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27/02/2011 23:11 CEST - Momento no

Lo strano caso di Querrey e Isner

TENNIS - Dati come emergenti al termine dell’estate 2010, i due “ragazzoni” del tennis americano stanno gradualmente scomparendo dai piani alti del ranking ATP, lasciando sempre più sulle spalle del solo Roddick la responsabilità di tenere alta la bandiera degli Usa. Crisi passeggera o naturale declino di due buoni giocatori che hanno però già espresso tutto? Christian Turba

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Solo pochi mesi fa sembravano poter rappresentare il futuro del tennis maschile a stelle e strisce, i successori - pur un po’sbiaditi rispetto all’originale - di A-rod: ora, invece, i loro nomi scendono sempre più in basso nel ranking ATP, settimana dopo settimana.

Come tutti avrete capito, stiamo parlando di Sam Querrey e John Isner, esponenti principali della “ nouvelle vague” statunitense, anzi per meglio dire di quella generazione di mezzo tra i Roddick, Blake e Fish e le nuove leve come Ryan Harrison: annunciati come potenziali candidati alla top 10-15, entrambi vittime di un trend negativo che li ha portati a occupare, rispettivamente, la 22esima e la 32esima posizione della classifica.

Sicuramente, la crisi più evidente è quella di “Sam I am”. Già sulla cresta dell’onda da 2-3 anni, il 23enne di San Francisco aveva iniziato la sua ascesa nel 2010 proprio in questo periodo, aggiudicandosi l’ATP 500 di Memphis - ai danni dello stesso Isner. Dopo i deludenti risultati nei Master americani, la terra gli aveva poi portato in dotazione la finale “casalinga” a Houston e una replica della finale vinta nella patria di Elvis, questa volta a casa Djokovic-Belgrado.

Cambiavano le superfici, ma non gli esiti: Querrey bagnava il suo esordio stagionale sull’erba con la prestigiosa vittoria del Queen’s - ai danni dell’altro connazionale Fish -, per poi ottenere il primo ottavo della carriera ai Championships, superando uno specialista come Malisse in una battaglia serrata terminata 9-7 al quinto e rischiando di strappare il primo set all’idolo di casa Murray, prima di crollare alla distanza. Ma la parte migliore della stagione, come ampiamente prevedibile, gliel’avrebbero riservata i tanto adorati tornei estivi statunitensi: espugnata Los Angeles al termine di un’ottima finale contro il Vampiro scozzese, Sam si sarebbe poi messo in luce nella cornice migliore per un americano, quella cornice di Flashing Meadows che due anni prima l’aveva visto lottare strenuamente contro Nadal. Dopo aver disposto in 3 set - in maniera più agevole del previsto - dello spagnolo Almagro, il biondo californiano che tanto ricorda i personaggi di American Pie avrebbe messo in scena un intenso ottavo di finale con la compartecipazione di Stas Wawrinka, vincitore per 6-4 al 5° set di un match che entrambi avrebbero potuto conquistare senza aver rubato nulla
.
Soddisfazione, certo, ma anche delusione per aver mancato al fotofinish l’appuntamento con un quarto di finale, quello contro Youzhny, che gli avrebbe dato molte speranze di ripetere l’exploit targato Ginepri 2005 e sfidare il re maiorchino in semifinale: tutto induce a pensare che in Sam sia prevalsa questa seconda dimensione rispetto alla prima. Infatti, finita la tournée statunitense, l’allievo di David Nainkin non ne avrebbe imbroccata più una, vincendo un solo match - contro Berrer a Shanghai - nello scorcio finale di 2010 e palesando un’enorme difficoltà di adattamento alle condizioni di rimbalzo della palla sui campi indoor (memorabile in questo senso il match di 1° turno di Parigi Bercy contro Monaco).

Difficile par peggio di così, pensavamo tutti: invece l’inizio del 2011 è stato disastroso, con 3 sconfitte su 3 match tra Sydney e San José e l’umiliazione di farsi rimontare un set di vantaggio dal desaparecido Kubot in uno dei primi turni più intensi dell’Australian Open (8-6 al quinto, in favore del polacco, il punteggio). E menomale per lui che l’assenza di risultati nei corrispondenti tornei della stagione precedente gli ha permesso di non pagare dazio in termini di ranking ATP, e anzi d’inerpicarsi fino al best ranking di numero 17: la prematura sconfitta - da parte di Fish - nel torneo di Memphis, però, ha infine sancito la sua uscita dalla top 20 mondiale.

