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26/12/2010 21:07 CEST - Approfondimenti

Tecnica e tattica dei migliori: il 2010

TENNIS - Il 2010 ha visto pochi volti nuovi ma qualche decisivo miglioramento a livello altissimo. I progressi dei top-players si sono alternati nel corso dell'anno. Tiriamo le somme e analizziamo le evoluzioni e le involuzioni di alcuni dei più forti. Cosa è stato aggiunto e cosa è invece regredito? Nadal sa sfiancare sempre di più gli avversari, Federer ha ritrovato l'aggressività e Djokovic-Murray devono ancora trovare il bandolo della matassa. Rossana Capobianco

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Stagione di conferme mancate, rimonte riuscite e sfumate, di alti e bassi, novità da cercare.
Stagione che ti aspetti cambi qualcosa, e sostanzialmente rimane invece tutto invariato.
In due righe, è questo il sunto di un anno di tennis ad altissimo livello, in campo maschile. Distacchi che parevano e sono abissali e ci metti poco, a scombussolarti ritrovandoli colmati, se non superati. Novità tecniche: pochine, in realtà. Qualche rivoluzione tattica è stata tuttavia necessaria e ben accolta. Ma andiamo con ordine.

Rafael Nadal. Senza dubbio, è stato il suo anno. L'anno in cui ha conquistato di più, nel quale si è tolto soddisfazioni enormi dopo il digiuno lungo quasi un anno fino a primavera. Sull'amata terra rossa, il risveglio, la corsa verso la gloria. Ma cosa gli ha permesso di arrivare così in alto? Certamente una ritrovata forma fisica e l'accantonamento di problemi fisici che erano divenuti cronici, ma anche una decisa virata verso soluzioni tecnico-tattiche più aggressive e, quando possibile, meno dispendiose. Il servizio si è fatto, più che potente (le velocità inusuali si sono viste solo a New York), costante e redditizio. Spesso e volentieri, anche la seconda. Rafa tira di più anche con il rovescio e, complici le nuove corde, non disdegna, specie nelle partite più abbordabili, uno-due che gli consentono di risparmiare energie per match più ostici (Murray, Londra, n.d.r.). La copertura del campo è sempre ottimale, la risposta è divenuta, sul cemento, anche anticipata. No, Nadal non si è trasformato in un giocatore d'attacco. E' però migliorato nella comprensione e nell'attuazione di soluzioni che non sono proprio naturali per lui. Certo, con i più forti la tattica vincente è sempre quella che mira a sfiancare l'avversario buttandolo fuori dal campo o sfiduciarlo riprendendo qualsiasi palla. Ma i tre slam di fila - che potrebbero diventare quattro a Melbourne - sono frutto anche di decisioni tattiche e lavoro in questo senso che Rafa ha compiuto con un preciso obiettivo: completarsi per preservarsi.

Roger Federer. A inizio anno, nella lontana Australia ha giocato, nella fase finale del primo Slam dell'anno, il suo miglior tennis. In difesa e in attacco, Roger è stato impeccabile. A rivedere alcuni scambi (o game, o set) della finale contro Murray ti rendi conto di non aver mai visto un Federer così: aggressivo, in forma, tatticamente saggio, sicuro. Centrato di dritto e di rovescio, bene al volo, servizio pronto al momento giusto. Poi, in un posto ben nascosto tra un'infezione polmonare, il ritardo di preparazione, le disattenzioni e la sfiducia, ha perso la bussola. La partita giocata e persa ad Estoril contro Albert Montanes è simbolica in questo senso. C'è un'espressione di Federer immortalato in un'istantanea che parla da sola, e dice: "Ma che è sto schifo?". In autunno lo affermerà: "Avevo perso il mio gioco". Sì, lo aveva proprio perso. Il servizio, l'anticipo, perfino il SUO colpo, il dritto, mancava di incisività: spesso giocato da lontano, trattenuto, timoroso. Poco convinto, poco cattivo. E così Federer esce di scena presto a Parigi e a Londra (sebbene a Wimbledon le cose si siano complicate tra schiena e risentimenti muscolari alla coscia destra) e permette a tutti, addetti ai lavori e appassionati, di dichiarare, ancora una volta, la sua dipartita tennistica. Ma Roger, orgoglioso e ambizioso com'è, non ci sta. Chiama Paul Annacone, ex coach di Sampras che da sempre gode della sua stima e si rimette sotto. In armonia con il suo staff e il suo nuovo allenatore, decide che è ora di ritrovarla, la sua bussola. Si ripresenta negli U.S.A. aggressivo e votato all'attacco; nuovamente torna a colpire prima. In autunno, la tattica si è raffinata ed è maggiormente interiorizzata: i risultati si vedono. La ciliegina sulla torta, Federer la lascia per la fine: la prestazione contro il Rafa-piglia-tutto del 2010 alle WTF è sconvolgente perfino per i suoi più accaniti sostenitori (o faremmo meglio a chiamarli fedeli), che si strofinano gli occhi perché non ci credono: rovesci incrociati pieni e vincenti contro la chele mancina del suo avversario che, nonostante il cemento smorzi l'effetto del suo colpo, è da sempre una buona anestesia per il rovescio dello svizzero. Senza indugi è dunque il ritrovato anticipo la migliore evoluzione 2010 di Roger, che ha saputo ri-trasformarsi per necessità.

Novak Djokovic. A Nole va dato un merito, in questa analisi finale: è riuscito a semplificarsi cose che si erano fatte davvero complicate. Troppe persone pronte a dare consigli, suggerimenti (Todd Martin, anyone?) che si scontravano e affollavano la testa del serbo fino a fargli perdere fiducia e cattiveria. Djokovic ha deciso, in questo senso, di tornare al passato e di ricominciare a giocare secondo le proprie potenzialità, seguendo i punti di forza e conservando quanto di buono aveva sviluppato nel corso della sua crescita per arrivare nel podio mondiale. Non ci sono grossi accorgimenti tecnici per Novak, se non un'affidabilità maggiore delle variazioni di ritmo (back di rovescio, sostanzialmente) e un'acquisita sicurezza nel gioco di volo. Il resto, da quando sta lassù, Djokovic lo ha sempre mostrato. Dopo la prima disastrosa parte di stagione che lo ha visto racimolare sconfitte più che evitabili e risultati decisamente al di sotto di quanto ci si aspetti da lui, riecco il dritto aggressivo ed il servizio preciso e vario, tornati ad accompagnare il serbo che ha invece nel suo solito rovescio l'arma più sicura. Come nei due anni precedenti, mi tocca tornare a dire di una cosa che, per quanto possa risultare banale, è necessaria: se Djokovic vuole davvero intrufolarsi tra quei due e togliersi qualche soddisfazione maggiore, c'è un ulteriore gradino da fare. Forse per compierlo è necessaria la consulenza, convinta ed esclusiva, di un vero coach, che lo aiuti a completare il suo già ricchissimo bagaglio tecnico (Novak è uno dei pochissimi sul circuito a saper colpire la palla con precisione e profondità anche frontalmente ed ha una lucidissima visione del campo) e lo assista nella compilazione di una programmazione che risulta ancora troppo fitta e poco adatta ad uno del suo livello.

Andy Murray. Potrei copincollare le ultime righe, perché quanto detto per Djokovic vale anche per lo scozzese. L'aggravante, nel caso di Andy, è che la sua sensibilità di palla è perfino maggiore. Ma una testardaggine come la sua non si doma in poco tempo. A lui piace correre. "Quando vinco un punto salvando tre-quattro palle difficilissime da più parti del campo, è la mia soddisfazione maggiore". Ci dobbiamo rassegnare? Forse sì. Murray ha poche lacune tecniche e margini di miglioramento ancora numerosi. Tuttavia, lo scozzese persiste nel rimanere uno juniores inside. In Australia, prima della stesa contro Federer in finale, aveva disputato un grandissimo torneo: probabilmente scese in campo convinto e ne uscì frastornato. Così frastornato, deluso e rassegnato che i successivi mesi riuscì a combinare soltanto disastri in giro per i campi di tutto il mondo. Da Indian Wells a Montecarlo, passando per Roma e per certi versi anche a Parigi, le sconfitte furono toste e imprevedibili. A Wimbledon arrivò in semifinale anche grazie ad un ottimo tabellone, prima della lezione di vittoria subita da Nadal. A Toronto e Shanghai i veri alti della sua stagione, con le vittorie contro Federer in finale in entrambe le occasioni e un tennis a tutto campo pressoché perfetto. Prima di crollare a Londra, umiliato da quel vendicatore dello svizzero e battuto in una vera lotta agonistica e fisica da Rafa. Evoluzioni? No, nessuna. Rimane ancora da migliorare quel dritto da spingere e quella ballerina seconda di servizio. Va detto che questa stagione ha visto per lo scozzese anche l'interruzione del rapporto professionale con il suo allenatore (o meglio, uno dei suoi allenatori) e che è adesso ufficialmente alla ricerca di nuovi mentori, ammesso che sia disposto ad ascoltarli. Il discorso è sempre lo stesso: se riuscirà a convincersi della necessità di soluzioni più propositive e prenderà coraggio lasciando da parte lamentele e remore, Andy è destinato al successo. Altrimenti, per molto, molto tempo, avrà accanto al suo nome una casella che indicherà con un preciso numero gli Slam vinti, gli stessi dei miei: 0.

Robin Soderling. Confermarsi, da sempre, è la cosa più difficile. Soderling ci è riuscito. Chiude l'anno da numero 5 del mondo e con un titolo Masters 1000 in saccoccia. Chiude anche la partnership con colui che ha permesso il cambiamento dello svedese, da impertinente "sparapalle" a vincente attaccante da fondo. Magnus Norman non sarà più il suo allenatore; Robin si è affidato a Claudio Pistolesi, e molti di noi sono curiosi di vedere quali saranno le novità e se i livelli saranno di nuovo quelli degli ultimi due anni. Intanto Robin ha confermato i suoi progressi: dritti spesso più ragionati ma ugualmente profondi, il rovescio più affidabile, anche una maggiore varietà alla battuta. Ancora niente nei pressi della rete, neanche ci fossero gli squaletti che Federer immaginava da giovane. A proposito, Soderling lo ha finalmente battuto, quest'anno, e con che prestazione. Ancora a Parigi, ancora interrompendo un record storico (quello delle semifinali consecutive negli Slam, n.d.r.), riprendendosi la parte del guastafeste di lusso che gli calza a pennello. A Bercy, nel momento più inaspettato (nella fase finale della stagione è un po' calato), il primo titolo 1000, a suggellare tutti i progressi e le conferme ottenute.

Tomas Berdych. Finalmente. Alla fine, Berdych ce l'ha fatta. Ha raggiunto quei livelli auspicati da molti nel mondo del tennis. Uno con quella capacità di colpire la palla, che possiede potenza, precisione e velocità di esecuzione non può e non deve rimanere nella mediocrità. E Berdych, a questo destino già scritto dai più, si è ribellato. Con nuovi consiglieri e rinnovato impegno ha finalmente compiuto quei progressi di mobilità e di convinzione che lo hanno portato tra i primi del mondo, in finale a Wimbledon, a due vittorie contro Federer, al Master di fine anno. In semifinale al Roland Garros. Non che abbia compiuto progressi epocali, ma è finalmente riuscito a gestire il proprio talento. A far respirare il proprio gioco, a dare un senso al suo tennis, attraverso ordine e volontà. Il finale di stagione ha un po' rovinato le impressioni, il 2011 ci dirà se è stato solo un falso allarme o se il ceco ha adesso davvero l'ambizione che dovrebbe avere.

Il 2010 si chiude con la solita, inevitabile domanda: usciremo dal duopolio Federer-Nadal?
Ma ce n'è un'altra, forse più importante, che potrebbe essere decisiva per rispondere alla prima: Juan Martin Del Potro, dopo il grave infortunio al polso, l'assenza di un anno e il pentito ritorno anticipato, riuscirà a tornare dove lo avevamo lasciato?


Buon anno a tutti, che il tennis sia con noi.

Rossana Capobianco

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker