Mercoledì da leoni: il miracolo di Stefanki

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Mercoledì da leoni: il miracolo di Stefanki

Le imprese più o meno grandi compiute da tennisti non particolarmente noti al grande pubblico. Oggi facciamo tappa a La Quinta, anno 1985

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La quinta è ancora la stessa ma La Quinta, adesso, è solo un ricordo lontano. I rilievi rosati dal tramonto della California sono quelli di San Jacinto e più in là il sole si spegne nel Pacifico, oltre l’isola di Catalina. Basta però compiere una torsione di 180° e, non prima di  aver trovato un buon punto di osservazione – che, certo, potrebbe essere anche l’ultima fila del gigantesco Stadium 1 di Indian Wells -, ecco profilarsi all’orizzonte il deserto del Mojave, laddove gli innumerevoli fans degli U2 sentirebbero battere forte il cuore alla vista del Joshua Tree, come chiamano da quelle parti la Yucca brevifolia.

Una manciata di chilometri e di anni divide il presente dal passato; più gli anni, però: 33, come quelli di chi faceva miracoli. E in fondo, anche se non paragonabile, è di un miracolo che parleremo quest’oggi. Dunque, siamo all’Hotel La Quinta e il grande tennis di fine inverno (ma qui, capirete bene, la parola inverno ha un significato tutto suo) ha sostituito la ceramica con le penne. Il torneo del Grand Prix maschile ha infatti salutato il main-sponsor Congoleum e si è affidato al sostegno di un’azienda giapponese leader nel settore della scrittura: Pilot. Prima di trasferirsi definitivamente in California, il torneo che diventerà il Masters 1000 di Indian Wells vede i propri natali vicino ad un altro deserto, quello di Sonora. A metà dei ’70 a Tucson vincono due australiani, Newcombe e Alexander, poi il carrozzone viene spostato a Palm Springs, a Rancho Mirage e infine a La Quinta. Inevitabile che il torneo piaccia in particolare agli americani e dal ’76 all’84 sono proprio i padroni di casa a mettere le grinfie su sei delle otto finali disputate – nel 1980 il maltempo perdurante impedisce di andare oltre i quarti – ma il 1985 non è un anno qualsiasi per la geografia e la politica del tennis mondiale.

I tre principali organismi che gestiscono questo sport stanno vivendo alterne vicende. Il WCT del petroliere texano Lamar Hunt è un animale ormai agonizzante che esala gli ultimi respiri solo nelle finali di Dallas e nel nostalgico torneo dei campioni di Forest Hills; il Grand Prix ha trovato nella Nabisco una valida alternativa alla Volvo quale sponsor principale del circuito mentre l’ITF, che gestisce i quattro major, ha preso atto dell’inutilità di spostare gli Australian Open in coda alla stagione (avvenne nel 1977, quando a Melbourne si giocò sia a gennaio che a dicembre) e ha già fatto sapere che quella del prossimo novembre sarà l’ultima edizione in quel periodo e che si tornerà a gennaio del 1987, lasciando di fatto il 1986 con tre soli major disputati.

Pur ampliando progressivamente negli anni i posti a sedere attorno al centrale del La Quinta Hotel Tennis Club, la suggestiva location con il palmeto alle spalle dei gazebo con il tetto a strisce bianche e azzurre non poteva che essere una tappa interlocutoria sul viale della gloria tanto desiderata da Charlie Pasarell, il direttore del torneo. A quest’ultimo spetta anche il compito di assegnare le cinque wild-card e i primi nomi sono quelli di Edberg e Wilander; il primo ha appena trionfato a Memphis strapazzando in finale Yannick Noah, il secondo è n°4 del mondo e viene dalla vittoria di Melbourne. Gli svedesi però declinano l’invito e così, dopo i veterani Lutz e Smith, il promettente giovane Rick Leach e Dan Goldie (uno che fin lì ha giocato solo cinque tornei mettendo a segno però i quarti a Washington e la semifinale a Los Angeles nell’estate del 1984), la scelta ricade sul 143esimo tennista del ranking ATP: Larry Stefanki.

L’Illinois, dove il nostro leone è nato il 23 luglio 1957, ha dato i natali a giocatori ben più celebri, il primo dei quali è senz’altro la testa di serie numero 1 del torneo, ovvero Jimmy Connors. Se Jimbo da Belleville, a pochi passi da St.Louis, è stato il sole, Larry da Elmhurst, nei pressi di Chicago, non è nemmeno una stella lontana del firmamento. Stefanki a La Quinta è di casa perché proprio in quel club vive e si allena quando non è in viaggio ma, nel bel mezzo di una carriera che finora gli ha riservato gioie con il contagocce, non ha la classifica per entrare nel main-draw. È la terza volta che Larry gioca su quei campi. Nel 1982 si qualificò e perse al primo turno con Jaime Fillol; due anni dopo entrò direttamente in tabellone e venne sconfitto dal connazionale Scott Davis. Tutto nella norma, ci mancherebbe. Il 26enne arriva direttamente dalla Florida, Delray Beach dove, nel debutto stagionale, ha rimediato due giochi con Ivan Lendl nel match che passerà alla storia per l’abbandono della sedia da parte del giudice italiano Luigi Brambilla prima della fine delle ostilità.

Il Pilot Pen ha un tabellone composto da 56 giocatori e 16 teste di serie, le prime 8 delle quali saltano il turno iniziale. In assenza del cannibale John McEnroe e degli svedesi di cui sopra, c’è un solo logico favorito e non può essere che Connors, campione in carica e tre volte vincitore di questo torneo. Del resto, dando una sbirciata al campo di partecipazione, quali alternative credibili ci sarebbero? Aaron Krickstein (3), forse, o il rapidissimo Johan Kriek (4), più a loro agio sul duro di quanto non lo siano gli scandinavi Sundstrom (2) e Nystrom (5) o gli spagnoli Aguilera (7) e Higueras (8), che pure Josè meriterebbe rispetto perché appena due stagioni fa ha alzato la coppa non senza una certa sorpresa, lui terraiolo se ce n’è uno al mondo, che chiuderà la carriera con 16 titoli del circuito di cui 15 sul rosso.

Collocato nella seconda delle quattro sezioni in cui è suddiviso il tabellone, Stefanki è aiutato dalla sorte in quanto all’esordio pesca un qualificato, il connazionale dell’Alabama Kelvin Belcher che sta cercando di capire se il tennis professionistico sia alla sua portata e che invece sarà una delle tante meteore del circuito. Larry vince 6-2, 6-3 senza troppo affanno e ottiene così il privilegio di affrontare la settima testa di serie di La Quinta, l’iberico Juan Aguilera. Professionista dal 1981, Aguilera è semplicemente un fenomeno perché se non lo fosse, sarebbe complicato capire come uno possa diventare Top-10 (Best-Ranking n°7, ottenuto il 17 settembre dell’anno precedente) giocando praticamente solo sulla terra. Il computer lo premia infatti subito dopo i primi due incontri in assoluto sul duro, disputati a Flushing Meadows due settimane prima contro avversari non proprio di primissima fascia: il tedesco Hans Schwaier, sconfitto in cinque set, e l’americano Bob Green, dal quale perde in tre. Tuttavia, incoraggiato dalla necessità di allargare i suoi confini, Aguilera ci riprova nelle settimane successive e decide addirittura di iniziare il 1985 con il trittico Memphis-Delray Beach-La Quinta. Perde due volte con il n°61 del mondo (Jay Lapidus in Tennessee, Marty Davis in Florida) ma riesce a battere i resti di Vilas e guarda con fiducia alla California. Nel tennis, lo sappiamo, la matematica può anche essere un’opinione e capita, non spesso ma capita, che possa vincere chi ha i numeri complessivi peggiori. Ad esempio, puoi far tuoi più giochi dell’avversario e tornartene a casa.

