Ljubicic, il confessore di Roger Federer: "Occorre saper ascoltare"

Interviste

Ljubicic, il confessore di Roger Federer: “Occorre saper ascoltare”

L’ex campione croato si è concesso ai microfoni per la prima volta da quando è nel team Federer. “Il segreto sta nell’essere il meno ingombrante possibile”

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Il passaggio dal campo alla panchina è stato estremamente breve: smessi i panni del giocatore professionista nell’aprile del 2012 con dieci titoli in bacheca e la perla intascata a Indian Wells due anni prima, Ivan Ljubicic è stato subito accalappiato da notissime emittenti televisive che ne hanno fatto un commentatore di punta. Tuttavia, la giusta nomea di sommo conoscitore del mondo della racchetta che da sempre lo accompagna ha fatto si che molti giocatori in attività, anche di grido, spingessero per averlo nei propri staff. Malato confesso di tennis, il vecchio Ljubo non ha saputo resistere a lungo al richiamo del court, e poco più di un anno dopo aver appeso al chiodo l’attrezzo del mestiere si è ritrovato con un incarico di primissimo rilievo nella squadra di Milos Raoinic, al fianco di quel Riccardo Piatti che ne seguì l’intera epopea da atleta.

Due anni ricchi di impegni e soddisfazioni, terminati con un bagaglio certo stipato di esperienze utili ad apprendere l’arte del demiurgo al servizio di un potenziale campione in rampa di lancio, ma la svolta sarebbe ancora dovuta arrivare. Quando giunge la chiamata di Roger Federer che fai, riattacchi? Difficile. Così Ivan dall’inizio del 2016 siede al fianco di Severin Luthi, e si può dire che i risultati raggiunti dalla coppia siano finora stati discreti: in un anno e mezzo, al netto dei celeberrimi sei mesi di stop, la leggenda svizzera ha conquistato nove trofei in undici finali, tra cui tre Slam e altrettanti Masters 1000. La settimana scorsa, durante la campagna di Rotterdam, Roger ha posto sulla torta la proverbiale ciliegina, tornando in testa al ranking ATP 1933 giorni dopo l’ultima volta, quando nessuno osava nemmeno sperarci più, a trentasei anni e mezzo.

È probabile che, nella terrificante risposta di Federer alle campane a morto che incessantemente hanno suonato nei lunghi anni degli acciacchi fisici, Ivan Ljubicic abbia fatto la sua parte: senza strillare, stando lontano dalle luci dei riflettori. Da quando collabora con l’attuale numero uno, l’ex numero tre ATP è stato a debita distanza anche da microfoni e taccuini, ed è tornato a concedere un’intervista proprio a Rotterdam, la settimana scorsa: “La cosa fondamentale è mettersi in testa che bisogna ascoltare, ascoltare e ancora ascoltare. Il giocatore decide, domina la scena, com’è normale e giusto che sia. Ognuno ha le proprie idee, le proprie convinzioni, anche le proprie ubbie. Nessuno può pensare di mettersi al lavoro e imporsi da subito, come una primadonna, soprattutto se la collaborazione inizia nel mezzo di una stagione“.

Considerazioni figlie di una riflessione profonda, lontane dal caso, com’è nello stile dell’uomo. Un atteggiamento interessante e non banale: non è da tutti abbandonare il proscenio cui è abituato un giocatore di successo e mettersi a sedere in disparte, preferibilmente in silenzio, per supportare le altrui esigenze. “Bisogna conquistare la fiducia del proprio assistito, far sì che sia convinto di poter comprare il prodotto che gli viene proposto. Si tratta di avere a che fare con equilibri delicati, occorre calibrare la necessità di essere credibili da subito con l’esigenza di introdurre strumenti utili ad apportare migliorie nel medio e lungo periodo. Non c’è nulla di più difficile, perché se i risultati non arrivano subito il giocatore tenderà a non fidarsi ciecamente di te, rendendo difficile il raggiungimento di qualsiasi obiettivo a lunga gittata“.

Proprio come l’esempio di scuola del calciatore che “aveva tutto dell’allenatore già quando giocava“, anche Ljubo portava le stimmate del tecnico, e l’atavica curiosità lo ha condotto a esplorare i contorni della professione in tempi non sospetti. Il destino che di lì a non molto lo avrebbe legato a Federer era già dietro l’angolo: “Quando ancora giocavo ho chiesto a Paul Annacone cosa significasse allenare. La sua risposta non mi ha mai abbandonato: mi ha detto che la cosa più importante sta nell’ascoltare, nello studiare, nel guardarsi continuamente attorno perché ovunque può annidarsi una conoscenza utile, anche nelle situazioni più improbabili. Con l’esperienza poi arriva, o almeno dovrebbe arrivare, la capacità di non superare la linea“. Già, la linea, simbolo e insieme percezione plastica del complicato equilibrio psicologico nel rapporto tra atleta e coach. “Sapere non ciò che bisogna dire, perché per arrivare a quello basta lo studio, ma quando dirlo, quando è necessario imporsi. A volte l’intromissione nella zona più sensibile della mente del giocatore è indispensabile, ma in alcune circostanze è altrettanto importante starne fuori, in silenzio. Anzi, ci sono casi in cui si coglie nel segno accettando che il giocatore cada facendo il contrario di quanto gli è stato suggerito“.

Una passione per la pallina di feltro fuori dal comune, contemporaneamente causa e conseguenza di risultati eccellenti anche stando dall’altra parte della barricata: “Viaggiare continua a entusiasmarmi, e fare il coach è la professione più vicina a quella del tennista, solo le emozioni hanno gradazioni leggermente più sfumate. La più grande differenza? Quando sono a casa non devo allenarmi, e ciò tende a fare la differenza, perché posso dedicare tempo di qualità a mia moglie e ai ragazzi“. Sempre un piacere starla ad ascoltare, caro vecchio Ljubo.

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