Diverso, ma sostanzialmente uguale, il caso del gemello Isner. Molto più performante del collega nella primissima parte dell’anno, il pivot di Greesnboro si era già segnalato a inizio 2010 conquistando Auckland ed estromettendo l’enfant prodige francese Gael Monfils dalla corsa all’Australian Open: poi, le due finali soprammenzionate l’avrebbero portato al raggiungimento della top 20 già durante la stagione terricola. Dopo la stesa rimediata dal “nuovo” Berdych in quel di Parigi, ecco poi arrivare la gloria londinese, il 1° turno più famoso di tutti i tempi che ha consacrato lui e Nicolas Mahut alla memoria tennistica e sportiva tout court: peccato solo per la stanchezza delle 11 ore e 5 minuti di match - spalmate su 3 giorni, ricordiamolo! -, che gli è costata l’eliminazione al turno successivo da parte di De Bakker. Poco male, si pensava: la caparbietà mostrata dal 26enne del North Carolina nell’andare a vincere un match che l’aveva visto restare praticamente immobile faceva pensare che a breve l’avremmo rivisto su grandi palcoscenici.

Invece, dopo quella battaglia mortale, i risultati del 2010 son stati molto altalenanti: sì, finale ad Atlanta, prestigiosa semifinale a Pechino con tanto di vittoria su Davydenko, ma anche secondi turni su secondi turni, con l’aggravante di aver perso “domo sua” col nemico russo Youzhny, in un 3° turno newyorkese molto accessibile. Il 2011 non sembra aver preso una piega diversa per lui: una vittoria esclusivamente di grinta ai danni di Haase ad Auckland - dopo essersi trovato sotto di un set e un break -, il 3°turno di default agli Australian Open, perso per 9-7 al 5° set dal redivivo Cilic, e poi l’eliminazione prematura da Memphis, che l’ha portato alla 32esima posizione occupata attualmente.

Come spiegare il calo repentino delle nuove speranze del pubblico yankee? Sicuramente, i due casi vanno analizzati singolarmente. Mascherina Querrey, ormai, la conosciamo: dal 2008 ad oggi, Sam I Am va costantemente in letargo tra settembre e gennaio-febbraio (unica eccezione, la finale ottenuta a Auckland nel 2009), per poi ottenere risultati altalenanti tra marzo e maggio/giugno e dare il meglio di sé con l’arrivo dell’erba e, soprattutto, degli amati tornei estivi americani: non è un caso che 5 delle 6 vittorie e 4 delle 5 finali che compongono il suo palmares siano state conquistate tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Vedendo questo pessimo inizio, si potrebbe pensare che ancora una volta entrerà in forma nello scorcio centrale di stagione: certo, però, che se qualche torneo dovesse andare peggio del previsto, il ragazzo rischierebbe di sprofondare, anche perché la maggior parte dei suoi punti viene da tornei ATP 250 e 500.

Come dire: o si sveglia e lascia traccia di sé in Slam e Master 1000 (preoccupante l’assenza di ottavi di finale, Wimbledon e Us Open a parte, in questo tipo di torneo nel corso della stagione passata), o è destinato a restare semplicemente un giocatore da top 25-30. Certo,vedendo l’estrema “monotonia” del suo gioco - buon servizio, dritto e rovescio regolari e poco altro - e stando a dichiarazioni come quella in cui, all’indomani della sconfitta rimediata da Ginepri al Roland Garros 2010, affermava di esser felice di aver perso perché poteva ritornare da mamma America, è difficile pensare ad una maturazione tennistica ulteriore...

Per Isner, la situazione è più complicata e si può analizzare sotto due chiavi di lettura diverse. Da un lato, c’è la stanchezza di un marcantonio di 206 cm che durante il 2010 ha accumulato tornei individuali e a squadre di ogni sorta, siglando oltre 1000 aces e mettendo in carniere il famoso match in 3 giornate più una serie di incontri combattuti; dall’altro, c’è il naturale calo di un “ bombardiere” (detto in senso tutt’altro che spregiativo) che basa gran parte del suo gioco sulla prima di servizio e sulle bordate tirate col dritto e quindi necessità di una forma fisica perfetta per esprimersi al massimo, forma che la corporatura così massiccia non aiuta a mantenere a livelli costanti per 12 mesi.

Probabilmente basteranno un po’di riposo, l’arrivo di palcoscenici a lui congeniali e qualche tabellone favorevole, e Big John tornerà ad ottenere vittorie importanti, perché certo la freddezza e la lucidità dei migliori non gli mancano: speriamo solo che il fisico tenga, perché se così non fosse il crollo rischia di essere verticale...

Christian Turba

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