Questo succede a Juan Aguilera, inutile dominatore del set centrale (6-2) nella sfida che lo vede opposto a Stefanki, più abile dello spagnolo nelle fasi conclusive del primo (7-6) e terzo (7-5) parziale. Intanto, alla soglia del terzo turno il Pilot Pen ha già visto dimezzarsi sia le teste di serie in assoluto (8 su 16) che quelle nobili (4 su 8). Sundstrom e Nystrom hanno già fatto le valigie però ci sono ancora Connors e Krickstein a poter garantire una finale degna di tal nome. Negli ottavi, succede un fatto strano. Durante la sfida tra Scott Davis e Stefanki, con quest’ultimo avanti 5-1 nel segmento iniziale, uno spettatore – il 65enne William Wolff – collassa, cade dalla poltroncina e batte la testa contro una fioriera. Il gioco viene sospeso per circa mezz’ora e Larry, che sta travolgendo il recente finalista del Lipton International (Davis era avanti due a zero prima di essere rimontato da Tim Mayotte), trascorre quel tempo negli spogliatoi in un misto di sensazioni contrastanti: “Pensi alla persona che sta male e contemporaneamente non puoi perdere la concentrazione perché comunque hai una partita da giocare; ti resta solo da sperare che tutto vada bene per quel povero signore e riprendere a giocare meglio che puoi” dichiarerà Stefanki alla stampa, curiosa di intervistare la wild-card che ha ottenuto la più roboante vittoria in carriera, a sentire i giornalisti che tuttavia dimenticano colpevolmente quelle conseguite sui finalisti slam Steve Denton e Phil Dent.

Ma tant’è, il torneo ha bisogno di qualcosa che lo alimenti, divorato all’interno dai ko imprevedibili. I quarti infatti si trasformano nella tomba di ogni illusione che l’albo d’oro possa essere arricchito da un nome di rilievo. Jimmy Connors, che sta pagando il cambio di attrezzo più di quanto potesse immaginare, non la vede proprio contro Greg Holmes mentre Krickstein crolla nel terzo contro David Pate. A prima vista, parrebbe che Pasarell possa consolarsi con il fatto che tre semifinalisti su quattro sono statunitensi ma non è così. E ben gli va, perché l’ultimo arrivato Stefanki almeno è un ragazzo del club e, proseguendo il suo momento magico, ha infilato un altro successo a spese di Tarik Benhabiles, in una sfida tra pesi leggeri chiusa al fotofinish di entrambi i set (7-5, 7-6).

Insieme a Larry, Pate e Holmes, il quarto incomodo di La Quinta è il cecoslovacco Libor Pimek, che un giorno diventerà belga e rappresenterà entrambi i paesi in Davis. Nonostante sia solo la nona testa di serie, Pimek è comunque il più alto in grado tra i sopravvissuti e il suo cammino solido (Pecci, Lutz, Higueras e John Lloyd le sue vittime) gli farebbe meritare maggiore considerazione ma in semifinale non riesce a sfruttare a pieno il nervosismo di David Pate che pensa “troppo a quanto fosse importante per me quella partita, sia in termini di punti che di soldi” e rischia di vanificare il break di vantaggio che riesce a procurarsi sia nel primo (quando serve sul 5-4 ma lo chiuderà solo 8-6 nel tie-break) che nel secondo set (4-3). Per lui c’è l’ipotesi di un bel balzo nel ranking e nel conto in banca e ha già deciso che, comunque vada, il 10% di quanto guadagnerà lo devolverà alle popolazioni dell’Etiopia, flagellate da una carestia senza fine. E allora si mette la tensione dietro le spalle, strappa di nuovo la battuta al cecoslovacco e stavolta chiude 6-4.

Si pensa ai soldi e alla fama anche nell’altra sfida, in cui Stefanki sa cosa deve fare. “L’avevo visto contro Visser e Connors e sapevo che, per avere una chance, dovevo mettere in campo più prime possibile e aumentare l’intensità della seconda” dichiara Larry a proposito di Holmes. Messo con le spalle al muro, dopo un primo set in cui non è riuscito ad arginare l’aggressività del rivale (2-6), Greg cambia tattica nel secondo e cerca la rete con maggiore insistenza. “È sempre un buon segnale quando il tuo avversario abbandona ciò che sa fare meglio e stravolge il suo gioco per provare a cambiare le carte in tavola” chioserà Stefanki a fine partita, ma sul campo per un set non è poi così felice; Holmes pareggia (6-4) ma nel terzo paga il calo in battuta e la favola di Larry continua.

Il giorno della finale ci sono almeno duemila seggiolini vuoti nel centrale di La Quinta, che può contenere diecimila spettatori. Dovevano esserci Mats Wilander o Stefan Edberg o magari entrambi invece ci sono David Pate e Larry Stefanki. Sono cento esatte le posizioni che dividono i contendenti nel ranking (43 contro 143) ma ciò non fa di Pate il vero favorito perché, quando entri nella “zona”, a volte nulla e nessuno riesce a farti uscire. Poi c’è un particolare, non trascurabile, che sostiene l’equilibrio nel pronostico: Larry ha fatto suoi i due precedenti, disputati entrambi sul cemento (US Open 1982 e Taipei 1984). E infatti. L’inizio della finale è fuorviante. Pate si prende subito un break di vantaggio ma Stefanki gli restituisce tre volte il maltolto ed è 6-1. Nel secondo c’è più contesa, David è asfissiante con il suo serve-volley e Larry ribatte colpo su colpo chiudendo 6-4. Finita? “Ero esausto. Avevo vinto due set e mi sentivo stanco come un cane morto. Non poteva essere due su tre, questa finale?” Stefanki non ce la fa più mentre Pate sembra più arzillo e gli sfila dalle mani la terza frazione (6-3). A quel punto il pubblico capisce che la favola potrebbe trasformarsi in tragedia e inizia a sostenere il vicino di casa. “Mi sono detto: ancora uno sforzo, Larry. Da domani potrai pensare a riposarti, a nuotare in piscina, a raccontare agli amici della tua settimana californiana ma adesso devi provare a vincere questa partita”.

Dagli spalti i “Go-Go-Go” accompagnano ogni suo dritto vincente, ogni sua volée e tutto questo lo trascina verso la gloria dell’impresa che si materializza con il 6-3 del quarto set. Nessuno meglio di Pasarell può suggellare il clamoroso risultato. “Ho l’onore e l’onere di dover portare qui quanti più giocatori importanti è possibile. Avrei voluto Edberg e Wilander ma oggi ho capito che terribile errore avrei commesso lasciando fuori quest’uomo!”. Stefanki, incredulo, ringrazia. Il giorno dopo il computer dell’ATP lo colloca alla posizione n°35, dalla quale inizierà a staccarsi quasi subito in seguito a una catena di risultati negativi. La finale del 1985 è un secondo turno l’anno seguente e Pate si vendica 6-4, 6-0 facendo perdere a Stefanki oltre 130 posizioni e chiudendone di fatto la carriera.

Il tennis perderà un giocatore dai numeri complessivi inversamente proporzionali a quelli fatti registrare a La Quinta ma guadagnerà ben presto un coach di livello assoluto. Sotto l’egida di Stefanki, John McEnroe torna in semifinale in uno slam (Wimbledon 1989), Rios e Kafelnikov diventano n°1 del mondo, Fernando Gonzalez diventa “mano di pietra” e Roddick torna se stesso mancando di un soffio Wimbledon nel 2009.

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