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22/12/2010 17:27 CEST - IL CASO

Il TAR del Lazio dà ragione a Pistolesi

TENNIS - Una sentenza del TAR del Lazio accoglie il doppio ricorso di Claudio Pistolesi contro la Federazione Italiana Tennis. Cancellato il provvedimento della Corte Federale che gli aveva comminato 10.000 euro di multa (nonchè squalificato per 18 mesi) e dichiarati illegittimi alcuni articoli del Regolamento dei Tecnici in cui è dichiarata l'esclusività FIT sull'insegnamento del tennis. La sentenza completa.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Ter)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. 1289/10, proposto dal sig. Claudio Pistolesi, rappresentato e difeso dall’avv. Mario Esposito presso il cui studio in Roma, via Lattanzio n. 66, è elettivamente domiciliato,

contro

la Federazione Italiana Tennis, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Angelo Clarizia e Giorgio Leccisi e con questi elettivamente domiciliata in Roma, via Principessa Clotilde n. 2, presso lo studio dell’avv. Clarizia,

per l'annullamento, previa sospensiva,

della decisione della Corte Federale della F.I.T. n. 25/09 del 3 dicembre 2009, con la quale sono state inflitte la sanzione pecuniaria di € 10.000,00 e la sanzione inibitiva di un anno e sei mesi “a ricoprire cariche federali e a svolgere l’attività di tecnico” per l’asserita commissione del’illecito sportivo di cui agli artt. 1 e 7 del regolamento di giustizia della Federazione suppostamente “aggravato” ai sensi del’art. 41 bis, n. 3, lett. l) del medesimo regolamento, dal fatto che ricoprisse la carica di “tecnico federale” al momento della sua commissione, nonché di tutti gli atti, anche allo stato non conosciuti, presupposti, conseguenziali o comunque connessi, con particolare riferimento al regolamento di giustizia e al regolamento dei tecnici della F.I.T., nel testo modificato con delibera del 16 gennaio 2010.

 


Visti il ricorso ed i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Federazione Italiana Tennis;

Viste le memorie prodotte dalle parti in causa costituite a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 16 dicembre 2010 il Consigliere Giulia Ferrari; uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;

Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:

 


FATTO

1. Con ricorso notificato in data 1 febbraio 2010 e depositato il successivo 11 febbraio il sig. Claudio Pistolesi ha impugnato la decisione della Corte Federale della F.I.T. n. 25/09 del 3 dicembre 2009, con la quale gli sono state inflitte la sanzione pecuniaria di € 10.000,00 e la sanzione inibitiva di un anno e sei mesi “a ricoprire cariche federali e a svolgere l’attività di tecnico” per l’asserita commissione del’illecito sportivo di cui agli artt. 1 e 7 del regolamento di giustizia della Federazione, suppostamente “aggravato” ai sensi del’art. 41 bis, n. 3, lett. l) del medesimo regolamento, dal fatto che ricoprisse la carica di “tecnico federale” al momento della sua commissione.

Espone, in fatto, che le sanzioni gli sono state inflitte per “aver gravemente offeso la dignità, il decoro ed il prestigio del Presidente Federale”. Il procedimento che ha portato all’inflizione delle sanzioni è illegittimo perché non gli è stato dato modo di difendersi adeguatamente.

2. Avverso i predetti provvedimenti il ricorrente è insorto deducendo:

a) Illegittimità artt. 1, commi 2 e 3, 2, comma 1, 5, 6, 7, 8, 19, 21, 83 e 93 del Regolamento di giustizia.

Il Regolamento di giustizia della FIT è illegittimo nella parte in cui non identifica, in modo chiaro e preciso, le norme di condotta dalla cui violazione discendono le conseguenze sanzionatorie che hanno portato all’attribuzione, nei suoi confronti della sanzione pecuniaria e di quella inibitiva.

b) Illegittimità del provvedimento sanzionatoria per illegittimità derivata dall’illegittimità del regolamento su cui si fonda, censurata con il primo motivo, nonché per carenza di potere con violazione dell’art. 9, comma 5, lett. c) dello Statuto della FIT.

Con lettere del 2 novembre e del 3 dicembre 2008 il ricorrente ha dismesso ogni titolo di appartenenza all’ordinamento federale, con atto di recesso che ha raggiunto i suoi effetti nel momento in cui è pervenuto nella sfera di conoscibilità della Federazione. Il procedimento è dunque stato avviato e si è concluso in un momento in cui il ricorrente non era più legato da alcun vincolo di appartenenza alla Federazione.

c) Illegittimità del provvedimento sanzionatorio per illegittimità derivata dall’illegittimità del Regolamento di giustizia censurata con il primo motivo e per violazione del diritto di difesa e del contraddittorio, con violazione degli artt. 83, 85 e 93 del regolamento di giustizia.

Nel corso del procedimento disciplinare non è stato dato modo al ricorrente di difendersi.

d) Nullità del provvedimento sanzionatorio per difetto dei requisiti indispensabili per qualificarlo come decisione giudiziale – Eccesso di potere per sviamento.

Nel provvedimento disciplinare impugnato non sono indicati i fatti imputati al ricorrente.

e) Illegittimità del provvedimento sanzionatorio – Difetto di motivazione – Eccesso di potere, anche per falsità del presupposto ed erronea violazione dei fatti – Violazione del diritto di difesa e del contraddittorio e violazione dei principi giuridici che governano il procedimento disciplinare – Violazione art. 93 del Regolamento di giustizia FIT.

Il provvedimento impugnato è carente di motivazione.

f) Illegittimità del provvedimento sanzionatorio per falsa applicazione dell’art. 7 del Regolamento di giustizia e degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., falsità del presupposto, carenza istruttoria e omessa o insufficiente motivazione.

L’istruttoria che ha preceduto il provvedimento impugnato è stata carente.

g) Illegittimità dell’art. 1, commi 1 e 2, 2, comma 1, 3, 4, 39 e 40 del Regolamento dei tecnici FIT, come riformulato dal Consiglio Federale con delibera 16 gennaio 2010 per violazione degli artt. 4, 18, 33, 35 e 41 Cost..

Il Regolamento dei tecnici FIT, nella parte in cui preclude a chi non è tesserato, di insegnare presso i circoli sportivi, contrasta con il principio, costituzionalmente garantito, del lavoro, della libertà di insegnamento.

3. Il ricorrente chiede altresì la condanna della Federazione Italiana Tennis al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’illegittima sanzione che gli è stata inflitta.

4. Si è costituita in giudizio la Federazione Italiana Tennis, che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione.

5. Con memorie depositate alla vigilia dell’udienza di discussione le parti costituite hanno ribadito le rispettive tesi difensive.

6. Alla Camera di consiglio dell’ 11 marzo 2010, sull’accordo delle parti, l’esame dell’istanza di sospensione cautelare è stato abbinato al merito.

7. All’udienza del 16 dicembre 2010 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Preliminarmente il Collegio precisa che non terrà conto delle note d’udienza depositate il 15 dicembre 2010, perché ampiamente tardive.

Nel costituirsi in giudizio la Federazione Italiana Tennis ha sollevato l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione, sul rilievo che, essendo impugnata una sanzione sportiva, la controversia si esaurisce, ai sensi dell’art. 2 D.L. 19 agosto 2003 n. 220, nell’ambito della giustizia sportiva, essendo inibita la verifica della legittimità del provvedimento impugnato da parte del giudice dello Stato.

L’eccezione è priva di pregio.

Ritiene il Collegio che non occorre sospendere l’esame della controversia per attendere la decisione della Corte costituzionale sulla questione, sollevata, in relazione agli artt. 24, 103 e 113 Cost., da questa Sezione (con ordinanza n. 241 dell’11 febbraio 2010), relativa alla legittimità costituzionale dell’art. 2, primo comma, lett. b) e, in parte qua, secondo comma, D.L. 19 agosto 2003 n. 220, convertito dalla L. 17 ottobre 2003 n. 280, nella parte in cui riserva al solo giudice sportivo la competenza a decidere le controversie aventi ad oggetto sanzioni disciplinari, diverse da quelle tecniche, inflitte ad atleti, tesserati, associazioni e società sportive, sottraendole al sindacato del giudice amministrativo.

Ciò in quanto nel caso in esame sussiste la circostanza, assorbente rispetto ad ogni altra argomentazione, che radica sicuramente la giurisdizione in capo al giudice adito, e cioè il rilievo che il ricorrente in data 6 novembre 2008 si è dimesso da tesserato e da tecnico della Federazione. Se dunque il ricorrente non è più soggetto appartenente all’ordinamento sportivo e non può quindi adire gli organi della giustizia sportiva, deve allora necessariamente ammettersi che può rivolgersi per la tutela della propria posizione giuridica soggettiva agli organi della giustizia statale, a meno che non s’intenda paradossalmente affermare che in ambito sportivo esistono fatti e comportamenti nei confronti dei quali, ancorché sicuramente lesivi dei diritti fondamentali della persona, l’ordinamento sia statale che sportivo non apprestano rimedi giurisdizionali (T.A.R. Lazio, sez. III ter, 19 marzo 2008 n. 2472).

La resistente F.I.T. non può essere seguita neppure quando, a difesa della giurisdizione del giudice sportivo, sostiene che la giurisdizione di giudice diverso da quest’ultimo può essere riconosciuta solo quando le Federazioni operano come “organi del CONI” e la loro attività è “finalizzata alla realizzazione di interessi fondamentali ed istituzionali dell’attività sportiva” (pag. 4). E’ infatti agevole opporre che è proprio questa la situazione che ricorre nel caso di specie, atteso che da parte del ricorrente è contestato proprio il mal governo che dei relativi poteri è stato fatto, a tutela di interessi personali.

Parimenti non condivisibile è l’ulteriore argomentazione addotta a riprova della giurisdizione esclusiva del giudice sportivo, e cioè che gli atti e le pronunce impugnati “esauriscono i loro effetti esclusivamente in ambito sportivo”. Ed invero, a prescindere che detto ambito non si esaurisce in quello nel quale opera la F.I.T., è assorbente la considerazione che, come sarà dimostrato, gli effetti prodotti dalla decisione della Corte di giustizia e dal regolamento, parimenti impugnato, si traducono in divieti per il ricorrente di esercitare la propria professione nel mondo del lavoro sportivo.

2. Passando al merito del ricorso, preliminare appare l’esame della questione, sollevata con il secondo motivo di ricorso, relativa alla sottoponibilità a procedimento disciplinare del sig. Pistolesi da parte dell’ordinamento sportivo, avendo egli rassegnato le proprie dimissioni da tesserato e da tecnico della Federazione il 6 novembre 2008.

La censura deve essere disattesa, con richiamo a principi già enunciati dalla Sezione, secondo i quali il momento al quale occorre fare riferimento è quello in cui il fatto imputato all’interessato si è verificato e con la relativa contestazione ha avuto inizio il procedimento disciplinare, che nel caso in esame sono precedenti alle dimissioni.

Si tratta di principio al quale – ancorché inizialmente codificato per il procedimento disciplinare a carico dei pubblici dipendenti e che prevede l’esperibilità di detto procedimento anche a carico del dipendente già dimessosi – la giurisprudenza del giudice amministrativo ha attribuito, in prosieguo di tempo, valenza generale in ragione della sua ragionevolezza, che consente di utilizzarlo anche per la definizione di controversie che ingenerano identiche problematiche, sia pure con gli opportuni distinguo connessi alla differente natura del rapporto.

D’altro canto la ratio sottesa alla regola innanzi enunciata, e che ne giustifica l’impiego anche per vicende diverse da quelle relative all’impiego pubblico, ma comunque afferenti al mondo del lavoro, è di immediata evidenza, e cioè evitare che le dimissioni siano rassegnate al fine precipuo di impedire o interrompere il procedimento disciplinare, salvo poi chiedere la riammissione nell’ordinamento sportivo. A questo interesse dell’Amministrazione può accompagnarsi quello, parimenti qualificato, del dipendente ad ottenere una pronuncia che dichiari l’infondatezza degli addebiti che gli sono mossi e che gli restituisca l’onorabilità che gli preme gli sia riconosciuta anche fuori dell’ambiente di lavoro.

Il primo motivo di ricorso non è dunque suscettibile di positiva valutazione.

3. Passando all’esame delle altre censure dedotte giova chiarire che nell’impugnata decisione la Corte federale, premessa un’ampia e articolata difesa della sua giurisdizione a pronunciare sulla questione sottoposta al suo giudizio dal Procuratore federale, sul rilievo che il fatto contestato al ricorrente è precedente alle sue dimissioni – conclusione alla quale è riservata la massima parte del breve scritto e sulla quale il Collegio ha dichiarato di concordare – ha ritenuto “opportuno” (rectius, “doveroso”) anticipare il modus procedendi al quale si sarebbe attenuta nel definire nel merito la vertenza, e cioè “esaminare i fatti”, “in particolare le gravissime affermazioni del Pistolesi”, “riferiti da testimoni le cui attendibilità è fuori discussione”.

In contrasto con l’autolimitazione che il giudicante aveva posto alla sua attività e con principi processuali noti a qualsiasi operatore del diritto, la decisione: a) non reca alcuna indicazione dei fatti oggetto dell’esame; b) non dà conto del modo con il quale l’esame sui fatti sarebbe stato compiuto; c) nulla dice in ordine alla coerenza logica fra i fatti contestati ma neppure indicati, l’esame degli stessi e la decisione adottata; d) sostiene che le affermazioni del ricorrente sono “gravissime” e “certamente lesive del decoro e della dignità” non solo del Presidente, ma anche della FIT, nei confronti della quale il ricorrente invece non aveva mosso alcun rilievo e che certamente non può ritenersi danneggiata dai rilievi mossi all’operato del suo organo di vertice, unico oggetto del contendere, ma sul duplice addebito si fonda la decisione; e) non stabilisce se le ingiurie rivolte indirettamente dal ricorrente al Presidente consisterebbero nell’averlo definito “stronzo” ovvero “coglione”, tenuto conto delle diverse versioni rese dai due testimoni la cui attendibilità è stata dichiarata “fuori discussione” (giudizio non esteso alle altre dichiarazioni di segno contrario, non richiamate e messe a raffronto con le prime); f) neppure prende posizione sul contrasto fra le dichiarazioni rese dai due testimoni ritenuti attendibili, il primo dei quali aveva affermato che all’epiteto “stronzo” il ricorrente aveva aggiunto l’augurio che il Presidente finisse “schiacciato da un autobus”, aggiunta che il secondo testimone, pur presente, aveva dichiarato di non aver udito.

Si tratta di carenze ed omissione di gravità tale da giustificare il giudizio di palese fondatezza delle censure d)-e) e che da sole sono sufficienti all’annullamento della decisione impugnata.

4. Ritiene peraltro il Collegio .necessario, perché siano sufficientemente chiare le ragioni sottese alla decisione già anticipata, di approfondire il discorso sulle carenze riscontrate nella decisione della Corte, prendendo posizione anche sulla censura di carenza di istruttoria contestata dal ricorrente al Procuratore federale e ai suoi sostituti.

“Stronzo” e “coglione” sono epiteti ormai entrati nel linguaggio comune, qualunque sia il livello sociale del soggetto che li rivolge a sé stesso ovvero al suo interlocutore, e che non necessariamente hanno un intento offensivo, ma possono anche esprimere un dissenso amichevole, se non addirittura affettuoso, di chi li rivolge al suo interlocutore. Certamente non è questo il caso che ricorre nella specie, ma è da escludere che si tratta di epiteti che, anche se proposti con intenti tutt’altro che amichevoli, non hanno, per l’uso che ne fa la generalità dei soggetti, una gravità tale da giustificare le gravissime sanzioni comminate al ricorrente, sul presupposto di una sacralità da riconoscere al loro destinatario, ma che al limite giustificherebbero un richiamo ad un comportamento più corretto, specie se tenuto in pubblico, circostanza che, come si chiarirà, non ricorre assolutamente nel caso in esame.

In effetti la reazione del ricorrente alla telefonata fatta dal Presidente al tennista vincitore del torneo trova la sua causa nel fatto che, in contrasto con una prassi ricorrente nell’ambiente sportivo, e cioè rivolgere elogi e critiche innanzi tutto all’allenatore, in quanto responsabile della tenuta e del comportamento dell’atleta, e solo dopo a quest’ultimo, il Presidente aveva telefonato solo al vincitore del torneo, elogiandolo per la vittoria ottenuta, comportamento che il ricorrente, nello stato di tensione accumulato nel corso del torneo, aveva interpretato come un ingiustificato atto di scortesia nei suoi confronti e un tentativo del Presidente di appropriarsi di un merito non suo, comportamento che in effetti un Presidente, edotto delle responsabilità che ha nei confronti degli uomini soggetti al suo governo e della necessità di ottenere da tutti il massimo rendimento e la massima collaborazione, dovrebbe evitare.

5. Non è in grado di condurre a diversa conclusione il richiamo all’art. 7 del Regolamento di giustizia, che punisce con la sanzione inibitoria da tre mesi ad un anno (nella specie la sanzione comminata è invece di un anno e sei mesi) il comportamento del tesserato che “pubblicamente”, con parole, scritti ed azioni lede “gravemente” la dignità, il decoro e il prestigio degli organi federali. In ordine all’asserita gravità dell’epiteto indirettamente rivolto dal ricorrente al suo Presidente si è già detto. Ma manca anche il presupposto del luogo pubblico nel quale l’incidente si sarebbe verificato, atteso che l’episodio contestato si è svolto nel corso di un colloquio privato fra il ricorrente e il medico federale dottor Parra (primo testimone), che aveva passato il suo telefono al giocatore vittorioso perchè rispondesse alla chiamata del Presidente, colloquio al quale aveva assistito solo di passaggio il secondo testimone (l’osteopata signor Tosello), che proprio per questa ragione ha fornito una versione dei fatti nient’affatto coincidente con quella del Parra.

6. Ma fra gli addebiti da muovere al decisum della Corte federale un posto di assoluto rilievo assume il modo con cui essa ha utilizzato il materiale probatorio messo a sua disposizione dal Procuratore federale. Quest’ultimo, nella sua richiesta di fissazione del procedimento disciplinare, aveva dichiarato di essere venuto a conoscenza, “in via informale”, di alcuni fatti avvenuti in Croazia durante l’incontro di Coppa Davis ma, nonostante che le voci di corridoio a lui pervenute non possono che riferirsi a persone fisiche, non le ha indicate nominativamente, non ha chiesto alle stesse come fossero venute a conoscenza dei fatti di cui veniva informato, non le ha chiamate a testimoniare, non ha verbalizzato in loro presenza le notizie che gli venivano date, ma si è evidentemente accontentato di avere indicazioni sui soggetti che, per essere stati presenti all’episodio, erano in grado di dare testimonianza dell’accaduto.

E li ha individuati nel giocatore vittorioso Bolelli, che peraltro ha dichiarato di non essere stato presente all’accaduto perché si era allontanato subito dopo la telefonata con il Presidente; nel capitano della squadra di Coppa Devis Barazzuti, la cui dichiarazione riguarda solo fatti lontani nel tempo, del tutto estranei alla materia del contendere e da lui conosciuti solo perchè riferitigli da soggetti terzi, neppure in questa occasione nominati e che ciò nonostante è stata rimessa alla Corte federale; infine nei succitati signori Parra e Tosello.

Nessun richiamo è stato fatto ai soggetti indicati dal ricorrente a difesa delle proprie ragioni, perché evidentemente ritenuti inattendibili, né questa carenza è stata ravvisata dalla Corte, che si è limitata ad affermare che l’attendibilità dei due testimoni indicati dal Procuratore federale era “fuori discussione”, senza chiarire il perché di questa affermazione, che deve ragionevolmente ritenersi fondata su una conoscenza personale acquisita nel tempo dai singoli componenti del collegio giudicante, che non li esonerava dall’accertare la veridicità dei fatti e soprattutto il modo, assolutamente irregolare, in cui erano stati acquisiti, e le eventuali pressioni esercitate sui soggetti prescelti per testimoniare.

La riprova è nel modo seguito per acquisire le dichairazioni dei due testimoni ritenuti utili dall’accusa.

Mentre per il signor Barazzuti è stata disposta la convocazione in sede, per i signori Parra e Tosello il Procuratore federale ha ritenuto opportuno convocarli in un albergo di Olbia, e si è fatto accompagnare da due sostituti. Lo stesso trattamento è stato riservato al giocatore Bolelli, convocato in un albergo di Modena, che peraltro, come si è detto, ha dichiarato di non avere alcuna conoscenza dei fatti attribuiti al ricorrente.

Dal verbale del 27 aprile 2008 risulta che il suddetto dott. Parra dapprima è stato convocato (ore 11) ”informalmente” (questa è la locuzione che si legge nel verbale per indicare che non era stato regolarmente convocato) ed “interrogato” sui fatti di cui il Procuratore era venuto a conoscenza da soggetti non identificati. Una volta che, a seguito di detto interrogatorio, l’interrogato aveva “confermato” la veridicità dei fatti e la loro “gravità” (giudizio, questo, che non spetta al teste esprimere né all’inquisitore chiedergli), lo stesso è stato richiamato (deve ritenersi nel pomeriggio perché l’audizione risulta terminata alle ore 19) per “regolarizzare” la convocazione “informale” già avvenuta nella mattinata. Nell’occasione è stato ammonito, per non incorrere nella sanzioni previste dalla giustizia sportiva, a riferire su tutti i fatti a sua conoscenza ed invitato a non formulare riserve o eccezioni “in ordine alla repentinità della convocazione”. Nell’occasione il Parra ha dichiarato di non essere in grado di affermare se al colloquio fra lui e il ricorrente erano presenti altri soggetti, atteso che lo stesso si era svolto “al limitare di una porta, quindi in una zona di passaggio”, (il che conferma il carattere privato del loro incontro) e che nell’occasione egli si era limitato ad affermare che il telefono, di cui si era servito il Presidente per contattare il giocatore, era il suo e che dello stesso egli faceva l’uso che riteneva “opportuno”.

Lo stesso trattamento è stato riservato al teste Tosello, al quale è stata data lettura delle dichiarazioni già rese dal Parra ed è stato chiesto di confermarle. Al che il Tosello ha risposto affermativamente, sia pure con i distinguo di cui sé detto e che riguardano l’epiteto indirizzato indirettamente dal ricorrente al Presidente e l’aggiunta al quale aveva fatto cenno il Parra e che egli afferma di non aver udito.

Il comportamento sia dell’accusa che del giudicante è di assoluta gravità perché assunto in totale indifferenza per principi elementari di diritto processuale, il che induce a ritenere non arbitraria la tesi del ricorrente di un premeditato intento di danneggiarlo definitivamente sul piano professionale, ingigantendo con affermazioni apodittiche e con il ricorso a metodi scorretti di acquisizione delle prove una vicenda che andava risolta sulla base del comune buon senso.

Il ricorso proposto contro la decisione della Corte di giustizia deve essere quindi accolto, con annullamento della stessa e degli atti ad essa presupposti.

7. Si è detto in narrativa che il ricorrente ha impugnato uno actu anche il Regolamento dei tecnici nella parte in cui, con deliberazione adottata in data 16 gennaio 2010, e quindi immediatamente dopo la decisione della Corte di giustizia, ha previsto che: a) possono insegnare presso i circoli sportivi affiliati solamente i tecnici iscritti all’albo o negli elenchi tenuti dalla F.I.T. (art. 2); b) ai suddetti circoli sportivi è vietato “rigorosamente” di utilizzare tecnici non qualificati dalla F.I.T. sia per corsi collettivi che per lezioni individuali e di consentire sui propri impianti l’insegnamento che il regolamento vieta, con la comminatoria, in caso di violazione di dette prescrizioni, di sanzioni disciplinari a carico sia del circolo sportivo che dei suoi dirigenti (art. 3); c) i tecnici non possono prestare la loro collaborazione o riceverla da persone che non siano in possesso di una qualifica rivestita dalla F.I.T. (art. 40).

Nei confronti dell’impugnativa avverso le prescrizioni regolamentari la resistente F.I.T. ne ha eccepito l’inammissibilità per difetto d’interesse, sul rilievo che il ricorrente, a seguito delle dimissioni volontariamente presentate, non è più ad essa affiliato e quindi non è in grado di ricavare alcun vantaggio dal contestare le regole che essa detta ai soggetti iscritti nei suoi elenchi.

L’eccezione deve essere disattesa perché manifestamente priva di pregio.

Giova premettere, in punto di fatto, che non ha importanza stabilire se le norme contestate sono state introdotte per la prima volta dopo la sentenza della Corte di giustizia ed allo scopo di escludere definitivamente il ricorrente dal mondo sportivo, come afferma l’interessato, ovvero sono di antica origine, come eccepisce la resistente F.I.T., depositando peraltro a riprova del proprio assunto il testo attuale a stampa del regolamento, in cui il nuovo è sottolineato a penna, e il testo originario, parimenti a stampa, nel quale manca l’art. 40, oggetto di specifica censura. Ed invero, quale che sia la data alla quale risalgono le contestate prescrizioni, è evidente che l’interesse ad impugnarle nasce nel momento in cui, per avvenuto mutamento della situazione “di fatto” (le intervenute dimissioni), si verifica la situazione di danno ritenuta ingiusta dal ricorrente.

In punto di diritto è agevole opporre che è proprio la condizione di maestro di tennis dimissionario e non più affiliato alla F.I.T. che inibisce al ricorrente, per effetto dei divieti posti dal regolamento ai circoli sportivi di utilizzare soggetti estranei alla Federazione, di svolgere la propria attività professionale nei soli luoghi (i circoli sportivi) nei quali il maestro di tennis può esercitarla.

La resistente non può neppure essere seguita allorchè oppone che rientra nell’autonomia organizzativa delle Federazioni di imporre obblighi ai propri affiliati, sia circoli sportivi che tecnici, il che è affermazione condivisibile, ma a condizione che l’invocata potestà regolamentare si svolga nell’assoluto rispetto dei principi dettati dal legislatore comunitario e da quella nazionale in tema di diritto al lavoro, nonché di libertà di iniziativa economica, di associazione, di insegnamento, che nella specie risultano palesemente violati. Ed invero, vietare ai circoli sportivi (luoghi nei quali necessariamente si svolge l’attività addestrativa e competitiva) di utilizzare personale tecnico non affiliato alla F.I.T. significa vietare l’accesso ad un particolare settore del mondo del lavoro a professionisti come il ricorrente, la cui capacità non è mai stata messa in dubbio né avrebbe potuto esserlo tenuto conto dei titoli posseduti e documentati. Significa vietare ai circoli di poter scegliere liberamente i maestri di tennis da assumere sulla base non solo delle loro capacità tecniche ma anche dei corrispettivi richiesti, con palese violazione delle leggi di mercato perché una determinata categoria professionale (i tecnici affiliati) assume nel mercato una posizione dominante e monopolistica non per condizioni obiettive e naturali, ma solo perché chi li rappresenta ritiene di essere la sola a dettare le leggi del mercato. Né varrebbe opporre, sul filo della logica pura, che l’affiliazione è frutto di una libera scelta, atteso che detta scelta non è più libera se condiziona la possibilità di operare sul mercato del lavoro sportivo.

Il ricorso in esame deve pertanto essere accolto.

8. Deve invece essere disattesa l’istanza risarcitoria perché il danno ingiusto, che il ricorrente assume di aver subito sul piano della reputazione, dell’immagine e della identità personale professionale, non è affatto dimostrato e comunque, anche se ciò si fosse verificato, si tratta di diritti personali che la sentenza di annullamento del giudice amministrativo gli restituisce pienamente, riconoscendogli l’illegittimità di cui è stato vittima.

La stessa conclusione vale anche per l’asserito ingiusto danno patrimoniale subito, atteso che negli scritti difensivi del ricorrente manca qualsiasi indicazione di concrete offerte di lavoro nella qualità di allenatore ed istruttore di tennis, che egli non ha potuto accettare, né c’è la riprova della disponibilità di circoli sportivi ad utilizzarlo nei loro impianti in assenza del surrichiamato divieto regolamentare.

9. Il ricorso deve pertanto essere accolto nei limiti di cui in motivazione.

Le spese e gli onorari del giudizio seguono, come disposto dall’art. 26 c.p.a., la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Ter)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla la decisione della Corte Federale della F.I.T. n. 25/09 del 3 dicembre 2009 e, nei limiti di cui alla parte motiva, il Regolamento dei tecnici del gennaio 2010.

Respinge la domanda di risarcimento danni.

Condanna, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a., la Federazione Italiana Tennis al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio, che liquida in € 3.000,00 (tremila euro).

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2010 con l'intervento dei magistrati:

 

Giuseppe Daniele, Presidente

Maria Luisa De Leoni, Consigliere

Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore

 

 



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 20/12/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

LA SENTENZA SUL SITO DEL TAR

 

Redazione

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