potuto governare il tennis come avrebbe voluto. La nuova stella era diventata più lucente e attraente della sua. Giocò ancora una stagione, litigando con i padroni del circuito. Si ritirò nel 1983, e aveva appena 26 anni. Ci riprovò sei anni dopo, e si era ormai perso. Si sposò con Loredana Bertè, e fu un disastro. Ora è un signore dai capelli lunghi e bianchi che sembra aver colto uno dei segreti della vita: stare tranquillo. McEnroe, alla fine, l’attore l’ha fatto davvero. Non come professione piena, ma come divertimento. A lungo è stato un venditore d’arte e la sua galleria privata, a New York, aveva una lista d’inviti infinita. Per un anno condusse “The Chair”, un quiz televisivo sulla Abc. Ora commenta il tennis in tv. Ma davanti alla cinepresa vi finì per vie naturali. Nel 2008 è stato protagonista di un episodio di Csi New York. Interpretava un folle omicida. «Sembra proprio vero», fu la recensione di quasi tutti i critici.

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La sfida infinita tra il “gentiluomo” e il “villano” (Alessandra De Luca, Avvenire)

Senza alcun dubbio è il match più famoso della storia del tennis quello che vide sfidarsi Bjorn Borg e John McEnroe durante l’epica finale di Wimbledon, nel luglio del 1980. Quel leggendario duello al cardiopalma vinto dal campione svedese è ora raccontato da un film, Borg vs. McEnroe diretto da Janus Metz Pedersen e interpretato da Sverrir Gudnason e Shia LaBeouf nei panni dei due fuoriclasse. Il primo, il re del tennis, ambiva alla sua quinta vittoria consecutiva nel prestigioso torneo, il secondo, astro nascente, sognava di diventare il nuovo numero uno proprio in quella occasione. Ma il film, proiettato ieri al Festival di Zurigo e che in Italia arriverà il 9 novembre, non è solo la rievocazione di quello storico avvenimento sportivo, ma una ghiotta occasione per scavare nella vita di due uomini e per scoprire quello che si nasconde oltre la maschera dell’icona. Perché, come dice un altro celebre tennista, Agassi, in una frase citata all’inizio del film, «ogni match è una vita in miniatura». All’incrocio tra dramma psicologico e thriller sportivo, Borg vs McEnroe si muove avanti indietro nel tempo, con ampi squarci sull’infanzia e l’adolescenza dei due futuri campioni, ognuno impegnato a combattere i propri demoni, il primo in Svezia, il secondo a New York. Quello che tutti chiamano “Iceborg” e che considerano una macchina priva di emozioni, è in realtà un vulcano pronto a esplodere, abile nell’incanalare rabbia e panico in ogni colpo di racchetta. Super Brat invece, come viene soprannominato McEnroe, fischiato dal pubblico per le sue istrioniche scenate all’arbitro e al pubblico, insegue un ideale di perfezione suggerito da un padre assai oppressivo. Il primo si allena meticolosamente, tenta di sottrarsi alle pressioni degli sponsor, testa le sue racchette salendo sulle corde a piedi nudi e osserva un preciso, nevrotico rituale a ogni partita. Il secondo si stordisce di musica rock, gioca a flipper e frequenta party. Il “gentiluomo” e il “villano”: entrambi vogliono vincere, ma nel tennis importa anche come vinci, per questo secondo alcuni non è uno sport adatto a tutte le classi sociali. Ma quell’incontro cambierà molte cose, nel tennis e nella vita dei due protagonisti. «Se perdo nessuno saprà che ho vinto quattro Wimbledon di seguito, ma tutti ricorderanno che ho fallito nel quinto», teme Borg, cupo e tormentato fino a quando lo vedremo inginocchiarsi sul terreno e baciare per la quinta volta la coppa. McEnroe perde ma è finalmente diventato un uomo e un vero campione. Tra i due è l’inizio di una grande amicizia perché, come dice il regista, «erano due personalità agli antipodi, ma solo tra di loro riuscivano veramente a capirsi. Il nostro obiettivo era quello di raccontare uno straordinario percorso umano dietro la leggenda». Il tennis tornerà anche in chiusura del Festival di Zurigo con il film La guerra dei sessi di Tim Story (nelle nostre sale il 19 ottobre) sulla famosa sfida tra Bobby Riggs, tennista ormai cinquantenne, e Billie Jean King, neo star del tennis femminile.

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Challenger Ortisei, Seppi torna a casa: «Riparto da qui» (Luca Tommasini, Corriere dell’Alto Adige)

Il grande tennis torna in Alto Adige. E dopo tre anni allo Sparkasse Atp Challenger in Val Gardena farà il suo ritorno anche il beniamino di casa, Andreas Seppi. Per garantire la partecipazione del 33enne tennista di Caldaro, il comitato organizzatore ha deciso di disputare questa ottava edizione non in novembre, bensì dal 7 al 15 ottobre. Seppi tornerà così sui campi veloci di Roncadizza, sui quali ha sempre dimostrato le sue grandissime qualità con 14 vittorie su 15 partite e due trofei nel 2013 e 2014. Un successo al primo turno di quest’anno significherebbe la vittoria numero 100 per Seppi a livello Challenger in carriera. Martedì 10 ottobre alle 18 il numero 85 al mondo farà il suo esordio nel torneo. «Negli ultimi due anni ho dovuto rinunciare al torneo per via dell’infiltrazione all’anca programmata sempre per i primi di novembre. Quest’anno ho già fatto un’infiltrazione dopo Wimbledon, quindi potrò giocare più a lungo. Spero di disputare un buon torneo e di ottenere un bel risultato, ne avrei bisogno dopo le ultime settimane sottotono». Il torneo si preannuncia di altissimo livello: oltre a Seppi, altri tre giocatori compresi tra i primi 100 al mondo hanno confermato la loro presenza: il francese Pierre-Hugues Herbert (67 Atp e fresco vincitore degli Us Open nel doppio), lo slovacco Norbert Gombos (84 Atp) e il rumeno Marius Copil (86 Atp). Poca Italia invece presente al torneo gardenese: oltre a Seppi entrano di diritto solo Salvatore Caruso e Stefano Napolitano, campione in carica dopo la vittoria del 2016 contro Alessandro Giannessi. Per le wild card invece il comitato organizzatore è in contatto con lo spagnolo Tommy Robredo, ex numero 4 al mondo, e con il connazionale Alejandro Davidovich Fokina, l8enne giovane promessa già vincitore del torneo juniores di Wimbledon. «La scelta di anticipare il torneo di un mese si è rivelata azzeccata — ha spiegato Ambros Hofer, direttore del torneo — in questo modo possiamo essere onorati della presenza di ben quattro top 100, che rappresentano un bellissimo biglietto da visita».

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