PERSONAGGI

Il grande mito di Jimbo Connors

Brandiva la sua Wilson T-2000 come Elvis Presley la chitarra...Era la sua Excalibur. Volgare, cafone, osceno, ma...campione e personaggio carismatico. Emanuela Audisio (da "Il ventre di Maradona", ed. Mondadori)

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Con il manico della racchetta ti faceva vedere molte cose. C’era poco da immaginare, la brandiva come certe rock star la chitarra. E sul campo si muoveva come Presley, lasciava capire il suo entusiasmo irrefrenabile. Certi movimenti pelvici andavano bene per il rock, non per il tennis, sacro e cerimonia per intimi. Lui lo rese una sfida a braccio di ferro tra camionisti dai nasi rossi. «I can’t get no satisfaction» non l’avrebbe mai potuta cantare. Lui era pieno di soddisfazione. Dissero che era cheap, trash, common. Tutte parole inglesi che stavano a significare una cosa sola: volgare. Quelli che fregano la vita a gesti. E no che non si fa. Jimmy, anzi Jimbo come lo chiamano, è diverso. Anarchico, non fa gruppo, con lui il richiamo della patria non funziona. Non sta negli alberghi con gli altri, non è solidale con i colleghi, non gioca la Coppa Davis. Rifiuta persino di aderire all’Atp (Association of Tennis Professionals), non solo, ma gli fa pure causa. E’ stato cresciuto da donne ribelli: dalla nonna Bertha Thompson e dalla madre Gloria, che mentre lo aspetta, gli costruisce un campo da tennis dietro casa. Suo nonno Al è stato un discreto peso medio. Jimmy Connors nasce per combattere: da solo, contro tutti. Sua madre lo arma, lo tiene isolato, lo istiga: non si può, né si deve essere prede del mondo. Al diavolo ogni incertezza, chi conquista non ha dubbi. Jimmy non scende in campo, ma in guerra, pronto a mitragliare il set. E’ il primo a fare versi e gesti da cafone. Fa vedere il pugno, lo agita come una mazza, pare Fred, quello di Wilma, dammi la clava. Nel tennis allora non usa: fair-play, boy, gesti bianchi, buone maniere. C’è quel genio irriverente di Ilie Nastase, ma le sue trasgressioni da aristocratico comunista non allarmano l’alta società, sempre un po’ portata alla bizzarria. Jimmy è osceno, rozzo, non allude. Bisogna avere carattere per stargli accanto. Ce l’ha Nastase che con lui gioca il doppio. Ce l’ha il suo allenatore Pancho Segura che viene da Guayaquil, Ecuador, e che da tennista ha imparato a vincere per campare. Connors gioca per sé, per il gusto di incendiarsi, perché il suo corpo vuole fare strada. Ha bisogno di confronti quotidiani, sua madre Gloria non funziona più da parametro. E’ il campo a dare il verdetto. A 16 anni per la prima volta Jimmy batte la Gloria a tennis. Lui, affranto: «Ma’ scusa, non volevo farlo». Lei, allegra: «E’ il più bel giorno della mia vita». E’ ora di passare professionista. Nel ’68 con la madre si trasferisce da Saint Louis in California, al Beverly Hills Tennis Club, dove lui, mancino, impara a dare spettacolo. I suoi idoli sono Elvis Presley e Roy Orbison, grandi animali da palcoscenico. Lui pure ha quel gusto lì, vuole esibirsi, si dà arie, cerca i riflettori: «Ballo solo la mia musica». A Hollywood quel modo di fare entertainment piace. C’è vita, sesso, visceralità. Sembra una spogliarellista. Che fa? si chiedono gli altri giocatori, sempre più confusi. Jimmy gioca, mostra, rabbia e sentimenti. E’ sguaiato, ma attira gli sponsor. Abbigliamento Fred Perry, capelli a frangetta da Prince Valiant, calzettoni Hang Ten. Gli altri vanno a rete, lui si ancora a fondo campo. E da lì bombarda: non sta dietro per difendersi, ma per ringhiare meglio in attacco. Intanto il tennis cambia: nei vestiti dal cotone si passa al polyester, nel colore dal bianco a tutti, nelle racchette dal legno al metallo. Connors sceglie la Wilson T2000 di alluminio perché è «cool». E poi il metallo ha temperamento. «Tutti pensavano che tirassi forte, ma non era vero». E’ vero che nelle sue mani non è più una racchetta, ma Excalibur, la spada di re Artù. In tv quei colpi vengono bene, danno energia, spingono a giocare a tennis. Connors colpisce sempre più forte ogni palla, non perché sta indietro nel punteggio, ma perchè gli piace così. «Qualcuno veniva per vedermi vincere, altri per vedermi perdere, ma i più venivano per vedermi combattere».
