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09/02/2011 10:10 CEST - Storie di Tennis

Ma l’abito può fare il giocatore?

TENNIS- Tradotto per voi, il profilo di una mania particolare degli appassionati di tennis: quella per il vestiario. Joel Drucker (autore di "Jimmy Connors saved my life") ci porta nei meandri della sua psiche di giocatore e appassionato, fra feticismo scaramanzia e manie: una storia in cui tutti i malati di tennis possono riconoscersi... almeno un pò trad. a cura di Veronica Villa

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Per ottenere l’oggetto del desiderio dovevo rubarlo. Era proprio lì nel pro shop del Los Angeles Tennis Club, un gilet bianco con l’alloro elegante di Fred Perry come logo. Lo stesso indumento che Jimmy Connors indossava nel 1974 quando raggiungeva il numero uno del ranking, perfetto per la mia nascente sensibilità tennistica, l’unione tra la tradizione britannica e la spavalderia americana.
Avevo 14 anni e avevo appena perso al primo turno dei Southern California Junior Sectionals del 1975. Ero sconvolto per la mia rapida sconfitta, dato che avevo raggiunto il terzo turno nello stesso torneo l’anno precedente, ed ero anche infuriato contro l’establishment tennistico. Il Los Angeles Tennis Club poteva anche farsi chiamare “La Culla dei Campioni”, avendo sfornato stelle come Ellsworth Vines, Bobby Riggs e Jack Kramer, ma aveva anche una lunga storia di discriminazioni contro gli ebrei come me, con la sua leadership elitaria personificata da Perry T. Jones, una sorta di J. Edgar Hoover. Nonostante Jones fosse morto cinque anni prima, la sua influenza continuava.
Così razionalizzai rapidamente e decisi che il mio atto criminale era giustificato nel nome della democrazia. Ma come fare? A quell’epoca i i giocatori praticamente giravano solo con la custodia della racchetta. Il gilet avrebbe formato un rigonfiamento visibile.
Ma io avevo qualcosa di meglio. Anni prima della comparsa dei borsoni che potrebbero ospitare un corpo umano, mia madre mi aveva comprato una borsa un po’ più grande di quelle che contengono le palle da bowling. Scivolai lungo il bancone del pro shop fino a dove dove si trovava il gilet, e lo spinsi nella borsa. Prendi questo, Mr. Jones.
Fatta esclusione per l’abbigliamento tennistico, preferisco frequentare il dentista piuttosto che comprare vestiti. Nei 28 anni che ho trascorso insieme a mia moglie Joan, che era una art director, ho avuto la fortuna di godere del suo senso del colore e della sua dedizione per gli acquisti da catalogo.
Ma se parliamo di tennis, i loghi, i colletti, le zip e i colori mi esaltano. La mia attuale maglia fortunata per le partite importanti è la Nike dry fit in blu con il colletto leggermente luccicante, l’ho comprata dopo aver visto Roger Federer allenarsi indossandola sei anni fa al Master ATP di Cincinnati. Il rosso evoca emozioni eccezionali per gli incontri dove la posta è alta e gli avversari sono spregevoli. L’arancione funziona per i giorni di sole e i doppi amichevoli.
Vivere nella California del nord, dove le temperature di solito oscillano tra i 12 e i 18 gradi, è il paradiso degli amanti della tuta. C’è la tuta Adidas con le tre bande retrò che Joan scovò da qualche parte, che mi fa sentire come una star degli anni ‘70, c’è la giacca bianca con il loro del Longwood Cricket Club che comprai durante un incontro di Coppa Davis, e c’è la Fila nera che vinsi ad una scommessa amichevole con un ex professionista che aveva messo in discussione la mia competenza storica.
Occasionalmente però, la mia bramosia mi si è ritorta contro. Una volta nelle Filippine ho comprato quattro magliette Ellesse, tre paia di pantaloncini e una felpa per soli 200 dollari. Il prezzo era troppo bello per essere vero, infatti scoprii poi che erano false. Entro un mese si erano disintegrate nella lavatrice. Qualche altro centinaio di dollari speso al negozio di Fred Perry a Londra è andato perduto quando ho scoperto, nel peggiore dei modi, che una taglia media europea è più piccola di una taglia piccola americana.
Il mio desiderio di indossare abiti da tennis di alta qualità risale a quando iniziai a giocare a tennis nei primi anni ‘70. L’esplosione di colori della controcultura si era diffusa in tutta l’America, il termine “a colori” concretizzato dal logo a pavone della NBC. Gli anni del boom del tennis coincidevano con l’allargarsi dello spettro cromatico. Improvvisamente uno sport che era stato bianco come un giglio per decenni, esplodeva in tutti i toni dell’arcobaleno.
Allo US Open del 1974, dove Connors portava il suo gilet bianco di Fred Perry sopra una maglietta di un rosso diabolico, il campione uscente John Newcombe faceva la sua parte con una curatissima maglia rosa adornata con il logo distintivo di Newcombe, una faccia con un paio di baffi e un singolo occhio. Un occhiolino sfrontato oppure un pirata prepotente? Il logo di Newcombe riassumeva tutto quello che volevo essere sul campo: regale, sicuro di me, elegante, leggermente irriverente e con il controllo completo della situazione. Un anno dopo riuscii a convincere mia madre a comprarmi quella maglia rosa.
Come ha scritto l’ex professionista e psicologo Allen Fox nel suo libro del 1979 Se sono il giocatore migliore, perché non riesco a vincere?, “nessuno crede davvero che lo spirito di Borg e Connors abiti effettivamente i vestiti da tennis che portano i loro nomi sulle etichette. Ma comprandoli e indossandoli, molte persone, che se ne rendano conto o meno, praticano una sorta di animismo, che può essere notato spesso anche nel comportamento dei bambini.
Fox ha spiegato come l’indossare un mantello da Superman da bambino l’avesse aiutato a sentire di avere poteri eccezionali. Io avevo imparato a giocare nei parchi pubblici e avevo perfezionato i miei colpi più sulle pagine della rivista Tennis che con le lezioni private. La giornalista Mary Carillo una volta descrisse la mia tecnica come “del cavernicolo raffinato”.
Mentre riuscivo a vincere ai tornei dei parchi locali, i tornei junior era una sfida ben diversa. Il mio primo anno di tennista junior persi al primo turno in otto tornei di fila. Ma un anno prima di rubare il gilet di Fred Perry, ero finalmente riuscito a vincere due incontri al Los Angeles Tennis Clus.
I grandi junior della mia infanzia nella California del sud avevano approcci diversi alla questione del guardaroba. Vince van Patten spesso si presentava con la racchetta senza custodia e una maglietta bianca. Stupida impreparazione o fiducia assoluta? Per Van Patten era la seconda. Eliot Teltscher preferiva una maglietta così sformata e grinzosa che sembrava appena pescata da una bancarella di quartiere. Ma questo aveva poca importanza, perché Teltscher, rapido come un folletto, infilava una vittoria dopo l’altra. E poi c’era Walter Redondo, che all’età di 16 anni esprimeva eleganza in tutto quello che faceva, dal modo di camminare a quello di portare le racchette, fino alla maglia con il colletto perfetto. Chiedete a chiunque abbia giocato il tennis junior nella California del sud in quel periodo e annuirà empaticamente se paragonate il giovane Redondo ad un prototipo adolescente di Roger Federer.
Quindi la mia opinione era che il mio gioco trasandato avesse bisogno di sostegno, i vestiti eleganti dei migliori del mondo mi avrebbero conferito almeno qualche grado di statura regale a attitudine competitiva.
Sei mesi dopo essermi procurato il gilet di Fred Perry, lo indossai entrando sul Campo Uno alla UCLA per giocare un mach challenge delle superiori che avrebbe determinato il mio posto nella squadra nel singolo oppure nel doppio. Quello era lo stesso campo dove Connors si allenava quando veniva all’UCLA. Sotto 3-0 nel set decisivo, riuscii a vincere al tie-break.
Scrive Fox, “Essere ben vestiti dovrebbe essere anche una affermazione di impegno nel match. Se state prendendo il match seriamente, allora è logico pensare che vi siate preparati seriamente. Questo include prendersi cura delle apparenze; è una manifestazione di rispetto per voi e per il vostro avversario”
Un rivale recente di nome John B la vedeva diversamente. “Indossate una maglia con il colletto ogni volta che giocate? I veri atleti indossano magliette!”. Naturalmente mi permetto di non essere d’accordo, nella mia testa risuona l’eco delle parole di Fox. Ma forse la cosa più strana, feci notare a John, è che ognuno di noi ha la propria teoria, ma in fondo siamo entrambi convinti del nostro personale concetto di Superman con il mantello.
Il gilet contrabbandato di Fred Perry è ancora nel mio armadio. Trent’anni dopo il mio episodio di taccheggio un buon amico, l’ex professionista Trey Waltke, è diventato il manager del Los Angeles Tennis Club. Anche lui è sensibile alla moda, una volta ha persino indossato pantaloni lunghi bianchi a Wimbledon. Ho dovuto dunque confessargli il mio crimine, indicando l’angolo del pro shop dove avevo rubato il gilet. Ci siamo accordati in modo che io potessi pagare per il mio crimine. Oggi cammino a testa alta, da uomo libero. E domani credo sarà una giornata da maglia blu.

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Joel Drucker

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