Federer, radiografia di una carriera e ragioni di un dibattito

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Federer, radiografia di una carriera e ragioni di un dibattito

Radiografia delle cinque partite che hanno aperto il dibattito sul GOAT

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Dai nostri divani giudichiamo quando le partite sono finite. E come nella settimana enigmistica uniamo i puntini delle vittorie convinti che il risultato finale coincida con la carriera. È l’invincibile potenza dei numeri. Ci sono però dei match che per carico simbolico, per investimento emotivo, per significati rappresentano delle sliding doors nelle carriere dei tennisti. Il futuro, quello vero, passa da lì. Da quelle partite speciali. Nell’infinito rosario di Federer le sliding doors sono 5.

NEW YORK 2005. GLI ANNI ’90 VANNO IN ARCHIVIO

Prima porta. 2005. NY. Finale. Roger è già il numero uno. Ha già cinque Slam. Si capisce che in quel ragazzo c’è qualcosa di speciale. In finale incontra Agassi al suo ultimo giro sul grande palcoscenico. André ha 35 anni e vuole fare come Pete. Salutare a N.Y. il mondo del tennis con le braccia alzate. Se lo merita. Lo sport vive per storie come queste. Il vecchio campione è tirato a lucido, un anno e mezzo prima è stato il più anziano numero uno del mondo di sempre ed è deciso a usare il suo anticipo futuristico fino alla morte. Il prototipo del giocatore del futuro vuole firmare con inchiostro d’oro la sua strana e stupenda carriera i cui contenuti vanno oltre il numero di Slam vinti. Roger vince il primo set. André il secondo. Nel terzo vanno al tiebreak. È la sliding doors. “Roger va in un posto che non conosco” dice Agassi nella sua autobiografia. 7-1 e buonanotte. Federer completa il ciclo aperto con la vittoria su Sampras, archivia gli anni ’90 e comincia a giocare in un circuito parallelo. Comincia una nuova era.

Ps. Chi è convinto che abbia cominciato a tirare il rovescio coperto nel 2017, riguardi quella partita.

ROMA 2006. IL RE NON È SOLO

Seconda porta. 2006. Roma. Finale. Più o meno in quell’anno non ce n’è per nessuno. Doha, Australia, Miami, Indian Wells, Halle, Wimbledon, New York, Tokyo, Madrid, Basilea, Masters e un paio di finali. Gente che stava tra i primi dieci giocatori al mondo polverizzata senza nemmeno sudare. Si cominciano a fare i paragoni con l’incredibile 1984 di Mac. Se arrivasse imbattuto a fine anno con Grande Slam, festival di San Remo, allunaggio su Marte e nomination agli Oscar non si stupirebbe nessuno. Invece a Roma lo aspetta una sliding door con un nome e cognome: Rafael Nadal. L’altra pietra focaia che ha proiettato l’intero circuito tennistico dentro la New Golden Age. Nonostante fosse già sotto negli scontri diretti in cuor suo era convinto che le sconfitte con Nadal fossero frutto del caso, o della terra, o della kriptonite, o roba così. Fino a Roma il sentimento della paura gli era sconosciuto. Sapeva che per vincere doveva solo respirare piano e colpire a tutta la palla. Respirare piano e colpire la palla a tutta. Anche con Nadal. Soprattutto con Nadal. E così ha giocato. Senza paura. Colpendo a tutta. Per l’ultima volta (fino a Melbourne 2017). Fino agli ultimi dritti buttati in rete per liberarsi dello scambio. Quella sliding door ha gettato le basi sulla più grande aporia della storia del tennis. Federer è più forte di tutti ma Nadal è più forte di Federer. Queste due affermazioni, entrambe vere e inconciliabili tra loro hanno riscritto la storia del tennis, e del tifo. Sono state il motore drammaturgico del nuovo millennio. Da quel giorno il Re non è solo e deve convivere con un nemico nuovo, la paura spagnola.

PARIGI 2011. DOVETE ANCORA FARE I CONTI CON ME

Terza porta. 2011. Parigi. Semifinale. Gli Slam sono 16. Gli anni trenta. I giovani avanzano. Djokovic ha messo la freccia. Ha preso le misure anche a Nadal. Piglia tutto. Non si stanca mai e fa male sia a destra che a sinistra. Viene da 43 vittorie consecutive. Tre di queste con Roger. Sul duro. Si ritirano fuori le annate eccezionali. Mc 1984, Federer 2006 e Nole 2011. Potrebbe essere l’inizio di una nuova era. L’anno prima per Roger solo uno Slam in Australia. A Wimbledon addirittura buttato fuori ai quarti. Anche se sottovoce si comincia a parlare di declino. Forse un colpo di coda a Londra, ma non molto di più. Con 16 Slam è già il più grande, si apre il dibattito sul GOAT ma comunque adieu Roger mon amour. È stato davvero bello. Più che una sliding door la semifinale di Parigi dovrebbe essere un’esecuzione. E invece Federer mostra una cosa grande come una montagna da sempre nascosta dalla luce dei suoi gesti bianchi: l’orgoglio. Dalla sua vecchia racchetta esce una partita monstre. Quattro set. Ciao Nole. Tranquilli, non me ne vado. Non ancora. Dovete ancora fare i conti con me. Tutti quanti.