Nel ’74 vince il primo torneo del Grande Slam, gli Open d’Australia, contro Phil Dent (7-6, 6-4, 4-6, 6-3). E si fidanza con Chris Evert, anche lei tennista. Lui le compra l’anello di diamanti a Johannesburg dopo che entrambi si sono aggiudicati gli Open del Sudafrica. Una coppia ben assortita: lei calma, lui furioso. Decidono che si vedranno dieci giorni al mese e che giocheranno il doppio misto insieme. Quando capita, lui tiene in tasca la seconda palla di servizio di lei. «Il mio tennis è importante per lui e il suo lo è per me» dice Chris. Connors continua a fare una vita piuttosto solitaria. Si fa vedere poco in pubblico. «In quel periodo andavo avanti a room-service». Solo un giocatore riesce a batterlo: Nastase, e non è un caso, è l’unico che lo conosce nel privato.
Jimmy scende in campo per salire sul ring. Una racchetta al posto dei pugni. Nel ’74 la federazione francese rifiuta la sua iscrizione al Roland Garros, non permettendogli di vincere il Grande Slam, perché ha firmato un contratto con una squadra del World Tennis Team (i Baltimore Banners). Lui boicotta il torneo di Parigi per quattro anni e per reazione porta in tribunale la Federazione internazionale e il sindacato giocatori. In quel momento fa virtualmente causa a 137 colleghi e a se stesso. Quel gesto costa 100 mila dollari all’Atp. Artur Ashe, un gentiluomo, commenta: «Giuro che ogni volta che nello spogliatoio incontro Connors devo forzarmi per non dargli un pugno in bocca». Poi Jimmy accusa il suo manager-organizzatore Bill Riordan di averlo usato. «Ero solo un giovane che voleva vincere». Lo era così tanto che Sandy Mayer dichiara: «E’ l’unico giocatore che ti fa sentire sconfitto già dall’inizio». Connors usa il suo corpo come una minaccia, mette paura. Non sublima, sprigiona, violenta. «Ti senti l’agnello da sacrificare. E’ come essere scagliati contro Muhammad Ali». I fans di Connors urlano, incoraggiano, si sbracciano. Da yankees, da gringos. Ma certe cose a Wimbledon non si fanno. Dick Stockton che se lo trova contro in semifinale: «Ogni volta che servivi ti rispondeva con delle botte violente. Così annullava ogni vantaggio del servizio e ti faceva male». Nel doppio, Tony Roche in coppia con John Newcombe, rivela che hanno giocato sempre e solo contro Connors per stancarlo, visto che in finale deve incontrare il loro connazionale Rosewall che ha 39 anni. Tutto inutile. Ken Rosewall a Wimbledon viene ucciso in 93 minuti: 6-1, 6-1, 6-4. Il giornale The Guardian scriverà: «Fate finire questo omicidio». Jimmy nella finale di Forest Hills attacca il mitico rovescio di Rosewall con così tanta forza che gli fa cascare la Slazenger di legno dalle mani. Elimina l’australiano in 107 minuti (6-1, 6-0, 6-1). Per la seconda volta in due mesi ha umiliato l’uomo che due anni prima ha giocato contro Rod Laver la più bella partita di tennis della storia.
Ma l’amore non segue le carriere. All’idea del matrimonio in maggio Gloria, la madre di Jimmy, si oppone. «Nessuno vince Wimbledon in luna di miele». Così la data è spostata all’8 novembre ’75 nella chiesa cattolica di Fort Lauderdale. A settembre la coppia va a cercare casa a Los Angeles, ma a quel punto Connors comincia ad avere dubbi. Dopo una telefonata maratona, che dura fino alla quattro del mattino, il matrimonio viene annullato. Mancavano cinque settimane alla cerimonia. A metà dicembre Chris non ha più al dito l’anello di fidanzamento. «Meglio finirla qui», le ha detto Jimmy, «le nostre carriere sono più importanti». Il pubblico pensò che la colpa fosse di Gloria, la solita mamma che si mette in mezzo. Evert ricorda: «Eravamo troppo giovani, non avrebbe funzionato. Lui era estroverso fuori, ma introverso nel privato. Sua madre gli aveva insegnato a non fidarsi. Ero in un buon periodo, nel ’74 anch’io avevo vinto Wimbledon, volevo essere la numero uno. Gloria preferiva una ragazza che seguisse il marito, io non potevo farlo». Chris, inoltre, preferiva un fidanzato che non si facesse vedere in atteggiamenti intimi con un’altra in tribuna mente lei era impegnata in partita.
