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06/02/2011 23:42 CEST - Approfondimenti

Non siamo poi così soli

TENNIS - Una delle cose che rende magico il gioco del tennis è la sua caratteristica più propria: l'individualità. Ma seguendo la scia di tutti gli sport, il professionismo tennistico è cambiato, negli ultimi vent'anni. Dietro ad un campione c'è spesso un uomo, un team, una preparazione che forse minano il fascino della solitudine ma che sono divenuti imprescindibili. Rossana Capobianco

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Solo. Lì, dietro una riga bianca, da qualche parte del mondo, che cerca di scacciare via pensieri e distrazioni tra una folata di vento o l'umidità insopportabile. Che l'ha fatto così tante volte, che nemmeno se ne rende conto.


Il fascino puramente tennistico non può prescindere dall'elogio della solitudine dell'atleta, dall'individualismo che ne deriva. Ci pensi e diventi matto: io, una palla, una racchetta, un campo. E un avversario. Una vita che si riduce a questo, ancora ed ancora. Ogni giorno. Per qualche irrazionale motivo, per scelte inconsapevoli, per sopravvivenza.

Quasi come conseguenza della tematica letteraria novecentesca, la sfumatura romantica del gioco del tennis però si limita a questo; a questo e a poco altro. Il tennis moderno necessita di ritmi, organizzazione, strategie, preparazione. Molto meno affascinante, ma tremendamente reale.
Come accade in tutti gli sport, l'atleta va a cercarsi il proprio supporto, il sostegno da integrare alle proprie capacità. In poche parole, un allenatore.
Un mentore, spesso un motivatore.
Che da un decennio a questa parte è inserito in un vero e proprio "team", composto da preparatori atletici, fisioterapisti, occasionalmente anche da vice-allenatori che fanno da contorno seduti accanto a fidanzate e mogli onnipresenti.
Se nel circuito femminile in pratica non esiste giocatrice che non sia coach-dipendente e benefici dei regolamenti WTA sul time-out e consiglio del proprio guru durante i cambi di campo, nel tennis maschile, a livello alto, la considerazione dell'allenatore gode di prese di posizione a corrente alternata.
Facendo riferimento alle ultime vicende, la corrente attuale pare favorevole.
Non solo figure che fanno da accompagnatori ed amici, che vanno a prenotarti il campo di allenamento e raccolgono le palle finite a ridosso dei teloni; veri e propri rivoluzionari del gioco che donano linfa nuova a campioni in confusione, studiosi strategici magari al tempo non proprio fenomeni della racchetta, ma ora validissimi consiglieri.
Facile pensare a uno degli ultimi episodi a riguardo, quello di Stanislas Wawrinka, che nel bel mezzo della propria carriera ha deciso di non accontentarsi dei buoni risultati già ottenuti e, dopo aver interrotto la relazione con il mentore ed accompagnatore di una vita, ha voluto, cercato e trovato in Peter Lundgren il tecnico necessario per la svolta da attuare. Rapporto totale, pare, il loro, tanto da spodestare la famiglia che lo svizzero si era appena costruito. Lo stesso Lundgren che portò Marcelo Rios -per usare un'espressione comune, "il più grande giocatore a non aver mai vinto uno Slam"- in vetta alle classifiche mondiali, che costruì la gloria futura di Roger Federer, limandone gli eccessi e rafforzandone le lacune, che per qualche periodo riuscì a far pensare solo al tennis ad uno come Marat Safin, mai contrario alle distrazioni. Stan è adesso a ridosso dei top ten, di nuovo.


E a proposito di novelli top ten, parliamo di Tomas Berdych. Lo sciagurato sprecone di talento che per anni ha preferito non rischiare di esplodere definitivamente attraverso un cambiamento e che d'un tratto, svegliatosi dal torpore della compassione per se stesso, ha tirato fuori il meglio di sè con Krupa? Neanche sei mesi di lavoro, e la gestione del proprio gioco diventa quasi naturale: trovi poi il modo per vincere, per arrivare in finale a Wimbledon, ad un passo da quella di Parigi, vai a giocarti le World Tour Finals di fine anno. Non male, per uno sciagurato sprecone.


Mi ricordo una scena, una delle tante, ma abbastanza simbolica per luogo e tempo: campo Suzanne Lenglen, maggio 2008. Robin Soderling sta prendendo a pallate uno degli "enfants de la Patrie", rispondente al nome di Julien Benneteau. Buon giocatore il francese, nessun colpo definitivo però. Soderling sì, lo svedese è considerato uno dei migliori "sparapalle" del circuito, del tutto scriteriato. Il pubblico tifa, non smette di tifare anche se il giocatore di casa è sotto di due set e fatica a rimanere in partita; poi qualcosa si interrompe, lo svedese si innervosisce, la gente impazzisce, Benneteau inizia ad approfittarne. Sarà rimonta, con vittoria dell'enfant. Soderling uscirà dal campo dopo aver spaccato racchette e imprecato contro chiunque, soprattutto se stesso. Esattamente dodici mesi dopo, lo stesso svedese sparapalle e spaccaracchette interrompe una delle strisce vincenti più impressionanti del tennis moderno: le vittorie consecutive al Roland Garros di Rafa Nadal. Lo fa giocando una partita perfetta, togliendo sempre il tempo allo spagnolo, servendo con continuità ad altissima velocità, pulendo le righe di dritto e di rovescio. Non tremando nel momento in cui è necessario rimanere freddi. Non si fermerà lì, Robin andrà in finale perdendo poi da Roger Federer (al quale interromperà la striscia di semifinali consecutive negli Slam un anno dopo), ma da allora, non abbandonerà le vette più alte del ranking. Cosa è accaduto in un anno?
Qualunque cosa sia successa, non è successa per caso. E non grazie soltanto a se stesso. Magnus Norman, ex numero 2 del mondo, ritiratosi nel 2004 a causa di persistenti problemi fisici, era quello giusto per Soderling. Lo svedese dirà: "Le cose che mi dice lui me le dicevano anche altri, ma lui riesce a convincermi di queste cose". Non esattamente una dote da poco.


E cosa avrebbe fatto Nadal senza lo zio Toni?
Lo stesso zio che lo impostò mancino (lui destro naturale) perché ebbe la lungimiranza di comprendere che si sarebbe rivelata un'arma micidiale unita alle rotazioni, alla resistenza e intelligenza tattica del nipote?


Perfino chi ha 16 titoli del Grande Slam in bacheca decide di non potere fare a meno di nuove compagnie, nuovi consigli, aria fresca. Quello che è accaduto con Roger Federer e Paul Annacone. Roger che con gli allenatori ci è sempre andato con i piedi di piombo, perché di sè e del proprio gioco ha grande convinzione; che difficilmente guarda l'angolo prima di un punto importante, Roger a cui piace prendersi le proprie responsabilità, sul campo. Dicono, fin da ragazzino. Eppure, malgrado il lavoro sia ancora in pieno corso, l'ex allenatore di Pete Sampras e Tim Henman è riuscito a farsi ascoltare e comprendere da Federer, a cui certo poco puoi insegnare del gioco. Un gioco così complesso e sofisticato da mandarlo in confusione, una volta che la fiducia viene a mancare. Su questo ha lavorato, Annacone. "Parliamo di strategie e di filosofia tennistica. Con tutte le armi che ha a disposizione, è necessario che le idee siano semplificate e che riesca ad aiutarlo a combinare talento, testa e cuore". Così Federer riscopre l'anticipo, rinnova il proprio tennis, ed è intenzionato ad interiorizzare i cambiamenti anche quando la lucidità pare non rispondere all'appello, come nella semifinale in Australia contro Djokovic. Se ci riuscirà lo si vedrà col tempo, ma senza il nuovo apporto probabilmente non sarebbe nemmeno arrivato alle semplificazioni. Così come non avrebbe migliorato la volè di rovescio, senza Tony Roche. O tutto il rovescio, senza Lundgren.


Il motto "winning ugly" (divenuto libro qualche tempo dopo) di Brad Gilbert salvò Andre Agassi da una crisi di identità tennistica che non gli avrebbe mai permesso di conquistare il Career Slam; discutere con lui, instaurare un rapporto di fiducia e complicità donò al Kid di Las Vegas una motivazione che in precedenza non aveva mai avuto, da costretto al tennis.


Il concetto di solitudine del tennista ammalia, è vero. E può spesso trarre in inganno. Perchè chi è appassionato vive di romanticismo, di ideali, di mitomanie.
Il più grande sport individuale di sempre, però, si è evoluto. In campo, per fortuna, il tennista è solo: il destino della partita, del torneo, della carriera, è nelle sue mani. E nella sua racchetta. Lì, a ridosso di quella linea bianca, tra l'umidità e la folata di vento.
Nel tennis moderno però, prescindere da una preparazione atletica, strategica e tecnica dettagliata è impossibile: che l'ultimo degli idealisti se ne faccia una ragione.
 

Rossana Capobianco

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