Mercoledì da leoni: David Pate a Tokyo 1987

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Mercoledì da leoni: David Pate a Tokyo 1987

Nuovo appuntamento con le imprese più o meno grandi compiute da tennisti non particolarmente noti al grande pubblico. Cosa successe al Japan Open di Tokyo nel 1987?

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Dunque era quello il regalo speciale per il suo 25° compleanno? Un biglietto per giocare sul campo che ancora odorava di vernice fresca dell’Ariake Coliseum? Grazie, un’idea meravigliosa ma, eventualmente, già che c’eravate non potevate pensare anche a un avversario appena più abbordabile? David Pate lo sapeva fin dalla compilazione del tabellone che, nel caso, il 16 aprile del 1987 avrebbe dovuto incrociare la racchetta con il migliore di tutti. All’inizio, inutile negarlo, gli era parsa una splendida prospettiva perché in tal caso significava che avrebbe passato due turni, circostanza che in quella stagione gli era riuscita solo due settimane prima in quel di Chicago, dove poi aveva raggiunto la finale per perderla con il connazionale Mayotte. A proposito di connazionali, 29 dei 56 partecipanti erano statunitensi e messa così potrebbe anche sembrare che, se al tempo ci fosse stata una Laver Cup, magari il TeamWorld avrebbe compreso europei e resto del mondo contro gli USA. Ma sappiamo bene che non sempre quantità e qualità vanno a braccetto e, a voler essere proprio pignoli, dei tre “americani” inseriti tra le prime otto teste di serie l’unico autentico era Jimmy Connors perché sia Ivan Lendl che Johan Kriek avevano avuto natali assai distanti dagli States.

David invece era un californiano purosangue, di Los Angeles, luogo in cui il padre Chuck negli anni della Seconda Guerra scambiava pallate nei campi pubblici con un amico autodidatta, nato nei quartieri messicani della città degli angeli, tal Ricardo Alonso Gonzalez, che in futuro avrebbe cambiato di una consonante (l’ultima) il cognome, non sarebbe mai riuscito ad affrancarsi dal nomignolo “Pancho” ma sarebbe diventato così bravo con una racchetta in mano che, dopo la sua morte, la celebre rivista Sports Illustrated scrisse di lui che “se il nostro pianeta fosse in pericolo e dovesse giocarsi la sopravvivenza a tennis, vorrebbe che al servizio ci fosse Pancho Gonzales”. E proprio l’amicizia tra Chuck e Pancho favorì il trasferimento della famiglia Pate dalla California al Nevada, quando cioè Gonzales si ritirò definitivamente dall’attività agonistica e, divenuto direttore del settore tennis al Caesars Palace di Las Vegas, volle vicino a sé il compagno di giochi dell’adolescenza. Era il 1973 e Las Vegas era già “Sin City”, ovvero la città del peccato, tanto che se cinque anni più tardi Stephen King l’avrebbe immaginata distrutta dalla bomba atomica nel suo best-seller post-apocalittico “L’ombra dello scorpione”. Ma la realtà del giovane David era ben distante dalle tentazioni: tennis, insieme al fratello Chuck junior, e scuola, fino all’iscrizione alla Texas Christian University dove nel 1981, insieme a Karl Ritcher, vinse il titolo NCAA in doppio.

Per alcuni giovani universitari statunitensi, lo sport rappresenta un’opportunità per finanziarsi le rette attraverso borse di studio e anche per completare gli studi David ritardò il suo ingresso nel mondo dei professionisti, che avvenne solo nel 1983 dopo aver accumulato circa una dozzina di apparizioni in veste di dilettante nelle due stagioni precedenti. Difficile stabilire se l’azzardo per cui era celebre Las Vegas abbia influenzato la filosofia di David o se invece quella di attaccare ogni palla possibile fosse stata fin dal principio una precisa attitudine, sta di fatto che il più giovane dei Pate non tardò a farsi largo nel ranking dell’Associazione Professionisti: in 22 mesi entrò nei primi 100, nel 23° fece il suo ingresso nella Top-50 dalla quale sarebbe uscito solo il 20 febbraio 1989. Ma, rincorrendo i pensieri come al solito, corriamo il rischio di deviare dalla retta via e precorrere i tempi.

Lì, in quella città ma non in quel luogo, erano depositati i ricordi della sua prima e unica vittoria nel circuito, avvenuta due anni e mezzo prima nel mese di ottobre, quando ancora Tokyo era fulgida e ricca e ospitava due tornei consecutivi, il secondo con la metà dei partecipanti (32 contro 64) e il triplo del montepremi. Questo era il Seiko e si disputava sul tappeto sintetico all’interno dell’avveniristico Yoyogi National Gymnasium, che Kenzo Tange aveva progettato per le olimpiadi del 1964 e sembrava invece di stare a Gattaca, nel futuro. Era stato anche per la concorrenza sleale del fratello indoor che il Japan Open, la cui storia era sia pur di poco più antica – essendo nato nel 1973, un lustro prima del Seiko -, aveva preferito anticipare e questa di cui stiamo narrando alcune vicende era la prima edizione primaverile.

Anche in quella occasione, David era arrivato a Tokyo sull’onda di una finale conquistata e persa nelle Hawaii contro il connazionale Marty Davis. Poi però in Giappone aveva infilato sei vittorie in due set, le ultime tre delle quali contro pronostico (lui era 65 al mondo) nei confronti di Krishnan (36), Gilbert (29) e Terry Moor (42). L’anno successivo, chiamato a difendere il titolo, si era fatto battere al terzo turno da Jonathan Canter, numero 100 del ranking; peggio ancora era andata nel 1986 quando sì, aveva raggiunto i quarti ma per cedere con un doppio 6-3 a Kelly Jones, addirittura 479esimo giocatore del mondo. Insomma, la festa era finita quasi subito e in quei due anni e mezzo i contrattempi erano stati superiori agli acuti. Un paio in tutto, gli acuti: le vittorie contro i top-ten Krickstein (a La Quinta) e Edberg (a Wembley) in un bilancio complessivo che lo vedeva però 2-11 contro i primi dieci. Numeri, che spesso aiutano a capire ma non sempre dicono tutta la verità. Ed eccoci dunque a quel fatidico giovedì 16 aprile in cui c’era da spegnere una torta con 25 candeline e un candelotto di dinamite con le sembianze del n°1 del mondo: Ivan Lendl.

Per l’ex cecoslovacco, possessore di una green card in attesa di diventare statunitense ad ogni effetto, non era stato un inizio anno particolarmente positivo. Per i suoi standard, naturalmente. Due tornei giocati, nessun titolo: semifinale a Melbourne (sconfitto da Cash) e finale a Key Biscayne (battuto da Mecir). Aveva giocato poco, Ivan, e ancora non era ossessionato dal demone di Wimbledon, per cercare di vincere il quale qualche anno più tardi avrebbe addirittura rinunciato al Roland Garros. Così, dopo aver fatto tappa a Tokyo, il sovrano del ranking sarebbe sceso sulla terra europea prima di Londra e del ritorno negli Stati Uniti.

Gli ultimi avversari del Pate ventiquattrenne erano stati due connazionali; il qualificato Robert Van’t Hof e Jon Levine, che gli aveva strappato un set. Lendl invece era entrato direttamente al secondo turno dove Richard Matuszewski, americano di padre (e madre) polacco, non era andato oltre una dignitosa difesa. I tre precedenti con Ivan erano stati, per David, anche le uniche occasioni che aveva avuto in carriera di misurarsi con il padrone delle ferriere e ne erano uscite altrettante sconfitte, sia pur non tutte della medesima entità. Infatti, mentre nell’indoor di Tokyo (1985) e a Fort Myers (1986) il nostro eroe aveva incamerato sei giochi per volta, a Londra – sempre nell’85 – erano stati 135 minuti di una contesa complicata dalla pioggia battente che, filtrando dal tetto, aveva rischiato di trasformare la Wembley Arena in quello che era alla sua origine, ovvero una piscina. Alla lunga la contraerea del cecoslovacco aveva mortificato gli asfissianti raid a rete dell’americano che però si era preso il secondo set al tie-break e la soddisfazione di aver fatto penare il campione in carica del torneo.

Non pioveva invece sul cielo di Tokyo quando David Pate, californiano trapiantato a Las Vegas, colse al volo (anzi: al servizio e volée) l’opportunità di farsi il miglior regalo di compleanno e diventare così il 63° tennista capace di battere il n°1 del mondo da quando la classifica ATP era stata affidata al calcolo del computer e non più ai giudizi di esperti e giornalisti. Fino a quel giorno, Pate aveva un record leggermente negativo nei tie-break: 36 vinti (l’ultimo dei quali proprio qualche ora prima contro Levine) e 38 persi. Ma, come ricordato sopra, si era aggiudicato l’unico disputato contro Lendl. E diventarono tre su tre. Dopo 2h52’ di attacchi e difese, di volée e passanti e di estremo equilibrio, Pate e Lendl chiusero la sfida 18 giochi pari ma quelli decisivi del primo e terzo set furono appannaggio dell’americano (entrambi per 7 punti a 5, tanto per non farsi mancare nulla) che uscì vittorioso con lo score di 7-6, 4-6, 7-6.

Tanto per avere un’idea dell’impresa di Pate, dopo quella sconfitta Lendl infilò 33 vittorie consecutive sul duro, non perse più un match nella stagione in esame (aggiudicandosi i tornei di Washington, Stratton Mountain, Montreal, US Open e Sydney indoor) e interruppe la striscia nella semifinale di Melbourne 1988 contro Cash. Dal canto suo, galvanizzato dal successo Pate arrivò in finale battendo Kriek nei quarti e il compagno di doppio Davis in semifinale. Nell’atto conclusivo David si misurò con un altro specialista del serve-volley, ovvero la testa di serie n°2 Stefan Edberg, e dovette rimpiangere un doppio fallo e un errore di dritto che gli costarono il tie-break iniziale (7-2) e un passaggio a vuoto nel terzo gioco del secondo parziale, che decretò l’unico break della sfida. David annullò tre match-point quando servì sul 3-5 ma nel decimo game Edberg chiuse in scioltezza e allacciò con Tokyo quel feeling che lo portò ad essere l’unico (e per ben due volte: 1987 e 1991) a mettere a segno la doppietta nei due appuntamenti della metropoli nipponica.

Pate invece si ritagliò altre scampoli di gloria. Il primo arrivò solo qualche mese più tardi nella sua città natale, Los Angeles, quando mise in bacheca il secondo e ultimo titolo in singolare mettendo in fila promesse (Chang e Agassi) e realtà (Lundgren e Gilbert) prima di prendersi la rivincita sullo stesso Edberg con un doppio 6-4 sul campo centrale della UCLA Tennis Center. Il successo gli valse il best-ranking (18) ma fu anche una sorta di giro di boa anche perché nel frattempo le sue attitudini tecniche lo indirizzarono con sempre maggiore convinzione verso il doppio, specialità in cui nel 1991 divenne n°1 del ranking dopo aver vinto gli Australian Open in coppia con il connazionale Scott Davis.

Adesso David Pate festeggia i suoi compleanni insegnando tennis al Bally’s Tennis Club di Las Vegas e siamo certi che ogni volta non potrà evitare di accennare a quel 16 aprile 1987 in cui, nel nuovissimo Ariake Coliseum…

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