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Leggende del tennis

Tanti auguri Ivan Lendl

Il 7 marzo di 50 anni fa nasceva ad Ostrava Ivan Lendl, uno dei più grandi campioni della storia del tennis. Riviviamo insieme la sua straordinaria carriera, attraverso i suoi tanti trionfi e...qualche delusione. Enzo Cherici

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Questo articolo è stato scritto di getto. Niente Google, Wikipedia o Youtube. Per una volta, mi perdonerete, non mi sono documentato. Ma non ce n'è stato bisogno. D'altra parte, celebrare i 50 anni di Ivan Lendl significa non solo parlare di record, vittorie ed imprese leggendarie, ma anche rovistare nel cassetto dei ricordi ed emozionarsi per un campione a suo modo unico, diverso.
Il mio primo ricordo di Lendl è lo stesso di tanti appassionati italiani. “Roma, 5 ottobre 1979. L'Italia deve battere la Cecoslovacchia se vuole affrontare gli Stati Uniti nella finale di Coppa Davis. Dopo la sconfitta di Corrado Barazzutti contro Tomas Smid nel primo match, Adriano Panatta affronta un giovanissimo Ivan Lendl per riportare in equilibrio le sorti dell'incontro”. Virgolettato ripreso tale e quale dal DVD rievocativo della vittoria di Adriano su Ivan, regalatomi lo scorso Natale dal direttore di Matchpoint, Daniele Azzolini. Sapevamo poco di quel giovane ceco all'epoca. Internet non esisteva, il grosso delle informazioni ce lo passava mamma Rai. Toccò allora a Guido Oddo e Giampiero Galeazzi informarci che l'anno prima il giovanotto era stato campione del mondo juniores, avendo vinto i tornei di Wimbledon e del Roland Garros. Quel giorno al Foro Italico, contro Panatta, passò dei bruttissimi quarti d'ora. Patendo forse una delle più grandi umiliazioni della sua carriera. Non credo gli sia più capitato di beccare due 6-0 consecutivi nei successivi 15 anni.
Per la rivincita con l'Italia dovrà attendere poco più d'un anno. E nel dicembre del 1980, ancora ventenne, porta a casa la prima (e ultima) Coppa Davis per la Cecoslovacchia. Lo stesso anno entra per la prima volta tra i Top Ten (ne uscirà 12 anni dopo!) e si aggiudica i primi 7 dei suoi 94 titoli Atp. L'anno successivo arriva la prima finale dello Slam (sconfitto in 5 set da Borg a Parigi) e la prima di cinque vittorie al Masters di New York, battendo al quinto il povero Vitas Gerulaitis dopo aver annullato un matchpoint nel tiebreak del terzo set.
Il 1982 è l'anno del boom. Vince 15 dei 23 tornei disputati, compreso il secondo Masters consecutivo, dove distrugge in finale con una prestazione mostruosa il rivale di sempre, John McEnroe. Ma non riesce ancora a sbloccarsi nei tornei dello Slam. Gioca la prima delle sue otto finali consecutive allo Us Open (vincendone tre), ma perde in quattro set contro un fantastico Jimmy Connors.
L'anno dopo – 1983 – vince ancora tantissimo, ma perde tutte le finali importanti: Us Open (ancora Connors), Australian Open (Wilander) e Masters (McEnroe). Si issa per la prima volta al primo posto del ranking, ma qualcuno inizia ad etichettarlo – che Dio lo perdoni – come perdente. Il peccato originale? Non aveva ancora vinto un torneo dello Slam! Proprio vero che a volte le apparenze ingannano...
Ad onor del vero, qualche problema nei tornei dello Slam il buon Ivan sembrava davvero averlo. Nelle finali appare come bloccato. Ne perde quattro in tre anni, due delle quali (Us Open e AO 1893) probabilmente da favorito. Qualcuno dice che non regge le due settimane sulla lunga distanza. Ma quel qualcuno non sa che il ragazzo ci sta lavorando su. Rivoluziona letteralmente il concentto di preparazione atletica nel tennis e nel giro di pochi anni trasforma una presunta debolezza in uno dei suoi punti di forza.
E nella finale del Roland Garros 1984, ne farà le spese il meraviglioso John McEnroe di quell'anno. I primi due set di quella partita rievocano la lezione subita da Panatta cinque anni prima. Supermac gioca il più grande tennis d'attacco mai ammirato su un campo in terra battuta e quando anche nel terzo set l'americano si porta avanti d'un break, per il ceco sembra ripresentarsi come in un incubo il tabù Grande Slam. Poi, la svolta. Non solo d'un match o d'un torneo. Ma di una carriera. La madre di tutte le rimonte si conclude nel dodicesimo gioco del quinto set, con Mac che mette incredibilmente in corridoio la più semplice volée della sua carriera, regalando di fatto ad Ivan la chiave del successo.
Non si fermerà più. Da allora successi e record a raffica. Tripletta allo Us Open (85 contro McEnroe, 86 Mecir e 87 Wilander). Altri due successi a Parigi (86 Pernforns, 87 Wilander). E doppietta anche all'Australian Open (89 Mecir, 90 Edberg).
Non riuscirà mai a farcela in quel di Wimbledon. Questo portò un po' frettolosamente qualcuno a dire che non era capace a giocare sull'erba. Sbagliatissimo. Era meno forte che altrove, ma è arduo definire incapace sui prati un giocatore che ha giocato due finali e cinque semifinali a Church Road. Tra l'altro, sempre perdendo contro grandissimi giocatori e potendo addirittura vantare una vittoria contro un giardiniere doc quale Stefan Edberg, nella semifinale del 1987. Il tutto seguendo a rete prima e seconda di servizio, praticamente obbligato dalla vera erba di Wimbledon. Con l'attuale “terba”, almeno un paio di titoli li avrebbe portati a casa.
Ad ascoltarlo ora, non sembra avere rimpianti per quel mancato trofeo. Ma all'epoca dev'essergli pesato parecchio. E c'è da capirlo. Si sentiva (e lo era) il più forte. Ma non gli riusciva di mettere le mani sul titolo più importante esistente nel tennis. Arrivò ad ingaggiare Tony Roche come coach e a disertare un'edizione del Roland Garros che avrebbe potuto vincere col sigaro in bocca. Niente da fare. Quell'anno vinse al Queen's, dominando McEnroe e Becker. Ma non appena mise piede sui sacri prati londinesi si bloccò. Più degli stessi avversari, era il mito di Wimbledon a sconfiggerlo.
Non tutti riuscivano ad apprezzare la sua grandezza tecnica. Non possedeva certamente l'eleganza d'un McEnroe o di Edberg, ma i suoi fondamentali di fondocampo erano uno spettacolo. È stato probabilmente il primo giocatore ad attaccare dalla linea di fondo, grazie anche ad un dritto particolarissimo, con il quale faceva quello che voleva. Sfondava preferibilmente col dritto anomalo da sinistra verso destra, ma il colpo entrato di diritto nella leggenda era il suo passante in corsa col dritto in lungolinea. Faceva l'esatto contrario di che insegnavano i maestri nelle scuole tennis: passi lunghi in avvicinamento sulla palla e frustata con l'avambraccio proteso e incredibilmente lontano rispetto al corpo.
Il rovescio era meno letale, ma forse ancora più bello da vedere. In particolare, adoravo la sua risposta bloccata di rovescio, che giocava in lungolinea quando rispondeva da sinistra e incrociata – quasi da doppista – da destra.
Ma il colpo che più ha migliorato nel corso della sua straordinaria carriera è stato senza dubbio il servizio. Discreto e nulla più ad inizio carriera, ottimo dal 1985 in poi. Per la serie: mai sentirsi appagati, nemmeno da numeri uno del mondo.
Fra poche settimane, lo rivedremo ancora in esibizione. Dopo tanto tempo, tanto mal di schiena e tanto golf, sarà bello rivederlo con una racchetta in mano. Auguri Ivan, auguri campione.

 

Enzo Cherici

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