Elvis aveva sciolto il paese, Jimmy lo portò sul campo. Una ricerca Nielsen nel ’74 scoprì che 34 milioni di americani giocavano occasionalmente a tennis. Lo sport era cresciuto come spettacolo. Il pubblico era aumentato dal 17 al 26 per cento, piazzandosi dietro a quella che in America viene chiamata la Santa Trinità: football, baseball e basketball. Connors guadagnava, attirava l’attenzione. L’australiano Newcombe spiegò: «Piace perché vince. Perché è aggressivo, giovane, americano e perché gioca maledettamente bene». Il ‘74 è il suo anno magico: vince 15 tornei, 95 incontri su 99, tutti con lo stesso paio di calzoncini bianchi che lava nel lavandino dell’albergo. E’ la sua dedizione al gioco che suscita ammirazione, quella presunzione che non ammette umiltà, quel modo di fare piazza pulita di ogni apatia. E anche quella maleducazione che se ne frega delle tradizioni. Quando Wimbledon nel ’77 festeggia il centenario con una parata di campioni, inclusa l’americana Bunny Ryan che a 87 anni sfila con l’aiuto di due bastoni, Connors non c’è, preferisce allenarsi. Il pubblico inglese non glielo perdona. Nell’82 Jimmy vince Wimbledon e gli Open Usa. Nel ’91 festeggia il suo 39esimo compleanno arrivando nei quarti a Flushing Meadows dove sconfigge Aaron Krickstein in cinque set riemergendo da un 2-5. In giugno a Parigi gli capita il giovane Michael Chang al terzo turno: nel quarto set Jimmy ha mal di schiena, crampi alle gambe, chiama due volte il dottore, ma quando vede una coppia di spettatori camminare verso l’uscita, trova la forza per urlare: «Non andatevene, non è ancora finita». E vince quel set 6-4. Connors cambia la maniera di vivere il tennis, lo rende carnale, non più aristocrazia con la racchetta. Dissangua gli avversari. «Battere qualcuno 6-2,6-2 è divertente, ma andare 7-6 al quinto set dopo quasi cinque ore di gioco è meglio». Meglio di una messa gospel, Jimmy dà energia, voglia di cantare. Ricorda: «Un sacco di cose stavano cambiando a quel tempo, l’atmosfera era diventata elettrica. C’erano Nastase e Gerulaitis allo Studio 54 di New York e Borg costretto ad uscire dalla porta di servizio perché 10 mila bionde lo stavano aspettando. I tifosi avevano solo da scegliere il campo, c’erano eroi e protagonisti disponibili, anche in discoteca. Se avevi carattere, non poteva non piacerti». Lui era così, si assecondava, non per moda. «Sin da bambino avevo capito che in pubblico devi dare spettacolo. Mia nonna mi diceva: se vinci, puoi permetterti tutto. Urlare scioglie la tensione, a me veniva facile, lo facevo e tornavo a giocare meglio di prima».
Chi combatte bene non ha nostalgie, e nemmeno rimorsi. Tranne uno: il Roland Garros. «Quel titolo poteva essere mio». Connors nella battaglia c’è stato, senza riserve. «Non c’è niente come vincere, con McEnroe, che non mi piaceva, è stata sempre guerra, senza mai pace. Gloria mi ha chiesto: se ricominciassi daccapo rifaresti tutto? Sì, è la risposta. Io non avevo paura a entrare in campo. Ero un ragazzo vivace, e mia madre mi servì in pasto il tennis. In tanti hanno dato la colpa a lei e alla nonna del mio carattere. Ma non è vero, hanno solo tirato fuori quello che avevo dentro». Dentro c’era una forza giovane, sbagliata forse, ma vera. E fuori c’era un mondo nascosto, in attesa di entrare. Lui scardinò la porta e lo invitò sul campo.

Emanuela Audisio

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