Nadal-Nishikori, duello per il Principato (Carnevale). Illimitato Nadal, prenota il campo per allenarsi dopo il match (Clerici). Il Belgio gela l’Italia: 2-0. Errani lotta ma cede (Cocchi). Davidson-Clifton, la prima partita Open. Cinquant’anni fa cadde il muro anti-campioni (Marianantoni)

Rassegna stampa

Nadal-Nishikori, duello per il Principato (Carnevale). Illimitato Nadal, prenota il campo per allenarsi dopo il match (Clerici). Il Belgio gela l’Italia: 2-0. Errani lotta ma cede (Cocchi). Davidson-Clifton, la prima partita Open. Cinquant’anni fa cadde il muro anti-campioni (Marianantoni)

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Nadal-Nishikori, duello per il Principato (Carlo Carnevale, La Nazione)

Quasi incredibile. Rafa Nadal trasforma il matchpoint per il 64 61 a Grigor Dimitrov, gli stringe la mano e prima di tornare a centrocampo per la meritata ovazione afferra il telefonino. Chi chiama? Il suo coach Carlos Moya: «Mi prenoti subito un campo per allenarmi?». «Be’, volevo provare qualche dritto in vista della finale di domani – minimizzerà l’episodio quasi umiliante per Dimitrov che ha retto fino al 4-5 del primo set – Non è la prima volta che sento il bisogno di farlo alla fine di un incontro». Il punto è che questi giocati nel torneo del Principato non sono incontri, ma mattanze. Nadal, fino alla semifinale, ha lasciato solo 16 games in 4 match e 8 set (una media di due game a set). Il maiorchino ha centrato la finale n. 47 di un Masters 1000 (ne ha vinte 30 come Djokovic, 3 più di Federer), ma questo pare quasi non fare più notizia. E non la farà, sebbene sarebbe un nuovo record (da aggiungere a quello dei 34 set consecutivi vinti sulla terra rossa dal Roland Garros 2017 a ieri), nemmeno l’eventuale «Undecima» nel Principato monegasco. Fa notizia invece che alla finale sia approdato, per la quarta volta in un 1000 (tutte perse) il giapponesino fragile come un bicchiere di cristallo, Kei Nishikori. Un brevilineo ex n.4 Atp ma quasi sempre “rotto”. Attualmente è n.36. Iper-reattivo, gioca con i piedi sulla riga di fondo, colpisce davanti al corpo con movimenti rapidi, corti, sincopati. Pare un flipper. Anticipando e pressando ha battuto Sascha Zverev 36 63 64, campione a Roma 2017. Con Nadal, Kei ha perso 9 duelli su 11, ma l’ultimo l’ha vinto lui, alle Olimpiadi di Rio 2016: gli sfilò la medaglia di bronzo.


Illimitato Nadal, prenota il campo per allenarsi dopo il match (Gianni Clerici, La Repubblica)

Osservando le immagini di una ferita che, Dio non voglia, potrebbe da sola impedire a Nadal di vincere il torneo di Montecarlo, mi sono domandato se fosse il caso di annotarle. Prima della partita, un cameraman curioso l’ha ripreso mentre saltava a piedi pari, un salto di almeno mezzo metro, del quale Harry Hopman, il grande coach australiano degli Anni ’50, mi aveva detto chiamarsi Kangaroo Jump. Non avevo visto nessun altro permettersi qualcosa di simile. Il povero bulgaro Dimitrov è rimasto in campo contro simile fenomeno atletico per un set, perduto comunque 6-4, poi ha iniziato a faticare, per finire quasi privo di forze, con 26 punti a 11 nel secondo. Ho poi visto che alla fine del match, Nadal impugnava il telefonino per inviare un messaggio, e mi sono chiesto: alla fidanzata, alla mamma oppure a chi? La curiosità è stata peraltro appagata dal mio collega Meloccaro, buon tennista oltre che ottimo intervistatore, che ha risposto al quesito. «Nadal stava chiedendo a Carlos Moya di prenotargli un campo di allenamento, perché il tempo e i colpi propostigli dalla partita non l’avevano soddisfatto, e non riteneva di essersi preparato abbastanza per la finale contro Nishikori, che l’ha spuntata su Sascha Zverev». Il buon intervistatore di Sky non credeva alle sue orecchie, così come fatico a crederci io, che annoto l’insufficienza di 62 punti giocati nel primo set, e dei più semplici 37 del secondo, quando il ragazzone bulgaro ha iniziato a non reggere. (…)


Nadal esagerato (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Appena sbrigata la pratica Dimitrov, prima ancora di mettere a posto le racchette, Rafa Nadal ha impugnato il cellulare e spedito un messaggio al suo coach Moya in tribuna: «Voglio giocare ancora un po’, mi serve un campo». Poi ha educatamente rinviato l’appuntamento con taccuini e telecamere e si è rimesso a picchiare diritti e servizi per conto suo. Non era contento di come aveva giocato e vinto, 6-4 6-1 in 1h36, conquistando la 12^ finale a Montecarlo, che giocherà oggi alle 14.30 contro Kei Nishikori. Nella partita di ieri da segnalare in negativo per Rafa solo un brutto game di servizio lasciato a Grisha, subito restituito dal bulgaro con due doppi falli sciagurati. Poi, come gli capita spesso, il bulgaro è scomparso dal campo: da qui l’esigenza, per Rafa, di prolungare e rifinire l’allenamento. Oggi il Number One punta a limare record già suoi, diventando il primo a vincere 11 volte lo stesso torneo, prendendosi il 54° titolo sul rosso, il 31° in un Masters 1000 (oggi è a 30 insieme con Djokovic) su 47 finali. Numeri da paura. Grinta e umiltà peraltro non si insegnano, come dimostrano anche gli esemplari e opposti casi di Alexander Zverev e Kei Nishikori. Il tedesco possiede mezzi fisici e tecnici da n. 1, è una star fin dai tempi da junior, ma non ha capito ancora come sfruttare al meglio un servizio che piove da 198 centimetri e superare i momenti bui di un match. Il suo ex super coach Juan Carlos Ferrero lo ha mollato un mese fa perché, a sentir lui, Sascha aveva poca voglia di sacrificarsi, l’incombere in tribuna di papà Alexander senior non aiuta la serenità del pupo. Così, dopo averla scampata sia con Struff sia contro Gasquet, Zverev ieri ci ha rimesso le penne davanti a un Nishikori non al massimo (deve farsi ancora infiltrare il polso operato), ma pronto a soffrire. Dopo l’infortunio dello scorso agosto in Canada l’ex n. 4 del mondo non ha avuto la fretta di Djokovic. Ha saltato gli Australian Open preferendo a iscriversi a due challenger, vincendo il secondo e rientrando gradualmente nel circuito. Il premio è una finale che non raggiungeva dal luglio 2016 a Toronto, la sua quarta in un Masters 1000, strappata con intelligenza e tenacia ad un avversario a cui nel terzo set sembrava mancare solo un colpo per il ko. Contro Nadal, Kei ha vinto solo 2 volte (su 11), due anni fa gli ha strappato il bronzo all’Olimpiade di Rio, ma sul cemento; e i quattro match lottati al terzo set di questa settimana rischiano di pesare. Non fare la fine del sushi, davanti al Cannibale, già sarebbe un’impresa.


Nadal, la sua terra (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Diavolo d’un Nadal, cosa stai combinando? Ristorante per la serata? Un saluto alla fidanzata Xisca in tribuna? E invece dai tasti del telefonino pigiati avidamente un minuto scarso dopo aver arrotato Dimitrov per la 12^ finale nel Principato, parte un messaggio per coach Moya: «Prenota un campo, devo allenare il dritto». Quando verrà scritta la fenomenologia di Rafa, saranno episodi simili a questo a raccontare come si diventa una leggenda e il più forte giocatore di sempre sulla terra. Ormai non si tratta più di inseguire record, o l’11° successo a Montecarlo o il 31° in un Masters 1000 (intanto ha raggiunto la finale n. 47, come Federer): il guerriero di Manacor sta scolpendo nella pietra comandamenti immortali. Ha già superato se stesso, il Nadal del 2010/11 che sembrava inavvicinabile: allora mise in fila 32 set vinti sul rosso, adesso è arrivato a 34, dalla sconfitta con Thiem dell’anno scorso a Roma. E in questa cavalcata ha concesso 67 game, meno di due per set. Senza parole. Dimitrov ci prova per un’ora, a riportare Rafa con i piedi per terra e il suo sapiente back di rovescio a tratti frena gli ardori del satanasso mancino stringendogli il campo, ma per stare a quel livello così a lungo rischi di ingolfarti. E infatti nel decimo game del primo set due doppi falli e un dritto sballato di Grisha aprono a Rafa la stanza del tesoro: da quel momento diventerà implacabile. «Mi dite che sono più forte di cinque anni fa? Ho perduto alcune qualità e ne ho acquistate delle altre, il segreto per stare in alto è di far progredire le cose di cui hai bisogno. Non so se sono migliore o peggiore, però ho adattato il mio gioco ai tempi moderni. Per questo continuo a vincere». Basterà un granello di sabbia giapponese a inquinare la benzina della macchina spagnola? Il risorgente Nishikori sottrae al torneo la suggestione di una finale con Zverev, il pronosticato Mister Futuro, e alle seconda partecipazione si merita la finale perché è più solido del giovane tedesco e non ha paura di esplorare terreni tattici alternativi come la palla corta o le discese a rete. Kei affronterà l’ultimo atto con quattro match al terzo sulle spalle, eppure la semifinale l’ha domata anche con la freschezza: «Sulla terra il polso fa meno male rispetto alle superfici dure». Da buon samurai, saprà convivere con il dolore, ma intanto la rinascita è anche figlia di una programmazione oculata e senza fretta: dopo il ritiro di Montreal a agosto («La fitta fu così forte che pensavo si staccasse la mano»), il consulto con gli specialisti, la decisione di non operarsi e i primi allenamenti con una racchetta molto più leggera, a gennaio ha scelto il circuito Challenger per rientrare. Intanto, tornerà nei primi 30 e nonostante il 9-2 sotto nei precedenti, prova a fare l’ottimista: «Nadal è il Re, ma studierò come batterlo». Banzai.


Il Belgio gela l’Italia: 2-0. La Errani lotta ma cede (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Belgio due, Italia zero. Una doccia gelata che, nonostante i 30 gradi di ieri sul centrale di Genova, sarebbe stato preferibile evitare. Finisce così la prima giornata del playoff di Fed Cup sulla terra rossa del Valletta Cambiaso, con Jasmine Paolini e Sara Errani battute da Mertens e Van Uytvanck. E oggi il primo match tra le numero uno sarà decisivo. Dentro o fuori. Le speranze che si possa ribaltare il risultato dopo quello che si è visto ieri sono al lumicino, e se è vero che la maglia azzurra sa fare miracoli, è altrettanto innegabile che le avversarie sono favorite. No, non è parente del Dries del Napoli, ma Elise Mertens sa far male lo stesso. Chiedere a Jasmine Paolini, la numero 145 al mondo, che ha fatto vedere buone cose contro la più titolata numero 17 belga. Jasmine è entrata in campo molto contratta, ovviamente con la pressione del debutto contro la più forte, e ha ceduto il primo set con un preoccupante 6-1. La sconfitta è arrivata comunque ma nel secondo parziale l’azzurra è cresciuta di livello mettendo a tratti in difficoltà la rivale e approfittando anche di qualche suo passaggio a vuoto. Per un attimo si è sperato anche di arrivare al terzo, ma la Paolini non è riuscita a trasformare nessuno dei tre set point conquistati, segno evidente che alla ragazza manca esperienza nei match più importanti: «Sì, mi manca un po’ di abitudine ad affrontare rivali così impegnative. Non avevo mai giocato contro una top venti e nel primo set non sono riuscita a metterla in difficoltà. Poi i consigli del capitano mi hanno aiutata e nel secondo, e a un certo punto, mi sono anche detta “cavoli, ce la puoi fare”. Peccato per quei tre set point, ma la soddisfazione per quello che sono riuscita a fare resta. Ho dimostrato anche a me stessa di poter giocare alla pari con la numero 17 del mondo, ma è ovvio che devo migliorare e fare esperienza perché io queste partite voglio vincerle». E’ delusa Sara Errani, ieri particolarmente in crisi con il servizio (17 doppi falli) da sempre suo tallone d’Achille. Avrebbe voluto ribaltare le sorti della squadra ancora una volta ma la Van Uytvanck, potente e coraggiosa, è stata più forte. Sara ha le lacrime agli occhi per la delusione, consapevole che oggi mantenerci in vita contro la Mertens non sarà per niente facile: «E’ stata una giornata storta — ha detto la romagnola, presentata in conferenza stampa da Tathiana Garbin come un esempio da seguire — dovrò essere brava a riposare, cancellare i brutti pensieri ed entrare in campo motivata. Loro magari sono forti fisicamente ma noi possiamo metterle in difficoltà sul piano tattico». E dire che nel secondo set, vincendo il tie break, la Errani era riuscita a cambiare l’inerzia del match. Probabilmente le energie spese per riportarsi in pari sono state troppe, e sul 3-2 ha anche avuto bisogno di un medical time out per massaggiare il polpaccio destro: «Ma non è una questione fisica — spiega il capitano —, Sara ha avuto una giornata negativa. In allenamento è andato tutto sempre bene e invece contro Van Uytvanck non è riuscita a esprimersi al meglio. Ma questa ragazza è un esempio di come non si molla mai e sono molto orgogliosa di come ha lottato, non si è voluta arrendere. Le compagne la aiuteranno a scrollarsi di dosso la delusione. Non dobbiamo comunque togliere meriti all’avversaria, ha preso molti rischi è stata coraggiosa e le è andata bene». La fortuna, si sa, aiuta gli audaci.


Davidson-Clifton, la prima partita Open. Cinquant’anni fa cadde il muro anti-campioni (Luca Marianantoni, La Gazzetta dello Sport)

Di compleanni il tennis ne ha festeggiati tanti, ma il più significativo rimane quello del 22 aprile, perché proprio in questo giorno di 50 anni fa (non a caso il 1968), Bournemouth ospitò il primo torneo Open della storia, chiudendo la lunga epoca in cui i giocatori professionisti (i più forti del mondo) venivano banditi da tutti gli eventi che facevano capo alla Federazione Internazionale. Fino ad allora potevano partecipare agli Slam e alla Coppa Davis soltanto i giocatori considerati dilettanti; tutti quelli invece che riscuotevano ingaggi attraverso sponsorizzazioni o gettoni di presenza erano esclusi e accusati di professionismo. Questo metodo discriminatorio e anacronistico durava da sempre, da oltre 40 anni, e cioè da quando la Divina Suzanne Lenglen preferì i soldi e le esibizioni alle vittorie sicure a Wimbledon e al Roland Garros. Fu uno scandalo doppio per l’epoca, poiché a tradire il dilettantismo era stata una donna, ma quella fu poi la strada che tutti i più grandi intrapresero. Alla fine del 1967 gli inglesi furono i primi a capire che il dilettantismo era indifendibile. Il 14 dicembre di quell’anno i dirigenti dell’All England Club misero ai voti l’apertura di Wimbledon ai professionisti e a sorpresa vinsero i sì. Nel febbraio 1968 gli americani si allinearono e poche settimane dopo fu la volta della federazione francese di annunciare che il Roland Garros sarebbe stato il primo Slam a garantire la partecipazione combinata, mentre la federazione italiana si adeguò l’anno successivo. Il primo torneo Open fu perciò quello di Bournemouth, che si svolse tra il 22 e il 28 aprile 1968 sui campi in terra della località balneare sulla Manica. Il primo incontro fu tra il dilettante inglese John Clifton e il professionista australiano Owen Davidson. Il primo 15 fu vinto da Clifton, ma l’incontro fu di Davidson in 4 set. I nemici dei tornei Open ebbero il loro grande momento quando l’inglese Mark Cox sconfisse Pancho Gonzalez negli ottavi e poi Roy Emerson nei quarti. Ma la gloria durò appena 24 ore. Il giorno dopo Cox, unico dilettante tra i semifinalisti, perse da Ken Rosewall, che aveva 33 anni. Fu un match senza storia vinto dall’australiano 6-4 6-1 6-0. Poi Rosewall — costretto a saltare 11 anni di tornei e 44 prove dello Slam — batté in finale Rod Laver 3-6 6-2 6-0 6-3. Il premio spettante al vincitore ammontava a 1000 sterline e a 300 quello femminile (torneo vinto da Virginia Wade), mentre ai finalisti andarono 500 e 120 sterline. Il tennis aveva vinto la battaglia più grande, liberandosi di un problema apparso per troppo tempo insormontabile. E oggi, 50 anni dopo, ringrazia e benedice quel memorabile 22 aprile 1968.

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