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21/03/2011 17:31 CEST - IL RACCONTO

In odor di GOAT Big Bill Tilden (2)

TENNIS - In questa seconda parte presentiamo l'uomo Tilden, dall'esistenza sfortunata e frustrata in cui il tennis fu sempre presente. Dalle sue velleità artistiche ai suoi vizi, dal rapporto con i colleghi a quelli con gli artisti del tempo. Omosessuale dichiarato, venne arrestato per presunte moleste e morì in miseria. Ma fece in tempo a scrivere una "bibbia" tennistica. Enos Mantoani

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Nell’accingermi a scrivere la seconda parte di questo contributo incentrato sulla sua parabola umana di Bill Tilden, ho fatto suonare un cd di Django Reinhardt, Nuits de Saint-Germain des Prés, che ci riporti agli anni’20 e alla Parigi dei Café che sicuramente Tilden avrà amato. Anche se lui prediligeva l’Opéra, tanto da collezionarne 2000 dischi e tentare, prima di quella tennistica, la carriera artistica, come cantante, o come attore, e poi come scrittore. Non ne aveva però le doti. Gli déi del tennis lo avevano sottratto alle Muse, ma lui per tutta la vita le inseguì corteggiandole, mai ricambiato. Spese tutti i soldi di famiglia e quelli guadagnati sul campo (seppur la gran parte sottobanco) per cercare la fortuna teatrale a Broadway, o facendosi stampare romanzi illeggibili, o insistendo presso gli amici divi di Hollywood (come Chaplin) per avere dei cammeo almeno sul grande schermo.

Non potendo essere artista, fece il Divo, almeno sui campi, raggiungendo la stessa notorietà di altri sportmen americani dell’epoca, come Babe Ruth. Soleva dire che “il tennis è ben più di uno sport. È un’arte, come il balletto. O come il teatro. Quando scendo in campo mi sento come Anna Pavlova, o come Adelina Patti, anche come Sarah Bernhardt (N.d.E.: celebri attrici dell’epoca, comparabili alla nostra Eleonora Duse). Vedo le luci della ribalta, sento i gemiti del pubblico”.

E come tutti gli attori che si rispettino, aveva un carattere narcisista e anticonformista: era una primadonna. Avendo firmato l’autografo di un ragazzino solo con il cognome, e interrogato sul perché non avesse scritto anche il nome chiosò: “Forse che la Garbo firma diversamente?. Per questo non sopportava che altri gli rubasse la scena e soprattutto non sopportava la Lenglen e Borotra, proprio perché erano e si atteggiavano a Divi quanto e più di lui, e di loro criticava lo stile: della Diva perchè era eccessiva, di Borotra perchè falso, ciarlatano, affascinante e insincero come Parigi. Di lui si riconoscono invece l’eleganza e la correttezza, possedeva innato lo stile e la lealtà per farsi amare più in Europa che in America dove non gli perdonavano le mattane e l’essere omosessuale. A quel tempo dichiararsi gay era un reato. E se i pregiudizi sono rimasti gli stessi anche oggi, all’epoca venivano apertamente espressi. In un film dell’epoca c’è una scena in cui a proposito di due fratelli si dice: “Uno gioca a tennis, l'altro invece è un maschio” (“One's a tennis player; the other's a manly sort of yellow”)”. È curioso a questo punto notare come proprio Tilden, omosessuale, sdoganò il tennis che iniziò non più a essere visto come sport da femminucce (nel senso spregiativo usato con questo termine), ma come sport anche per rudi popolani, poiché lui riuscì a catalizzare l’attenzione dei più diversi strati sociali. Ancora a fine anni ’80 (del Novecento), Bud Collins sentiva questi commenti: “Che sport sarà mai se il più grande di tutti i tempi era una checca?”. Venne anche rappresentato nel romanzo di Nabokov, Lolita, sotto lo pseudonimo di Ned Litam, che letto al contrario è Ma Tilden e dipinto come un ex campione di tennis circondato da un harem di raccattapalle e dichiaratamente omosessuale.

Anche i suoi colleghi furono spesso maligni e cattivi con lui su questo aspetto, tanto che Gianni Clerici racconta il seguente rumor: partecipando il Nostro alla prima edizione degli Internazionali d’Italia (Milano, 1930) e giunto agilmente in finale, fu apostrofato in malo modo con epiteti legati alle sue preferenze sessuali dal barone De Morpurgo, prossimo avversario nel match finale del torneo. Adirato, Big Bill gli lasciò la miseria di quattro game imponendosi 6-1 6-1 6-2.

Ci sono comunque due grosse macchie nella vita di Tilden. Venne incarcerato due volte (1946 e 1949) con l’accusa di molestie sessuali nei confronti di due adolescenti. Sebbene Tilden prese fin da giovane sotto la sua ala protettiva diversi ragazzi che volevano intraprendere la carriera tennistica (dei quali Vinnie Richards fu il più talentuoso), e sebbene nessuno ebbe a dire che queste relazioni esulassero dal mero rapporto tennistico, nessuno volle più affidargli dei ragazzi, tanto che perse il lavoro come maestro di tennis. Queste due macchie sono forse figlie di un'infanzia sfortunata e tormentata. Perse infatti la madre in tenera età e con il padre, che pure morì quando Bill era ancora giovane, ebbe un rapporto quantomeno conflittuale. Nel 1931, come detto nella puntata precedente, Tilden venne squalificato dalla federazione americana con l’accusa di non essere un vero dilettante e quindi di ricevere dei compensi, seppur per avere scritto di tennis come giornalista. In realtà lui, come gli altri, veniva sottobanco remunerato per la partecipazione ai tornei (anche ai nostri Internazionali d’Italia del 1930); ed era risaputo. Ma fu il pretesto che i giudici federali utilizzarono per toglierlo di mezzo.

Passò dunque al professionismo con buonissimi risultati, essendo sempre l’attrazione principale delle tournée professionistiche. Fino alla sua morte fu innamorato del tennis e lo studiò nei minimissimi particolari. Tra i suoi contemporanei, il solo Renè Lacoste fece altrettanto. Scrisse tre libri sul tennis, tutti best seller, il più famoso dei quali sarà Match Play and the Spin of the Ball, tuttora ristampato e vera Bibbia tecnica dell’epoca; la massima più famosa sarà “mai cambiare un gioco vincente, sempre cambiare un gioco perdente”, frase che sembra lapalissiana e banalotta, ma che andrebbe ripetuta come un mantra anche ai nostri giorni. Dai suoi scritti affiora anche l’arguzia: in certe frasi ed aforismi, Tilden sembra l’Oscar Wilde del tennis. E come l’illustre scrittore, morì in disgrazia, sul lastrico, abbandonato dalla folla prima osannante. Fu colpito da infarto mentre si recava all’ennesimo torneo di tennis: era il 1953.

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