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29/07/2010 10:30 CEST - Storie di tennis

Un tram chiamato nazionalità

Il caso di Golubev, nato in Russia, residente in Italia ma “acquistato” dal Kazakistan è solo l'ultima di una serie di storie di tennisti che con troppa facilità possono cambiare bandiera. Alessandro Mastroluca

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La molteplicità nell'unità. Il personaggio della settimana tennistica, Andrey Golubev, è la sintesi degli effetti della globalizzazione. Nato a Volzhkij, vicino Volgograd, entra nella nazionale russa ma a 14 anni si trasferisce in Germania. I risultati però non arrivano. Così vive e si allena a Bra dal 2002. Ma da quest'anno il vincitore di Amburgo, che si è arrampicato fino al n.37 del ranking, gioca per il Kazakistan. Fa parte di quel gruppo di giocatori, come Korolev e la Karatancheva che sono stati “comprati” dal neo-presidente federale Utemuratov con lo scopo di raggiungere il Gruppo Mondiale in Davis e Fed Cup.

A giocare per l'Italia, però, Golubev non ci ha mai pensato: “Non ho il passaporto. Sarebbero serviti dieci anni, io sono a solo a sei”.

In Italia, infatti, per l'acquisizione della nazionalità vige un regime di jus sanguinis quasi puro, il più restrittivo tra le grandi nazioni europee, la cui normativa principale è contenuta nella legge n.91 del 5 febbraio 1992.

Nello sport l'utilizzo di italiani “acquisiti”, i cosiddetti oriundi, è iniziato negli anni Trenta, soprattutto in ambito calcistico. Quegli uomini venuti da lontano che hanno, per dirla con Paolo Conte, “la genialità di uno Schiaffino” hanno contribuito in maniera determinante alla stagione dei trionfi dell'Italia di Pozzo in epoca fascista. Tre erano in campo ai Mondiali del 1934: Monti, Guaita e Orsi, suonatore di violino che giocava con un jolly tra calzettone e parastinchi. Uno solo, Andreolo, uruguayano di genitori cilentani, nel 1938.
“Se possono morire per l'Italia, possono anche giocare per l'Italia” diceva Pozzo per giustificare una pratica che ha migliorato i successi sportivi uscendo dai binari dell'autarchia che regolava altri aspetti della vita nazionale.

Proprio Schiaffino è stato, negli anni Cinquanta, tra gli ultimi oriundi prima di un vuoto che, nel calcio, si è interrotto solo di recente. Prima Roberto Di Matteo, nato e cresciuto in Svizzera, poi Camoranesi (il caso più eclatante, anche per le polemiche che sono seguite alla sua convocazione). Ma ci sono anche Perrotta, nato ad Ashton che ha rifiutato di giocare nelle nazionali giovanili inglesi, Balotelli, che ha acquisito la cittadinanza italiana solo dopo aver compiuto la maggiore età, e Acquafresca che ha la madre polacca ma ne ha rifiutato la convocazione in nazionale.

La FIFA, però, stabilisce che un giocatore, anche dopo aver cambiato nazionalità, non possa indossare la maglia della nazionale “acquisita” se ha già almeno una presenza con la selezione del Paese originario.

Negli altri sport mancano regole simili, e l'Italia ne ha ampiamente approfittato. Nel rugby, ad esempio, sport per cui bastano tre anni di residenza per ottenere la nazionalità del Paese ospitante, gli esempi produttivi non mancano, come Diego Dominguez, uno dei più grandi mediani d'apertura di tutti i tempi, argentino che ha giocato nell'Italia dal 1991 al 2003. E sono proprio gli italiani d'Argentina i più numerosi nell'attuale rosa di Nick Mallett: Matias Aguero, Sergio Parisse, Gonzalo Canale, Martin Castrogiovanni si affiancano ad australiani e neo-zelandesi.

Clamoroso, poi, il caso della nazionale di calcio a cinque che ha affrontato il Mondiale 2008 con tutti giocatori nati in Brasile: e solo una contestata autorete di Foglia a tempo scaduto contro la Spagna ha impedito una finale contro gli auriverde.

Gli stranieri, poi, abbondano nel baseball (soprattutto italo-americani), nell'hockey su ghiaccio, nel tennis-tavolo (dove la componente cinese è dominante).

Gli esempi potrebbero continuare, ma difficilmente si possono incontrare oriundi di successo nel tennis. L'unica eccezione è rappresentata da Martin Mulligan, australiano finalista a Wimbledon nel 1962 che dal 1968 ha iniziato a giocare per l'Italia (dopo aver vinto gli Internazionali nel '63, '65 e '67). Già nel 1966 aveva chiesto di poter giocare per la nazionale azzurra di Davis, ma la Federazione aveva espresso parere negativo perché “assoldare” un tennista chiaramente identificato come australiano avrebbe attirato troppe critiche. In 12 mesi, però, il comitato esecutivo federale cambia idea. Mulligan gioca undici incontri di Davis nel 1968: l'esperimento finisce quando perde a Barcellona contro lo spagnolo Gisbert un incontro decisivo che avrebbe dovuto vincere (inutile la vittoria nel dead rubber su Manolo Orantes) Per 10 anni, comunque, sarà anche capitano non giocatore.

Tra le donne l'esempio più eclatante è quello di Sabina Simmonds, londinese a suo agio sulle superfici veloci, che negli Slam non è mai andata oltre il terzo turno in singolare ma vanta una semifinale in doppio agli Australian Open 1978. La Simmonds ha giocato per l'Italia raggiungendo nel 1983 il suo best-ranking al n.31 nel 1983 e giocando due finali in carriera, a Barcellona nel 1978 e a Hong Kong nel 1981, perdendole entrambe.

In passato c'erano stati anche Hubert De Mopurgo, il più forte italiano anteguerra, nato a Trieste ma cittadino asburgico che non giocò mai i Campionati Nazionali, e Gianni Cucelli cui la guerra ha rubato la sua migliore età, di Fiume il cui vero cognome era Kucel. Istriano era anche Osvaldo Sirola, che però ha fatto fortuna e carriera a Milano. A voler essere precisi anche Nicola Pietrangeli è nato a Tunisi da padre italiano e madre russa: se avesse scelto, e avrebbe potuto, il passaporto francese il nostro tennis avrebbe avuto una storia decisamente più modesta.

In tempi più recenti si ricorda solo Laurence “figlio d'Europa” Tieleman, nato a Bruxelles da padre olandese e madre romana, unico italiano finalista al Queen's (ci riuscì da qualificato, e n.253 del mondo nel 1993, perdendo in finale da Scott Draper); nel 1999 debuttò in Davis, a Neuchatel, ma la notizia perde rilievo perché in quel tie esordisce anche un giovane Roger Federer battendo Sanguinetti. Meno rilevante l'esperimento di Martin Vassallo Arguello, che ha giocato per l'Italia dal settembre 2002 al dicembre 2004.

Un caso, il suo, che dimostra bene a quali effetti degenerativi possa portare, nel tennis, il non porre limiti alla scelta della nazionalità. Decidere di assumere una seconda nazionalità è una scelta sempre rispettabile, sia che avvenga per ragioni di residenza, per motivazioni politiche, per matrimonio o per convenienza.

Il caso del Kazakistan non è certo l'unico, né l'ultimo che condiziona la geografia del tennis moderno. Fa un effetto ancor più straniante, ad esempio, pensare a Tommy Haas come all'ottavo giocatore Usa nel ranking piuttosto che come l'undicesimo tedesco. Come fa effetto chiamare Jarmila Groth, la tennista ambidestra, come promessa australiana: nata Gajdosova, a Bratislava, nel febbraio 2009 ha sposato Sam Groth e dopo sei mesi ha ottenuto il passaporto della nazione oceanica. Così come ha fatto effetto considerare Tsvetana Pironkova la prima bulgara ad arrivare in semifinale in uno Slam: Manuela Maleeva era già arrivata a questo traguardo, infatti, agli Us Open 1992 e 1993, ma era naturalizzata svizzera.

Più complesso il caso di Anastasia Rodionova, che si è spostata in Australia nel 2005 ma ha ottenuto la cittadinanza australiana solo nel 2009: in questo periodo ha giocato come australiana negli Slam e come russa in tutti gli altri tornei.

La pratica di acquisire giocatori è abbastanza diffusa in Oriente: ricordate Geor e Gia, i due brasiliani che hanno giocato il torneo olimpico con la bandiera di un facilmente identificabile stato ex sovietico? O di Gregory Koncellah, mezzofondista keniano naturalizzato del Bahrein che ha cambiato nome in Saad Kammel?

Questi passaggi coinvolgono anche qualche junior, da ultimo l'argentino Andrea Collarini, ex numero 1 nazionale Under 14, che ha accettato l'offerta della USTA per andare a vivere a Boca Raton e giocare per gli Stati Uniti. Già sotto contratto con Nike e IMG, giocando sotto la bandiera a stelle e strisce ha perso la finale del Roland Garros junior dall'argentino Velotti in un derby solo formale.

Cambiamenti, spostamenti che smerigliano i limiti geografici dello “sport dei re” e impongono qualche riflessione. Se, infatti, il tennis può solo imitatamente intervenire sulle scelte dei singoli sull'acquisizione di seconde nazionalità, può invece imporre delle regole più rigide sulla possibilità di giocare per la nazione acquisita.

Difendere i colori di una nazione non si può ridurre a salire e scendere da un tram, non si può pensare che l'appartenenza possa girare e sventolare come “Il vestito del violinista” di de Gregori, che “il vento lo muoveva come si muove una bandiera”. Non si può permettere di cambiarla “a piacere”. Servono dei paletti: si può pensare di permettere a un giocatore di giocare per una nuova nazione solo se non ha giocato più di un certo numero di partite o di tornei nel circuito maggiore, oppure se non ha raggiunto un tot di tie di Davis o di Fed Cup.

Così, fermo restando la libertà individuale di scegliere e ottenere un secondo passaporto, non si toglie significato a quella che dovrebbe essere una decisione che definisce la persona ma che troppo spesso si derubrica a semplice considerazione di opportunità.

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker