Dal basso verso l'alto: alle radici di Diego 'El Peque' Schwartzman

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Dal basso verso l’alto: alle radici di Diego ‘El Peque’ Schwartzman

A Buenos Aires, dove è cresciuto, El Peque insegue il secondo titolo in carriera. Mamma Silvana racconta il suo viaggio, partito sfidando i pochi centimetri e la povertà con un mestolo, dei braccialetti e l’affetto della famiglia

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L’Argentina confida in lui, per rivedere in questa settimana un tennista di casa alzare il trofeo dell’Open di Buenos Aires dieci anni dopo David Nalbandian. Diego Schwartzman non ha il phisique du role per fare l’uomo-copertina, ma compensa con lo sguardo vispo e penetrante. È abituato a dover rincorrere in salita, tra le difficoltà strutturali e ambientali che gli ha presentato la vita. A 13 anni un medico provò a mettere un tappo ai suoi sogni di diventare un tennista di alto livello, preannunciandogli (con buona cognizione di causa) che non avrebbe superato mai il metro e settanta di altezza. Dieguito la prese male e provò a scoraggiarsi.

Senza riuscirci. Perché ha dovuto fare i conti – fortuna sua – con la tempra di mamma Silvana. Anche lei una vita da mediano e quella garra utile, da quelle parti, a ritagliarsi un posto nel mondo. Una sua intervista è stata pubblicata sul sito ATP, in queste giornate del torneo. “Mio figlio mi disse che non avrebbe mai fatto niente di buono negli anni successivi, se il medico avesse avuto ragione. Gli dissi che sbagliava, e che l’altezza non avrebbe dovuto stroncare i suoi sogni. Io sapevo che avrebbe potuto eccellere, ecco perché l’ho spinto a combattere”.

DAL CALCIO   Il conto in banca degli Schwartzman non autorizzava esercizi di fantasia, con quattro figli in casa. Diego iniziò con il calcio, più immediato, più economico. Con quel nome, poi. È un mondo che ancora oggi gli appartiene e dove non ha smesso di coltivare amicizie, Paulo Dybala su tutti.

Tra gli otto e i dieci anni fece la trafila nella stessa società dove è cresciuto il suo idolo, Juan Roman Riquelme. Le doti per eccellere non gli avevano però baciato i piedi, bensì le mani. Mamma Silvana – tennista amatoriale – se ne accorse tra le mura di casa, quando gli vide colpire una pallina contro il muro armato di un mestolo da cucina. E così la conversione. E le prime partite. “Nonostante fosse così basso e non arrivava nemmeno alla rete – è il racconto commosso e insieme divertito – non ha mai voluto giocare con una racchetta junior. Ha sempre utilizzato una racchetta normale e finiva per battere quelli più alti e grossi di lui”.

Tra gli otto e i dieci anni fece la trafila nella stessa società dove è cresciuto il suo idolo, Juan Roman Riquelme. Le doti per eccellere non gli avevano però baciato i piedi, bensì le mani. Mamma Silvana – tennista amatoriale – se ne accorse tra le mura di casa, quando gli vide colpire una pallina contro il muro armato di un mestolo da cucina. E così la conversione. E le prime partite. “Nonostante fosse così basso e non arrivava nemmeno alla rete – è il racconto commosso e insieme divertito – non ha mai voluto giocare con una racchetta junior. Ha sempre utilizzato una racchetta normale e finiva per battere quelli più alti e grossi di lui”.

PICCOLA IMPRESA – Il problema a quel punto – in Argentina siamo in piena crisi economica – era dare sostentamento agli albori della carriera di Dieguito. Il tennis non consente un approccio propriamente low cost, specie se l’attività di famiglia, in questo caso un’azienda di bigiotteria e abbigliamento, finisce in disgrazia. Dal magazzino, la signora Schwartzman tirò fuori il jolly: dei braccialetti colorati destinati a raccolte fondi per beneficenza, che però improvvisamente tornarono di moda. Al punto da cavalcare l’onda (intuizione di papà Riccardo) rilanciando una mini iniziativa imprenditoriale: perché non produrre gli stessi braccialetti, ma con i loghi delle squadre di calcio?

Il prezzo invitante (tre pesos) innescò il passaparola e così l’iniziativa prese piede, generando un piccolo business in giro per i tornei dove mamma Silvana accompagnava Dieguito. E dove entrambi si trasformavano in venditori. Tutti i soldi che abbiamo intascato in quella maniera li abbiamo poi investiti negli hotel dove giocava Diego, ma non spendevamo mai più di 20 pesos per notte. Sul livello dell’hospitality, meglio soprassedere.

LA SFIDA DI OGGI – “Tutto quello che abbiamo passato ci fa apprezzare infinitamente di più dove Diego è arrivato adesso, a 25 anni. Senza gli sforzi di tutti noi, di suo padre, dei suoi fratelli e delle sue sorelle, non sarebbe mai dove lui è ora”. Mamma Silvana si congeda così, orgogliosa di quel piccoletto che non dimentica mai le sue radici. Il metro e settanta che gli è valso il soprannome di Peque non gli ha impedito di chiudere un gran bel 2017, dove si è spinto fino ai quarti degli Us Open. A 25 anni, l’ingresso nella top 25 lo ha consacrato tra i grandi. A Melbourne si è fermato agli ottavi, ma il torneo di casa gli offre ora l’occasione di provare ad arricchire una bacheca dove campeggia un solo trofeo: Istanbul 2016. In assenza di del Potro, l’Argentina tifa Diego anche nel tennis.

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