Bellucci: "Sospeso per 5 mesi dall'antidoping, ma innocente"

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Bellucci: “Sospeso per 5 mesi dall’antidoping, ma innocente”

Il popolare mancino di San Paolo svela di aver assunto inconsapevolmente una sostanza proibita. Sulla sospensione di 5 mesi, che terminerà a febbraio, l’ITF conferma la versione del brasiliano

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Stavolta, il refrain anno nuovo, vita vecchia è stato smentito, anche se non del tutto. Derubricato a luogo comune, frase buona per una discussione da bar. E dire che la bontà del motto sembrava essere stata confermata sui social dalle aspre critiche a una pratica ufficialmente messa al bando, ma tornata apparentemente in auge. Il presunto silent ban, che tale non era, comminato a Thomaz Bellucci per la violazione del protocollo antidoping dell’ITF. È stato lo stesso giocatore, fonte il sito brasiliano Globoesporte, a confermare in una conferenza stampa di essere stato sospeso, per 5 mesi a partire dallo scorso settembre, per la positività a un test.

Parliamo della scorsa estate, luglio per la precisione. Il torneo è quello di Båstad, la sostanza rilevata l’idroclorotiazide, un diuretico che copre altre sostanze dopanti, messo al bando dalla WADA. “Ho dimostrato che si è trattato di un’assunzione involontaria, frutto della contaminazione di un integratore”, afferma il tennista brasiliano, attualmente numero 112 della classifica ATP. “Non ho mai fatto uso di doping, né avrei mai pensato che un multivitaminico potesse contenere sostanze simili, seppur in dosi minime”, è la difesa di Bellucci. Che dal primo turno degli US Open, dove è stato sconfitto da Dustin Brown, non ha più colpito una palla. Ufficialmente per un infortunio al tendine d’Achille. Vista la concomitanza con la notifica della squalifica, il problema fisico risulta un po’ sospetto. E qui, a voler malignare, si torna alle note dinamiche da silent ban. Se non tecnicamente, di fatto.

Certo, non parliamo del tennista capace di strappare 5 giochi in un set – quando Federer ne vinse 4 in tutta la finale – al Nadal tritasassi del Roland Garros 2008. Né dell’ex numero 21 della classifica mondiale (2010), vincitore di 4 tornei del circuito maggiore. Ma il nome è conosciuto, proprio per questi trascorsi. E, in attesa di un comunicato ufficiale dell’ITF, arrivato ieri, che facesse chiarezza sull’accaduto, la notizia è corsa libera per il web, suscitando non poche polemiche.

Tecnicamente, non è silent ban, visto che il giocatore non ha accettato la sospensione preventiva. Impedendo di fatto la divulgazione dei risultati del test fino alla conclusione dell’istruttoria. Ma, la domanda è legittima: l’infortunio era vero?

La pratica del silent ban è stata vietata dall’emendamento all’articolo 13.3 del Programma Anti-Doping della federazione internazionale. In nome della massima trasparenza, affermava il suo presidente David Haggerty nel settembre 2016, ogni positività che avesse comportato una sospensione obbligatoria o volontaria sarebbe stata dichiarata con la massima tempestività. Onde evitare il diffondersi del venticello della calunnia, fra una fonata e un massaggio, per l’aria vaporosa dello spogliatoio. Dove i soliti ben informati giuravano che il vero sinistro di Tizio o Caio era l’aver fallito un controllo antidoping. Aggiungendo che l’incidente era stato affrontato, con la massima discrezione, sia dal controllato sia dai controllori. Insomma, accusato e sospeso in camera caritatis, finto acciaccato in pubblico. Secondo i calunniatori, una condanna scontata in contumacia, per volere di un tribunale che neanche si pronuncia. Un tale clima di veleni rischiava di minare la credibilità degli organi di governo del tennis. Proprio per questo, L’ITF era corsa ai ripari, modificando la regola tanto discussa.

Tralasciando le positività festaiole alla Gasquet o Hingis, non certo ricollegabili al miglioramento illecito delle prestazioni sportive, casi come il pasticcio Lepchenko, mediaticamente non di impatto quanto quelli di Cilic, Sharapova e, guardando ai nostri confini, di Sara Errani, oltre a ribadire quanto sia cruciale dissipare il benché minimo sospetto di opacità da parte di chi deve controllare, sollevano un’altra questione. Magari indigesta al partito dei colpevolisti, ma di cui l’intero movimento sportivo non può disinteressarsi. L’assunzione involontaria. Farà forse sorridere, di un riso sarcastico, l’idea che atleti seguiti da fior fior di professionisti possano commettere l’ingenuità di ingerire inavvertitamente sostanze dopanti. E che vengano accostati a medicinali destinati a chi soffre di patologie specifiche. Quadri clinici incompatibili persino con un’attività blanda, figuriamoci con il power tennis del terzo millennio. Ma, con il notevole affinamento delle analisi anti-doping, fra droghe e sostanze coprenti, il confine fra lecito e proibito è diventato sempre più labile e mobile (come dimostra il problema meldonium). Ciò che ieri era consentito, oggi diventa vietato. La legge, comunque, non ammette ignoranza, quindi nessuno sconto. Ma, contestualmente, aumenta il rischio che tutto si riduca a una questione di nanogrammi. E che, quindi, un brodo di pollo in cui cade una pillolina assunta da un familiare – perché no – condanni un atleta al pubblico ludibrio. Proprio per questo, l’unica strada è quella della trasparenza. Un’arteria a percorrenza veloce, dove non esistono inversioni di marcia o gincane da azzeccagarbugli. Solo regolamenti chiari – forse ancora migliori di quelli in vigore – e comunicazioni tempestive. Perciò, ci auguriamo che leggendo i risultati di un test WADA non si torni a parlare di connivenze, omertà in nome di interessi superiori, discrezionalità a seconda del nome scritto sulla provetta. E per ragioni ben più importanti della voglia che il nuovo anno porti con sé una grossa novità.

 

 

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