Il mondo e il tennis di Matteo Berrettini

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Il mondo e il tennis di Matteo Berrettini

INDIAN WELLS – Bella chiacchierata in libertà con il giovane azzurro. Le prime esperienze tra i grandi: sensazioni, speranze, obiettivi. Primo turno contro Medvedev da Lucky Loser

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da Indian Wells, il nostro inviato

La prima cosa che si nota, stando accanto al giovane tennista romano Matteo Berrettini, è che è davvero un ragazzone alto. Siamo ben oltre l’1.90, spalle quadrate, 85 chili di muscoli, insomma quello che si definisce un gran bell’atleta. E questa è solo una delle caratteristiche che lo distinguono dal prototipo del giocatore italiano, spesso brevilineo: un fisico perfetto per il power-game moderno, che Matteo interpreta in modo molto efficace, con risultati che lo hanno portato alla soglia dei top-100, l’elite mondiale del nostro sport. Ma oltre alla potenza del servizio e del dritto, c’è molto altro, e lo si può capire solo parlandoci per un po’ in modo rilassato, fuori dai consueti canali “istituzionali” delle sale interviste e degli incontri con i media. Il leggendario “prato” del Tennis Garden di Indian Wells, ovvero lo splendido spazio di erba verdissima e soffice, delle dimensioni di un campo da calcio, che si trova tra l’ingresso del ristorante giocatori e i campi di allenamento sul lato sud dell’impianto, è perfetto per fare quattro chiacchiere.

Oh, qui dove ti giri ti giri, vedi solo campioni, bisogna saper prendere quello che fanno meglio“, racconta Matteo, con una luce ammirata nello sguardo, quella di un bambino che va al luna park per la prima volta. Il primo giro di giostra a questi livelli, in effetti, Berrettini lo aveva fatto a Melbourne Park un paio di mesi fa, però qui in California l’atmosfera, l’ambiente e il relax che si respirano sono ancora più belli. E ha ragione: mentre mi parla del suo match perduto all’ultimo turno di qualificazioni passano accanto a noi Berdych, Thiem, Cilic, richiamati dai fan che si assiepano sulle transenne poco più in là, quel confine arbitrario eppure invalicabile che separa il pubblico dai privilegiati con un pass al collo come noi, che sia “Player” o “Media”. “Certo, non sono uno di quelli che chiamano gridando perché io vada là a firmargli gli autografi, ma un giorno mi piacerebbe esserlo“, spiega Matteo con un sorriso al contempo timido e sicuro di sé. Senza dubbio, è sincero. Ormai è scesa la sera, è quasi buio, la partita che gli è sfuggita al terzo set poche ore prima, come dice lui, “je rode ancora“. Ma come detto, si vede dallo sguardo che Matteo è un ragazzo sincero: “Le partite girano su pochi punti, lui si è meritato la vittoria più di me. Questo è il tennis, a volte non si riescono ad avere le sensazioni giuste, devo dire che l’avversario ha spinto, ha cominciato a spostarmi, non sbagliava e si muoveva bene“. Appunto.

Dispiace perché era la mia prima volta qui, ci tenevo a fare bella figura. Ma ci saranno altre occasioni, cominciando da Miami tra due settimane. Queste esperienze mi serviranno in futuro”. Gli chiedo se ci si sente bene, in mezzo all’elìte del tennis: “Qui è positivo per i giovani che arrivano, perchè puoi vedere come i più grandi si gestiscono, si allenano, quello che fanno per rimanere in cima tanto tempo. Proprio ieri con Vincenzo (Santopadre, il coach di Matteo, n.d.r.) parlavamo di David Ferrer, lui anni fa proprio a questo torneo l’aveva visto che stava sempre in palestra, e la gente diceva ma questo è sempre lì, fatto sta che ancora adesso lui corre come un matto e fisicamente è un treno. Credo sia questa la differenza più grande tra quelli che stanno al top per tanto tempo, e quelli che magari arrivano su, e poi tornano giù. Poi ovvio che bisogna avere delle qualità, però quest’aria qui è quella che ti fa lavorare bene, che ti stimola tanto“.

E quindi, in questi mesi di sensazioni da tennis del massimo livello, c’è stato qualcuno che ti ha copito particolarmente? “Ho visto un allenamento di Nick Kyrgios, e mi ha impressionato la facilità con cui gioca, è talmente rilassato che sembra quasi non sia del tutto presente, secondo me. Che servizio! …il lancio basso, tira a settemila e non la leggi. Ha tutti i colpi, risponde bene, una facilità mostruosa e per quanto è alto si muove pure bene. Talento impressionante“. Insieme a Lorenzo Sonego e a Salvatore Caruso, Matteo ha condiviso una splendida esperienza in Australia. “C’è un bel rapporto con gli altri giovani italiani, ovvio il tennis è uno sport individuale, ma ci si stimola a vicenda. Magari uno fa un gran risultato, e tu dici cazzarola, devo superarlo, e poi la settimana dopo lo fai tu. Credo che questo ci aiuti molto a spingerci sempre più avanti, ci sosteniamo tra noi, stiamo vivendo queste esperienze insieme per la prima volta, che siano gli Slam o i Master 1000. Tra quelli più esperti il mio punto di riferimento, oltre a Vincenzo, è Flavio Cipolla, che in questo momento sta riprendendo a giocare. Con lui ho un bellissimo rapporto, mi aiuta tanto. Ogni tanto mi sento con Paolo Lorenzi, che è un esempio da seguire non solo in ambito tennistico ma nella vita in generale, con la sua dedizione in tutto quello che fa“.

Mi colpisce il pensiero di Matteo soprattutto nel momento in cui, inevitabilmente, si ritorna a parlare di carriera, di punti, di ranking, di ingresso nella top-100, l’agognato traguardo che pare inevitabile per definire se uno è un “vero” professionista di livello internazionale oppure no. “Tu forse non mi crederai, ma io non gioco per raggiungere la migliore classifica, in questo momento. Io voglio stare bene in campo, assaporare fino in fondo queste esperienze, mettere ogni giorno un tassello in più e sentire che miglioro me stesso. Per esempio oggi non l’ho fatto, non mi sono goduto il momento. Chiaro che alla fine della carriera essere stato numero 20 o numero 90 cambia, eccome, ma l’importante è sapere di aver dato tutto. Può succedere che uno fa il suo massimo, e arriva a essere 101, perché non dipende poi solo da te, lo puoi desiderare quanto vuoi, ma ci sono pure gli altri. Alla fine, la cosa fondamentale è lavorare sempre su se stessi, ed essere felici magari anche solo di stare in un posto come questo, che è un vero paradiso del tennis“.

Rispetto a tante dichiarazioni preconfezionate che sentiamo anno dopo anno, torneo dopo torneo, intervista dopo intervista, ascoltare un ragazzo di 21 anni che riflette in questo modo è un gran motivo di ottimismo per il suo futuro, questo è sicuro. Ma modestie di rito a parte, Matteo è indubbiamente il nostro migliore prospetto, soprattutto valutandolo dal punto di vista tecnico. Nel suo essere un italiano atipico c’è il gran servizio, il gioco più adatto ai campi duri e medio-rapidi, anche se la terra rossa, il primo “amore tennistico”, non si scorda mai. Tornando alla tecnica, si parla della prima palla oltre i 220 kmh, del drittone, del rovescio che a volte scappa, ma in cambio c’è un ottimo slice e gran sensibilità sulle palle corte. “L’imprevedibilità è qualcosa su cui lavoriamo tanto, come dici tu di gran mazzuolatori ce ne sono a pacchi, la colpiscono bene e forte tutti. Se io adesso mi metto a giocare con il numero 700 tu non noti la differenza, perché effettivamente come colpi non c’è, magari uno serve meglio, un altro gioca meglio di rovescio, ma la differenza vera la fa il saper trovare l’arma giusta al momento giusto, e noi stiamo cercando di fare quello. Lo slice, sul cemento, è importantissimo, mi permette a volte di rifiatare, o di girarmi col dritto, sono schemi che sto anche scoprendo, insieme a Vincenzo e Flavio, che sono due che comunque giocavano solo in back da quella parte, e sto migliorando grazie a loro“.

Cosa direbbe Berrettini a un under, a un giovane che vorrebbe fare il suo percorso? Come si passa da “semplice” junior forte ai tabelloni principali di Slam e Masters 1000? “Io credo che la cosa fondamentale sia non avere fretta, non avere l’ansia di cercare di arrivare prima possibile, non mettersi orologi in testa che segnano obiettivi che poi magari uno non riesce a raggiungere. E non lavorare solo per il risultato, che è la mentalità più difficile da accettare quando sei piccolo. A 14 anni tu perdi una partita, e ti dicono che non è importante, tu guardi il maestro e gli dici sì, però mi rode. Ma quella è una cosa fondamentale, oltre alla vittoria e alla sconfitta ci sono tante altre cose da capire di un match, di cui magari negli anni non ti ricorderai nemmeno più, ma se sai prendere le cose giuste da quell’esperienza, il meglio, potrebbero essere tra quelle che ti fanno diventare un giocatore vero. Calma e serenità, io ho lavorato così, senza fretta di voler a tutti i costi avere il numerino più piccolo davanti al nome. Il consiglio che darei ai giovani è questo, e poi di godersi quello che fanno, perchè siamo fortunati“. Complimenti, sinceramente complimenti, Matteo.

Matteo Berrettini e Denis Shapovalov, Indian Wells 2018

Due giorni dopo questa conversazione, cioè oggi, Berrettini si è allenato con Denis Shapovalov, un bel training tirato di un’ora, in cui al super-rovescio del canadese, l’azzurro ha opposto il suo gran dritto, senza assolutamente sfigurare, anzi. E quasi come ricompensa per tanto impegno, nonchè con buona dose di ironia della sorte vista l’ammirazione confidatami mentre si chiacchierava, è arrivato mentre scrivevo il ritiro dal torneo per Nick Kyrgios, con Matteo Lucky Loser, atteso al primo turno dal difficile match contro il russo Daniil Medvedev, 57 ATP. Ma se abbiamo ben compreso il Berrettini-pensiero, su cosa trarre per crescere da vittoria e sconfitta, qual è il problema?

(ascoltate qui sotto l’audio integrale dell’intervista)

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