David Goffin: "Ero il mio primo avversario. Poi però..."

Interviste

David Goffin: “Ero il mio primo avversario. Poi però…”

David Goffin ha ricevuto Yves Simon a casa sua a Monte-Carlo appena prima di involarsi per l’Australia in vista di una promettente stagione 2018

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Introduzione e intervista originale di Yves Simon

Traduzione di Raoul Ruberti

Un sole che riscalda gli abiti invernali, un blu azzurro che scaccia le nuvole di una fine d’anno sempre cupa, le barche che brillano come in una cartolina: siamo a Monte-Carlo. Qui i membri del prestigioso Country Club, che offre una delle più belle viste del tennis mondiale, si allenano ogni giorno all’aria aperta, in maglietta, e sulla terra battuta. David Goffin invece ha optato per i campi più nascosti, in cemento, versione Australia.

Se non fosse per un vento più freddo al tramonto e per le decorazioni di Natale, l’una più kitsch dell’altra, ci si dimenticherebbe presto di essere a fine dicembre e che il tempo è ormai agli sgoccioli per il nuovo n.7 al mondo, in piena preparazione per il 2018. Ciò nonostante, David Goffin si è seduto al tavolo con noi davanti a questo panorama magnifico per una intervista molto personale.


David, grazie per averci ricevuti qui al magnifico Country Club di Monte-Carlo per i tuoi ultimi giorni di preparazione prima di raggiungere l’Australia. Stai per voltare la pagina di un formidabile 2017. Hai avuto per caso l’impressione di vivere un sogno a occhi aperti?
No in realtà, perché le mie ambizioni erano di livello molto elevato già dall’inizio della stagione. Partivo da un 2016 già molto buono (aveva concluso la stagione da n.11, ndr) e perciò volevo continuare sullo slancio e provare ad arrivare ancora più lontano. Mi sono preparato di conseguenza. Di questi tempi mi parlano spesso del mio finale di stagione ma l’inizio, fino al mio infortunio a Parigi, era già stato molto buono e solido. Ero partito bene per fare un buon Roland Garros…

Giustamente parli del tuo infortunio. A che punto sei con il ginocchio destro all’alba della stagione 2018? Abbiamo visto che ti alleni senza fasciatura.
Va molto meglio e le due settimane di riposo mi hanno fatto un gran bene. Adesso si tratta di un infortunio che è come una sorta di usura, per dirla grossolanamente, quindi ha bisogno di un trattamento a fondo che durerà ancora. Ma la buona notizia è che non mi causa alcun impedimento nel giocare in questo momento.

Hai passato due settimane di vacanze alle Maldive con i francesi Pouille, Tsonga e Herbert appena dopo la finale di Coppa Davis. Come hai gestito la cosa?
Ci siamo un po’ punzecchiati tra amici, all’inizio, ma tutto è trascorso molto semplicemente, non c’è stato alcun problema. Non ne abbiamo parlato praticamente mai, di fatto.

Avete giocato a tennis per passare il tempo?
No, abbiamo soprattutto fatto sport acquatici. Abbiamo anche giocato a calcio e a pallavolo, ma prima della vacanza vera e propria, in totale relax. Ogni tanto abbiamo parlato un po’ di tennis, ma non troppo. Lucas, Pierre-Hugues e Jo-Wilfried non li vedo come rivali ma come amici, anche se so che è piuttosto raro a questo livello. Sono state vere vacanze tra amiconi, uguali a come sarebbero state se non fossimo stati tennisti. Senza dimenticare che le nostre fidanzate vanno d’amore e d’accordo ed è quello che ha consolidato il gruppo all’inizio.

È vero che il primo avversario di David Goffin è proprio David Goffin con la sua enorme esigenza?
Lo è sempre di meno. Con la maturità, con l’esperienza, mi conosco meglio e gestisco molto meglio le situazioni esterne, che possono essere le condizioni di gioco difficili, un doloretto da qualche parte, un contrattempo, un’erbaccia su un prato splendido (Sorride). Quando vedo il modo in cui sono riuscito a gestire questo finale di stagione, nonostante il fastidio al ginocchio, mi rendo conto che è qualcosa che in altri tempi non mi sarebbe certamente mai riuscita. Mi avrebbe subito frustrato e innervosito, non sarei mai riuscito a rimanere concentrato sul mio tennis. Anche se sono ancora un perfezionista oggi e lo rimarrò. Pretendere molto da me stesso è la mia forza, anche se a volte è anche la mia debolezza.

Se ripensi alla tua infanzia, in quale momento hai sentito l’amore per lo sport?
Ho amato lo sport fin da quando ero piccolo, non ero iperattivo ma avevo bisogno di muovermi. Ho tentato con il calcio a sei anni, nel Fléron, ma è stato un disastro perché ero troppo timido. Stessa cosa per la pallamano che ho provato con il Beyne-Heusay. Integrarmi in uno sport di squadra, a quell’età, era qualcosa di troppo difficile per me. Ho subito preferito andare a giocare a tennis con mio padre che era insegnante a Barchon o con mia madre che anche lei giocava. È lì che ho incontrato Michèle Gurdal (quartofinalista agli Australian Open del 1979, ndr) che mi ha iniziato al tennis. Mi ci sono buttato a capofitto e non ricordo di aver passato più un giorno in cui non avessi voglia di prendere la racchetta!

E a quanto ne sappiamo, si è subito visto qualcosa in te…
Sono stato subito portato per il tennis. Soprattutto avevo quello che si chiama “occhio”, la capacità di leggere bene le traiettorie della palla e di anticiparle. Ho avuto subito un’ottima coordinazione e la velocità nei movimenti. E quella non mi ha mai abbandonato…

Lo chiameresti un dono?
Penso di sì. Dopodiché è qualcosa su cui bisogna anche lavorare. Il fatto che anche all’epoca fossi minuto, in rapporto ai ragazzi della mia categoria, mi ha spinto a sviluppare questo che è stato il mio punto di forza. Non potevo giocarmela sulla forza fisica, quindi dovevo trovare altre soluzioni per uscirne. Dopo sono cresciuto e ho avuto più forza fisica, ma ho conservato quelle armi. Questo spiega in gran parte tutto il mio tennis attuale.

A quale punto hai cominciato a dire a te stesso che avresti potuto fare carriera in questo sport? Tuo padre parla di una finale giocata a un torneo junior a Milano quando avevi 16 anni…
Mio padre dice così, è vero, ma io me lo ero sentito un po’ prima. Già da prima dei 16 anni, avevo sentito che iniziavo a prendere forma, che avevo una buona base e sapevo ciò verso cui volevo andare. Poco a poco ho sentito che le cose andavano al loro posto.

Questa mentalità di uomo da sfida da dove viene?
È scritta nel mio carattere. Piccolino, è destino che io debba sempre battermi contro qualcuno di più forte. È un gioco che adoro, in tutta sincerità. Amo dover cercare e trovare delle soluzioni. Se sto perdendo a qualsiasi gioco, cerco sempre di trovare una soluzione per venirne fuori quanto prima e ne traggo soddisfazione.

Parli di carattere, da chi hai preso di più?
Ho preso soprattutto da mia madre. Questa specie di timidezza, questo carattere introverso, questo modo di voler tenere tutto dentro e cercare di controllare ogni cosa…

Tua madre che è una persona molto riservata in rapporto alla tua carriera…
Sì, è molto discreta… come me. Se fossi al suo posto, farei lo stesso. Ciò non significa che non sia presente per me. La viviamo molto bene così e non vorremmo che le cose cambiassero.

Tuo padre invece è più spesso in giro per il circuito. Cosa hai preso da lui?
Sicuramente il suo lato più perfezionista, più “cartesiano”. È maestro di tennis, quindi è naturalmente più interessato al circuito e ha anche più possibilità di seguirmi rispetto a mia madre, che è limitata dal suo lavoro in una fabbrica che produce fibre di vetro.

Tuo fratello Simon ha anche lui una carriera sul circuito, come coach della giovane russa Anastasia Pavlyuchenkova…
Siamo molto diversi noi due. Già dal punto di vista fisico, io ho preso dal lato Beckers, quello materno, biondo con gli occhi azzurri; lui più dal lato Goffin, scuro e più robusto. Abbiamo personalità davvero diverse, che non è un male. Ora che è nel circuito, ci vediamo quasi più di prima!

Quali sono i tuoi interessi, oltre il tennis?
Per prima cosa, devo ammettere che non ho molto tempo libero… Quindi, rimango sul classico. Ciò che conta per me è avere tempo per me stesso. Passare del tempo con Stéfanie, la mia famiglia, i miei cari: questa è la prima cosa che conta. Appena ho un po ‘di tempo libero, vado da loro.

La passione del vino che ha Thierry, tuo coach e grande conoscitore, ha cercato di condividerla con te?
Sì, mi ha iniziato un po’, ma non ho ancora abbastanza tempo da dedicarci, anche se adoro ascoltarlo parlare dei vini e della loro storia.

Sei contento dell’immagine che dai di te?
Io non cerco mai di dare una immagine, cerco di essere proprio come sono. Sono a volte un po’ deluso quando esce qualcosa sui giornali o quando vedo una foto che non mi rappresenta. A volte Thierry mi dice: “Ma che cosa hai fatto lì?” e io non posso rispondere altro se non che non era affatto ciò che volevo (Sorride). Ma in generale devo dire che va piuttosto bene e sono contento.

È importante per te essere d’esempio per i giovani?
Io penso di comportarmi bene e di avere un buon atteggiamento, in generale, per avere successo in ciò che faccio. Lo faccio come prima cosa per me stesso e dopo, se può avere un impatto sui più giovani, sì, è importante. Un ragazzo come Kyrgios è arrivato a far parte dei top, ma non penso che sia un esempio per i giovani sportivi australiani. È il suo modo di essere, così è. Ora vedremo se potrà ancora andare un po’ più in alto in questo modo, perché il talento ce l’ha… Io non mi riconosco affatto in questo tipo di atteggiamenti. Non mi vedrai mai arrivare in campo con le cuffie nelle orecchie… Ma c’è spazio per tutte le personalità, quindi non ho alcun problema. Non a tutti piace Kyrgios e quelli a cui non piace probabilmente preferiscono giocatori nel mio genere. È importante a livello personale perché non si tratta soltanto della mia carriera, voglio anche riuscire nel mio dopo-carriera. Se fossi un direttore, assumerei più volentieri uno Stefan Edberg che un… non facciamo nomi, qui (Sorride).

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