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23/09/2010 08:38 CEST - Doppio

Il doppio, naturalmente!

L’importanza di un evento non si misura dalla frequenza delle sue apparizioni, ma da quanto è in grado di incidere sullo stato delle cose, da quanto sa essere decisivo. Marcos

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La pioggia che costantemente bagna le nostre città durante gli inverni, al limite, ci obbliga all’ombrello ed al soprabito. L’alluvione, che sempre ci sorprende, provoca smottamenti, esondazioni, crolli e devastazioni. L’uomo è sostanzialmente preparato ad affrontare il normale clima stagionale, ma si fa sempre cogliere alla sprovvista dagli eventi atmosferici eccezionali. Talvolta, ne prevede l’intensità ed i conseguenti disagi, allertando la popolazione, la protezione civile e le forze dell’ordine. Gli interventi dell’uomo, però, sono sempre volti a sanare le emergenze ed i danni già provocati dalle calamità. Raramente, l’uomo, benchè memore del passato e conscio dei pericoli, interviene preventivamente sul territorio e sul costruito nel tentativo di diminuire gli effetti nefasti del passaggio di un’alluvione o di un terremoto. Gli stessi corsi d’acqua, da secoli, esondano, travolgendo tutto ciò che incontrano. Le case costruite senza particolari accorgimenti nelle zone sismiche, da secoli, crollano, provocando morte e disperazione.
La natura dell’uomo è doppia, in questo senso: o interviene in maniera eccellente, come dimostrano gli studi degli ingegneri giapponesi, in grado di progettare e costruire case che sopportano terremoti di straordinaria intensità; o interviene sulla natura in maniera pessima, per esempio, disboscando intere colline, che, senza l’ausilio del filtro delle chiome degli alberi e della capacità di tenuta strutturale delle radici, rischiano di franare anche solo sotto i colpi di abbondanti precipitazioni. In alcuni casi, quindi, l’uomo è capace di controllare i più pericolosi comportamenti della natura; in molti altri, è l’irresponsabile comportamento dell’uomo a provocare i danni che, ingenuamente e slealmente, poi, imputa ai capricci della natura, mai stata capricciosa. In buona sostanza, i nostri meriti e le nostre colpe si misurano nella capacità di rispettare la natura, assecondandola, o di disprezzare la natura, trascurandola o violentandola.

Nel tennis agonistico, la disciplina del doppio, praticata quasi solo da specialisti e non più dai grandi campioni, è ingiustamente sempre più relegata ad un ruolo marginale proprio perché, come fosse un evento atmosferico eccezionale, diventa decisiva per la carriera di un buon singolarista ormai solo in Coppa Davis. Nell’albo d’oro dei tornei di doppio dello Slam, per trovare nomi di tennisti di gran fama e talento, campioni anche nel singolare, bisogna tornare indietro di parecchi anni. Nel 2000, Hewitt riuscì a vincere gli Usopen, in coppia con Mirnyi; nel 1996 e nel 1997, nel doppio del Roland Garros, s’impose Kafelnikov. Sempre nel 1996, in Australia, vinse Edberg. Nel 1992, John McEnroe vinse il suo ultimo Slam di doppio, a Wimbledon, in coppia con Stich. Considerati questi risultati come episodici, si potrebbe affermare che, dagli anni ’90 in poi, il doppio è giocato e vinto da ottimi specialisti (Woodbridge, Woodforde, Haarhuis, Eltingh, Bjorkman, Paes, Bhupathi, Ullyet, Black, Nestor, Knowles, i fratelli Bryan, Zimonjic, Dlouhy), ma trascurato dai più grandi campioni, a parte, appunto, qualche raro episodio. Nel ventennio tra il 1970 ed il 1990, invece, tutti i più grandi tennisti si sfidavano costantemente e vincevano titoli degli Slam anche nel doppio: Laver, Emerson, Nastase, Roche, Newcombe, Connors, Gerulaitis, Ramirez, Gottfried, Alexander, Taroczy, McEnroe, Wilander, Noah, Edberg, Leconte…

Ritengo che l’addio al doppio dei grandi campioni sia dovuto alla necessità di spendere tutte le energie a disposizione negli allenamenti e nella preparazione atletica: non c’è tempo per giocare il doppio, non c’è energia da dedicargli. L’abbandono delle racchette di legno, a favore di telai tecnicamente più permissivi ed indulgenti, ha spinto il campione a migliorarsi nell’aspetto atletico, per poter prevalere su rivali sempre più preparati: se non si è resistenti e potenti, adesso non si vince più. Perdendo i campioni, impegnati in sessioni atletiche pesantissime, il doppio, negli ultimi anni, ha progressivamente perso fascino. Maltrattato e trascurato, deve sopportare anche l’onta del cambio delle regole: da qualche tempo, al posto del terzo set, si gioca un long tiebreak ed, in qualche caso, invece dei vantaggi, si gioca il punto secco, come lo chiamano i bambini dell’under 12.

Per colpa delle nuove racchette, per colpa degli allenamenti sempre più duri, per colpa degli organizzatori dei tornei, che devono garantire più spazio al ricco torneo di singolare, insomma, per colpa nostra, trascuriamo il doppio e ci facciamo sorprendere quando, periodicamente, torna ad essere indispensabile. In Coppa Davis, infatti, il doppio ritrova tutta la sua importanza e tutto il suo fascino: dal doppio, molto spesso, dipendono le sorti dell’intero incontro. Un doppio può valere la promozione o la permanenza nel World Group o perfino la vittoria del trofeo. Per questo, bisogna che in occasione degli incontri di Davis una squadra sia pronta a schierare una coppia, se non al massimo della forma, almeno ben assortita ed affiatata.

Nel caso del recente spareggio tra Svezia ed Italia, al doppio era affidato l’esito dell’intero incontro. I nostri rivali, infatti, potevano contare sui due punti sicuri garantiti da Soderling. Il loro secondo singolarista, considerato il suo stato di forma, al contrario, garantiva all’Italia due punti certi. Questo, in Coppa Davis, capita abbastanza spesso. Quando non ha un fenomeno in squadra, un capitano di Coppa Davis deve poter contare su una coppia consolidata, per avere maggiori possibilità di vittoria nella giornata di sabato, talvolta così decisiva. Naturalmente, sarebbe irragionevole chiedere al nostro miglior doppista (che, in primis, bada giustamente ai suoi interessi di singolarista) di programmare la sua stagione in base alle esigenze del doppio di Davis, ma, a mio parere, sarebbe lecito invitarlo a scegliere sempre quel compagno, quando è iscritto agli stessi tornei Atp o Challenger: per consolidare una coppia, infatti, non c’è altro modo che stare spesso insieme.

Penso che l’importanza del doppio non si esaurisca nel sabato di Coppa Davis: non si può ignorare la sua valenza sociale (migliaia di vecchi amici s’incontrano quasi solo per la partita del venerdì sera), formativa (solo nel doppio, il tennis insegna a doversi fidare di un compagno – il doppio si gioca ormai solo nelle competizioni a squadre) e propedeutica (il doppio è un’ottima occasione per imparare a giocare a rete e per indirizzare la risposta al servizio). Per questo, auspico che nelle scuole agonistiche i preparatori atletici ed i maestri, dopo aver fatto saltare mille birilli e dopo aver consumato mille cesti, chiedano ai ragazzi di impegnarsi seriamente anche nel doppio. Considerando che per ogni annata qualche decina di questi ragazzi riesce intorno ai ventanni a giocare al massimo in seconda categoria (ed è già un gran successo!), è una provocazione eccessiva quella di chieder loro di provare a specializzarsi nella disciplina del doppio, a partire, per esempio, dai diciassette/diociottanni, quando ormai, quasi sempre, s’è ben compreso il destino agonistico di un tennista?

Il doppio fa parte della natura del tennis: non è opportuno sbeffeggiarlo o trascurarlo. Anzi, impariamo a rispettarlo: come tutte le più belle cose, le perle più rare, anche per un solo giorno può dare soddisfazioni immense.

Marcos

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 Mats Wilander vince il suo unico torneo da numero 1 del mondo a Palermo. Batte in finale il connazionale Kent Carlsson con il punteggio di 6-1, 3-6, 6-4.

 

Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker