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20/10/2010 00:15 CEST - L' inchiesta

La rivoluzione del "veloce" va...lenta?

TENNIS - Col progetto “Campi Veloci” la FIT punta a riconvertire i campi in terra rossa in campi in cemento in modo da agevolare lo sbocciare di talenti in grado di competere anche sul rapido, terreno su cui si disputano la maggior parte dei tornei che contano. Il progetto è partito da quasi sei mesi, in collaborazione con l'Istituto per il Credito Sportivo, e ci siamo chiesti: quali sono state le reazioni dei circoli e degli addetti ai lavori? Sta prendendo piede l’iniziativa? Claudio Gilardelli  Una flash su Federer scatena un' ondata di commenti

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Che il primo campo veloce l’ho visto a 16 anni!
Volandri, rispondendo a chi gli chiedeva cosa gli fosse mancato in carriera.

La verità è che il mondo ha imparato a giocare a tennis e noi no
Starace, commentando la sua sconfitta al primo turno all’Australian Open 2010.


Che il tennis in Italia sia sport da terra rossa non è una novità. La maggior parte di noi, specie i non giovanissimi, si è avvicinata a racchette e palline proprio su campi in “mattone tritato”.  Ancora oggi la terra rossa conserva un fascino del tutto particolare, tanto da pensare che giocare a Tennis, quello con la “T” maiuscola, significhi tornare a casa con scarpe e calzini sporchi di rosso e che il tennis su un’altra superficie sia quasi un altro sport. Anche a livello agonistico non è diverso: i nostri giovani “campioncini” iniziano a competere proprio sulla terra, dove si tengono oltre il 90% dei tornei italiani. Storicamente, da Pietrangeli fino a Schiavone (passando per Panatta) l’eccellenza del nostro tennis si è manifestata sulla terra battuta. Gli ultimissimi risultati non smentiscono questa tendenza. La nazionale di Davis ha perso lo spareggio in Svezia anche a causa della superficie rapidissima; Seppi, unico italiano presente nei tornei asiatici sul duro, fatica a superare tre turni di seguito; Fognini che nell’ultimo mese ha giocato soprattutto a livello challenger, vincendo a Napoli e Genova e giocando maluccio in Sudamerica. Unico comune denominatore: i campi in terra battuta. Sono immagini che raccontano, appunto, la solita vecchia storia: gli italiani, per cultura e tradizione, amano il colore rosso.

Controcorrente
Purtroppo per noi, però, il resto del mondo sembra andare nella direzione opposta. Se diamo uno sguardo al circuito ATP, solo il 33% dei tornei è su terra rossa, di cui un unico Slam (Roland Garros) e tre soli Masters 1000 (Roma, Montecarlo, Madrid). Il restante 67% dei tornei è su terreni veloci. Scendendo di categoria, a livello challenger, i tornei sul rosso sono circa la metà (47%) mentre a livello ITF Future la percentuale sale al 68%. Conseguenza di questa situazione è che un tennista italiano che prediliga giocare sulla terra rossa potrà cimentarsi quasi esclusivamente in tornei minori. A parità di tornei (ma meno punti in palio) avrà quindi un classifica peggiore rispetto a un collega, di livello tecnico comparabile, che giochi preferenzialmente sul veloce.

Come uscire da questa empasse?
Secondo la Fit la via maestra è aumentare la dotazione di campi in superfici rapide nei circoli attraverso la riconversione di quelli esistenti in terra battuta. È questa, in estrema sintesi, l’idea che anima il progetto “Campi Veloci”, ideato da Roberto Commentucci, il cui scopo è operare una “rivoluzione culturale” che aiuti a costruire giovani tennisti capaci di competere, un giorno, contro i migliori su diversi terreni di gioco. Partito a maggio e vicino al giro di boa dei sei mesi, ci siamo chiesti quali sono stati i risultati ottenuti e qual è stato l’impatto dell’iniziativa ad oggi. “In questi cinque mesi abbondanti – dice Commentuccii campi installati e commissionati sono stati, secondo le mie fonti, circa 80. Con una media di due campi a circolo, hanno aderito circa 40 circoli, cioè l’8% di quelli di medie-grandi dimensioni. Un risultato soddisfacente se si considera che non c’è ancora stato alcun battage pubblicitario”. Ma la strada è ancora tutta da percorrere se si vogliono raggiungere Spagna, Francia e Germania, le tre nazioni europee che storicamente hanno prodotto il maggior numero di top 100 e che negli ultimi anni si sono dotate di un numero sempre più grande di campi veloci, rendendo impietoso ogni paragone: nel 2009 erano 10.000 i campi rapidi tedeschi, 15.000 quelli transalpini, 7.000 quelli iberici, mentre i nostri meno di mille.

