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03/02/2011 20:45 CEST - Australian open

Due giudici di linea a Melbourne

TENNIS - Sono i più vicini alla pallina ma nello stesso tempo quelli più distaccati dalla partita. Cambiano ogni ora circa ma sono sempre presenti in campo. In Australia ce n'erano due anche dall'Italia: Maria Antonietta Manganello e Francesca Di Massimo. Ci siamo fatti spiegare com'è la vita del giudice di linea. Enrico Riva

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ciUno dei paradossi del tennis è che mentre tutto il pubblico viene invitato a fare silenzio durante la partita in campo ci sono nove persone che cacciano urla potentissime a ogni scambio. E non sono i giocatori.
Il nostro è probabilmente lo sport in cui la proporzione tra i protgonisti e gli arbitri è maggiormente sbilanciata a favore di questi ultimi. Oltre ad un giudice di sedia, che è quell’individuo dotato di microfono, appollaiato su un trespolo, autore della comunicazione del punteggio e responsabile ultimo delle chiamate arbitrali, ci sono nove giudici di linea, ciascuno impegnato a curare una linea del campo. Vengono da tutte le parti del mondo, si pagano il viaggio ma hanno a disposizione vitto e alloggio e si vedono riconosciuto un compenso diario che sono tenuti a non rivelare. Se fanno il turno di sera prendono qualcosina in più.

C’è anche un po’ Italia in questo mondo di girovaghi: ci sono Maria Antonietta Manganello, Francesca Di Massimo e Giuseppe Solarino. Le due donne sono qui a Melbourne e sono arrivate ai quarti di finale. Si perché anche i giudici di linea hanno un loro tabellone virtuale e anche loro possono vincere il torneo. Come? Ogni giorno, di mattina presto, vengono radunati in un container (ci sono lavori in corso a Melbourne Park) e scoprono i loro turni. Un’ora in campo e un’ora di riposo per una giornata itinerante su tutti i campi. A fine serata si torna tutti alla base dove ad attendere c’è una lista. Lì si capisce se si va avanti.

Funziona che per ogni turno di lavoro il giudice di sedia ha un tabellino con i nomi dei nove “linesjudges” e nell’ora in cui lo coadiuvano ne valuta le prestazioni. Con un range da 1 a 7 in cui 1 è altamente negativo e 7 rasenta la perfezione, ciascuno dei nove termina la sessione con un punteggio che sommato a quello degli altri turni segnerà la giornata e il proseguo del torneo. In campo si comunica con gli occhi. A ogni pausa il giudice di sedia fa un giro con ognuno dei nove per sottolineare la bontà della prestazione o per rassicurare di eventuali errori. Nella strada verso le finali i giocatori passano da 128 per tabellone a 2. I giudici di linea da 345 a 20.

Storie e percorsi diversissimi che portano tutte in un unico posto: il campo da tennis. Francesca è di Bergamo, ha iniziato come giudice di linea e di sedia al torneo di Milano, nato nel 1978 e durato sino al 2005. Per lei, come per la maggior parte di loro è una seconda professione che svolge 15 settimane all’anno; per il resto lavora in una libreria: “Preferisco pensare che sia il mio secondo lavoro. Mi dà meno stress e se sbaglio posso sempre pensare che non è la fine del mondo.”

Antonietta è di Roma, ha iniziato a 21 anni e non ha più smesso. In realtà voleva iscriversi in piscina ma i posti erano finiti. “Mi hanno detto che c’era posto a tennis, a me sembrava uno sport noioso ma ci ho provato e mi ci sono appassionata”. Poi la sorte ci ha messo del suo offrendole l’occasione di una vita: “Ero andata in Federazione e un tizio per le scale mi ha chiesto se avessi voluto fare la giudice di linea al torneo di Roma. Non ci ho pensato un attimo e ora eccomi qui”. Anche per lei è un secondo lavoro che porta via quindici settimane l’anno. Normalmente fa l’avvocato e insegna legge alle superiori. Era sul campo durante la partita che Schiavone ha perso con Wozniacki: “Noi non possiamo rivolgerci ai giocatori ma loro spesso ci parlano. Francesca oggi mi ha detto – Non sai quante cose vorrei dirti – io le ho sorriso”.

Se guardi una partita in televisione e ancor di più dal vivo non ti accorgi quasi che ci siano così tante persone in campo. Eppure il loro è un ruolo di grande responsabilità e un loro errore può cambiare il corso di una partita. Non più nei campi principali dove da qualche anno vige l’occhio di falco, il sistema elettronico che riproduce il punto in cui la pallina è caduta, ma in tutti gli altri sì. Ogni linea ha una sua storia. Quella del servizio è la più difficile, poi ci sono le linee di fondo e infine le laterali. E’ una convenzione Hawk Eye. Ha una tolleranza d’errore di 4 millimetri per cui ogni tanto sbaglia anche lui. Secondo Antonietta questa “imperfezione” tecnologica tutelerà il loro ruolo, Francesca è più incline a pensare che un giorno non ci saranno più uomini e donne a chiamare fuori una palla. Entrambe però concordano che l’emozione che dà una voce umana difficilmente sarà sostituibile con un bip.

Non è richiesta preparazione fisica. Gli abiti te li danno in base alla taglia che dichiari al momento in cui chiedi di essere chiamato. Sì perchè non esiste un “sindacato” dei giudici di linea. Ognuno per sè e ogni torneo potrebbe essere l’ultimo. “Ti accorgi quando non sei più nel giro perchè ti iniziano a scartare da tutti i tornei. Ma poi lo capisci da solo se è finita, lo sai se non sei più competitivo” sottolinea Antonietta. Gli unici requisiti imprescindibili sono la lingua inglese e un udito perfetto. Poi per il resto van bene anche gli occhiali e la pancetta se ci sono.

E’ strana la vita dei giudici di linea. Sei la persona più vicina al mondo ai giocatori ma la partita praticamente non la vedi. Il rischio più grosso è che la mente vaghi e che ci si scordi della pallina.

Enrico Riva

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