INTERO GIORNO. UNA TELEFONATA. ROGER III L’ILLUMINATO [1]

Quarta porta. Una mattina.

  • Pronto Stefan?
  • Sei libero il prossimo anno?
  • Lo so che non ti occupi più di tennis. Non sto cercando un allenatore.
  • ?
  • Un’ispirazione.

a) Cincinnati 2015. Finale. Doveva essere già morto. Poi è rinato. Ma prima o poi morirà. Gli anni sono 34, gli Slam 17 e l’altro è un robot. “Ma come facevi Stefan a giocare contro Lendl senza dritto?”. “Andavo avanti”. “Ma come facevi…”. “Andavo avanti”. “Ma…”. Andavo avanti”. E allora andiamo avanti Stefan. Sempre. Quando batto. Quando picchio. Quando rispondo. È già finita? Ciao Nole. Perché mi guardi così. Si chiama SABR.

b) Wimbledon 2015. Semifinale. A 34 anni i cinque set son un altro sport. Sul duro, e al meglio dei tre, può fare male a tutti ma i cinque set sono un’altra storia. Lo dicono tutti. Tranne Stefan che dice solo “avanti”. Dall’altra parte in semifinale c’è Murray, la donna invisibile dei fantastici quattro. Dicono che è il suo anno. Prima della partita Roger fissa Edberg, si guarda allo specchio e fa un giuramento: “I miei game non dureranno più di sessanta secondi”, “i miei game non dureranno più di sessanta secondi”. Chi era sul centrale lo racconterà ai nipoti. Tuoni, fulmini e carezze. A mille all’ora. Tre set d’imbarazzante perfezione condite da questo colpo (minuto 1,55). Appena incontro Baldissera gli chiedo come ha fatto. Io non l’ho ancora capito. Avessi il numero dell’aldilà lo chiederei anche a Wallace e a Lombardi. Se quel giorno ha piovuto da qualche parte erano le loro lacrime. Ma con Nole non basta.

MELBOURNE 2017. SI CHIUDE UN CERCHIO, SI APRE IL DIBATTITO

Quinta porta. 2017. Melbourne. Finale. Stefan ha fatto il suo. Roger ha incorporato la verticalità. Ma non basta. Ljubicic gli ha detto siamo nel 2000. Nessuno ha il tuo anticipo, fai quello che sai fare ma fallo un metro avanti. Non devi giocare come negli anni ottanta, devi ottantizzare il secondo millennio. E dopo uno stop di sei mesi, davanti agli ottanta.duepuntozero, (Sampras che anticipa come Agassi) cadono tutti. Berdych, Nishikori, Stan, e chi si ritrova in finale? Il vecchio Rafa. La sua sliding doors più crudele. Il grande neo tra lui e il GOAT. E per la prima volta dopo 11 anni gioca senza la paura. Dove aveva pianto. Con chi aveva sempre perso. Dopo quattro anni senza Slam. Con fulmini anticipati di rovescio Roger vola su un pianeta parallelo che nessuno aveva mai visto e riscrive retrospettivamente la sua carriera e probabilmente la stessa storia del tennis. Se con la prima Sliding doors aveva archiviato la generazione che lo ha preceduto con quella australiana è stata quella successiva ad andare in soffitta. Il dibattito impossibile sul GOAT da Melbourne, ma solo da Melbourne, è ufficialmente aperto. Gli Slam successivi aggiungeranno legna ma non modificano un incendio ormai diffuso che può avere solo due risposte sensate:
1) non si possono comparare epoche diverse
2) Roger Federer.

Per quei pochi che non sono soddisfatti dalle due risposte, e sono convinti che i numeri, in fondo, sono solo numeri, ripropongo la posizione di Gianni Clerici più poetica: Il Dio del Tennis manda sulla terra ad ogni generazione almeno un immortale. Un uomo in grado di incarnare con i suoi gesti bianchi l’essenza del tennis. Fare i paragoni tra i vari immortali è un’operazione abbastanza stucchevole, non perché sono diverse le superfici, gli attrezzi, il numero di tornei, ecc. ma perché in fondo stiamo parlando di semplice e banale reincarnazione.

[1] Rubo il titolo a Picasso Petzshchner, il mio scrittore di tennis preferito. Per la cronaca della partita vedi qui

 

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