Qual è l’impatto reale di Campi veloci?
I numeri però sembrano essere sensibimente inferiori. È quanto emerge dal confronto con i dati forniti dai dirigenti di Mantoflex, Greenset, Play-it, società leader nel settore di costruzione di campi veloci, che con i circoli hanno a che fare quotidianamente e con le quali la FIT ha stipulato convenzioni nell’ambito del progetto, anche grazie al supporto di un partner importante come l'Istituto per il Credito Sportivo, che dal 1957 ha l'opportunità di finanziare (a tassi agevolati) le opere in ambito sportivo e culturale e che negli ultimi anni, sotto la presidenza di Andrea Cardinaletti, ha acquisito un prestigio sempre maggiore.  “Dal punto di vista aziendale – dice Gianfranco Zanola di Play-it – il progetto Campi Veloci non ci ha sconvolto la vita né ci ha dato una grossa spinta. Infatti la nostra azienda costruiva in Italia circa un centinaio di campi l’anno e siamo rimasti su queste cifre. Piuttosto i circoli che già avevano preventivato di costruire campi in duro ci hanno chiamato per poter usufruire delle agevolazioni della Fit. Un numero? Sono circa una trentina. Lo stimolo a convertire campi in terra credo arrivi dalla possibilità di allenare i giovani più promettenti sulla stessa superficie su cui si disputano alcune importanti manifestazioni a livello mondiale: Sui campi in Play-It, infatti, si sono giocati l’ATP 250 di Bangkok, gli incontri di Coppa Davis a Tel Aviv e a Bucarest e l’esibizione Federer-Nadal del 21 dicembre all’Hallenstadion di Zurigo. E dal prossimo anno forse il Masters 1000 di Shanghai, dove abbiamo appena istallato tre campi test per permettere agli organizzatori di valutarne le caratteristiche, e il Masters di fine anno a Londra”. Ai cento campi annui costruiti in Italia quanti ne corrispondono all’estero? “A dire il vero ci siamo appena affacciati al mercato internazionale, da solo un anno, con Play-it Global. Nella nostra breve esperienza abbiamo già istallato una quarantina di campi e possiamo dire che le richieste arrivano soprattutto da Svezia, Russia, Repubblica Ceca e Polonia”. A Zanola fa eco Zino Puci di Greenset. “L’iniziativa Fit ha sensibilizzato i circoli: noi siamo sul mercato italiano da un anno soltanto e per quanto ci riguarda abbiamo avuto richieste di preventivo da 7/8 circoli grossi più altri circoli minori per un totale di una ventina di campi. Sul mercato straniero abbiamo invece un’esperienza pluriennale, anche a livello professionistico: infatti si gioca su Greenset nei tornei di Kuala Lumpur, Valencia, Basilea e al prossimo Masters di Londra. Per quanto concerne la mia esperienza posso dire che, anche in quei circoli dove i soci erano più restii a cambiare superficie, la nostra resina ha avuto un enorme successo e ora preferiscono giocare sul duro che sulla terra: i rimbalzi sono più regolari, non devono passare il tappetino, la granulometria della superficie permette movimenti naturali e gli infortuni non sono maggiori o più gravi che sulla terra rossa”. Fuori dal coro invece Massimo Franchini di Mantoflex: “Noi abbiamo avuto contatti con circa 150 circoli nell’ambito del progetto Fit ma alla luce del preventivo i club preferiscono poi mettere da parte l’idea di un campo in resina, oneroso da costruire anche con gli incentivi, e optare per altre soluzioni: l’erba sintetica o il red luxury, una sorta di terra sintetica che non richiede manutenzione. È una tendenza che va nella direzione esattamente opposta a quella prospettata dalla Fit. E, a dire il vero me lo aspettavo, ero scettico fin da subito. Infatti la mia esperienza in questo settore mi fa affermare che convertire un campo in terra rossa non è banale e ha un costo più elevato rispetto a quello ipotizzato dalla Fit (al massimo 30 mila euro, ndr), che ha tenuto conto solo del prezzo dei materiali e della loro posa. Nella realtà però dobbiamo considerare tutte le spese: bisogna smantellare le recinzioni e il campo, intervenire con opere di adeguamento del terreno, spesso lottare contro la logistica del club che non facilita l’ingresso dei macchinari necessari per effettuare i lavori all’interno del campo da convertire. Sono tutti problemi che gravano sui costi di cantiere”. Qual è una spesa verosimile? “A mio avviso, considerando la stesura del materiale più economico che abbiamo, il costo reale di un campo da convertire non può essere inferiore ai 35 mila euro. Senza tener conto della spesa in termini tempo: la riconversione rende inagibili i campi per almeno un mese. La mia soluzione? Bisognerebbe rivolgersi ai circoli sportivi, che hanno finalità più consone, e non ai club, che hanno una impostazione anglosassone in cui il socio e la sua soddisfazione sono la cosa più importante. In questo modo, secondo me non si crea un vero e proprio movimento”.

È solo l’inizio
Tralasciando per un momento il fatto che, inspiegabilmente, il progetto non sia stato ancora adeguatamente promosso, “L’impressione – spiega un addetto ai lavori – è che siamo ancora in quella fase di rodaggio in cui i circoli si stanno chiedendo quanto la Federazione creda in questo progetto. Posso rispondere loro che la FIT ci crede molto: presto ci sarà uno spot su Super Tennis TV e saranno organizzati numerosi tornei sul veloce. Degli esempi? Al Lemon Bowl di quest’anno, a Roma, i tornei under 14 maschile e femminile si giocheranno su campi in cemento preesistenti, inoltre, nel 2011, i Campionati Assoluti giovanili nazionali e regionali saranno giocati su campi veloci della FIT, mentre sul duro sono state già organizzate la Coppa d’Inverno e la Coppa Provinciale. Inoltre, i circoli intenzionati ad organizzare tornei ITF Futures maschili e femminili sui campi veloci saranno preferiti dalla Federazione nell’assegnazione delle date più appetibili. Dovrebbe innescarsi un circolo virtuoso, in cui organizzare sul veloce competizioni giovanili importanti può risultare in un aumento della domanda di campi veloci per allenare i giovani e la progressiva riconversione di una certa percentuale di campi consentirà l’organizzazione di un maggior numero di tornei sul duro. Parallelamente, sarà anche portata avanti un’opera di sensibilizzazione da parte dell’Istituto di Formazione Roberto Lombardi nei confronti dei tecnici di base, per intensificare l’addestramento sui colpi di inizio gioco, vale a dire il servizio e la risposta, curare già dall’infanzia e dalla pre-adolescenza la tecnica di spostamento sul veloce e incoraggiare un atteggiamento tattico aggressivo. Recentemente, il circolo romano Due Ponti, che si è aggiudicato il titolo nazionale a squadre under 16, ha annunciato pubblicamente di voler aderire a Campi Veloci proprio per venire incontro alle esigenze dei loro giovani migliori, Cristiano Compagnone e Federico Teodori, classe ’94, e metterli nelle condizioni migliori per continuare a progredire e tentare di sfondare anche nel circuito pro”.

Gli addetti ai lavori ci credono
Renzo Furlan, direttore del Centro Federale di Tirrenia, è sicuro della bontà dell’iniziativa e ha affermato recentemente su Super Tennis Magazine, in un’intervista rilasciata proprio a Roberto Commentucci: “E’ una cosa che ho vissuto per esperienza personale, da giocatore. Nato sulla terra, grazie al lavoro lungo e faticoso svolto con Riccardo Piatti sono divenuto competitivo anche sul veloce. A quel punto, ho fatto il salto di qualità che mi ha consentito di entrare nei primi 20. Prima, la mia stagione agonistica durava 3-4 mesi al massimo, mentre nella seconda parte della mia carriera avevo anche meno pressione, perché sapevo che ogni settimana, ovunque si giocasse, terra o cemento, poteva essere buona per fare punti”. Gli si affianca Umberto Rianna, allenatore di Starace: “Sono decisamente convinto che una formazione tecnica svolta sin da giovanissima età su superfici diverse possa aiutare i nostri giovani a diventare giocatori più universali. La classifica dei tennisti di alto livello ci dice sempre più che bisogna avere un bagaglio tecnico completo per essere competitivi su tutte le superfici.” Insomma, in conclusione, l’iniziativa è meritoria e, anche se partita in sordina, è forse un po’ presto per fare un punto della situazione. Le domande, quindi, restano: riuscirà la Federazione a convincere i gestori dei circoli ad affrontare questa metamorfosi, che, sotto molti punti di vista, è soprattutto un cambiamento radicale di mentalità? Basterà questa opera di ammodernamento ad assicurarci nel futuro un giocatore o una giocatrice in grado di competere per le vittorie finali in tornei importanti, magari trionfatore in uno Slam sul duro? O il progetto Campi veloci non è sufficiente e deve essere considerato solo un buon punto di partenza che deve però, nel rinnovamento, avere rispetto della tradizione tennistica italiana che ha la terra rossa nel suo DNA? Ci vorrà ancora del tempo prima di avere delle risposte.

Claudio Gilardelli

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker