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20/02/2011 03:29 CEST - L'ARGOMENTO

L'allenatore in campo serve o no?

TENNIS - Nuovo capitolo sulla discussione su se sia giusto consentire il coaching nei tornei individuali. Un articolo di un magazine americano punta di nuovo i riflettori sulla discussione. Steve Tignor si schiera a favore e va contro Mary Carillo, ex pro apertamente contro questa pratica. Cosa cambierebbe se i tornei diventassero come i match di Coppa Davis? Claudio Giuliani

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“Sei in campo da solo. Giochi ad uno sport che richiede di trovare delle soluzioni, e devi farlo in uno stato emozionale. È come la vita. Impari ad avere fiducia in te stesso e a spingerti oltre sotto pressione”.

Parole di Andrè Agassi nella conferenza stampa della sua partita di addio al tennis. Sarebbe da aggiungere una sola cosa: che tutto quello specificato dal campione, va fatto da solo in campo. Potrebbe quindi l’aiuto di un allenatore sul terreno di gioco dare una mano? È l’interrogativo che periodicamente torna in auge nelle discussioni tennistiche. Siete favorevoli o contrari alla presenza dell’allenatore in campo durante i match di tornei non a squadre?

Al solito, la questione è dicotomica, non ammette ambiguità. O si è da una parte o si è dall’altra. Su Ubitennis.com (www.ubitennis.com/sport/tennis/2010/08/12/369586-coaching_campo_anche_uomini.shtm) l’argomento era già stato trattato ascoltando i pareri di Brad Gilbert, che si era dichiarato favorevole (e come dargli torto? Nel 1998 dopo che l’Atp sperimentò per tre mesi il coaching vinse, da allenatore di Agassi, due tornei), e quello di Chris Lewis, neozelandese finalista a Wimbledon nel 1983, che era contrario poiché tale pratica annullerebbe il lato mentale del giocatore, aspetto fondamentale nel tennis.

Il nuovo capitolo della discussione è alimentato da Tennis.com che dà voce a due pareri, discordanti ovviamente, sul coaching. A favore si esprime Steve Tignor, giornalista, con ben tre argomentazioni: “Il tennis è pur sempre uno sport individuale. Nelle competizioni a squadre è permesso ma poi in campo si è sempre uno contro uno; Prendere consigli fa sembrare i giocatori sprovveduti. La WTA permette alle tenniste, nei tornei non Major, di chiamare il coach un numero di volte prestabilito. Questo fa sembrare le tenniste deboli. Ma Michael Jordan, che riceveva la sua quota di consigli durante le partite, appariva come debole?; I giocatori non dovrebbero più risolvere problemi. Chi ha giocato sa che nonostante i migliori consigli, poi sul campo c’è il giocatore. È lui a giocare e a ragionare. Per me questo è abbastanza a livello di individualismo”.

Il parere contrario è firmato da Mary Carillo, già vincitrice del titolo di doppio misto nell’Open di Francia nel 1977. “Gli incontri sono una sorta di esame di conoscenza tennistica, dove si verifica il carattere e la capacità in campo di trovare delle soluzioni ai problemi. Aiutarsi con un allenatore sarebbe un’ammissione di una preparazione sbagliata dell’incontro. Ho assistito a degli esempi di coaching nel circuito WTA dove, in un atmosfera sessista e infantile, vorrebbero farci credere che questa pratica sia interessante dal punto di vista televisivo e migliori la qualità di gioco. Rigetto questa tesi. Secondo me se non si è capaci da soli a vincere gli incontri, è giusto perdere. L’esigenza primaria di un coach è quella di diventare obsoleto. Una volta che il tennista è formato, reso indipendente, capace di ragionare da sé, è capace da solo a vincere o a perdere e a capire il perché questo avviene”.

Quanto può influire sullo stato emozionale il conforto di un allenatore sul campo? Quanto può guidare lo sviluppo del gioco, quello sì demandato al tennista, la guida di un coach che dispensi consigli in maniera fissa ai margini del terreno di gioco? Questo, peraltro, già avviene. Le telecamere dei tornei sono soliti inquadrare i coach sulle tribune a compiere gesti codificati, atti ad adottare soluzioni per un qualcosa che in quel momento non sta funzionando. Certo la presenza sul campo nei tornei di singolare darebbe una dimensione diversa al gioco, simile a quanto avviene in Coppa Davis dove però delle volte la presenza di un allenatore serve di più ad aiutare nella gestione della pressione di un campionato a squadre che, quando partecipato con viva emozione, risulta maggiore rispetto a un torneo di singolare, complici anche le arene dove si disputano i match, delle volte degli autentici Colosseo moderni.

Altro discorso sarebbe da fare per la tipologia di coach che scelgono i campioni della racchetta, prima ancora di affrontare il discorso del campo. C’è chi abbisogna di un allenatore capace di pungolarlo e motivarlo dal punto di vista mentale e chi sceglie un allenatore, spesso un ex grande tennista del passato, per migliorare alcuni aspetti del proprio gioco. C’è il discorso fiducia, importantissimo in uno sport dove le emozioni sono alla base di tutto. E c’è il discorso carattere, l’ego del campione che, nello sport individuale per eccellenza, è esaltato e spesso al di sopra di tutto, figuriamoci dei consigli esterni. Un discorso quindi molto più ampio della presenza o meno sul campo del proprio allenatore. Voi cosa ne pensate?

Claudio Giuliani

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