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06/07/2011 20:35 CEST - IL PERSONAGGIO

Djokovic dalle bombe al numero 1

TENNIS – Nato in mezzo alle piste di sci. Cresciuto tra le bombe. Emigrato in Germania senza una giacca da indossare. Sono le origini di Novak Djokovic, il nuovo leader del tennis mondiale. Il padre si era rivolto agli strozzini per permettergli di viaggiare, e aveva pensato a farlo diventare britannico. Ma lui aveva due ossessioni: l’amore per la Serbia e il numero 1 del mondo. Riccardo Bisti

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Quello che si definisce “attacco” è la parte più importante e più difficile per un articolo giornalistico. In poche righe devi invogliare il lettore ad andare avanti e non passare oltre. Con Novak Djokovic corri il rischio contrario. L’aneddotica sul nuovo numero 1 ATP è talmente vasta che ogni attacco può essere buono. Noi abbiamo scelto un personaggio. Molto banalmente, la sua prima maestra. Jelena Gencic è un’istituzione nel suo paese. Un paese che prima si chiamava Jugoslavia e che oggi si è sgretolato in tanti stati indipendenti. Ex atleta olimpica, aveva già allenato Monica Seles e Goran Ivanisevic quando un piccolo Novak si presentò al suo cospetto. “Mi bastò una settimana per capire chi avevo di fronte. Dopo 5 giorni di allenamento l’ho preso da parte, davanti ai suoi genitori, e gli ho chiesto se avrebbe accettato di passare i successivi 7-8 anni ad allenarsi duramente, mischiando lacrime e gioie. Lui non ha avuto dubbi”. D’altra parte cosa aspettarsi da un bambino che si presentava agli allenamenti "Con il suo thermobag, la racchetta che gli avevo regalato e le banane. Non parlava e camminava a testa alta. Una settimana dopo vinse il suo primo torneo”. A 7 anni fece la sua prima apparizione nella TV serba e disse, senza mezzi termini: “Voglio diventare un campione. I giochi? Solo alla sera, perché di giorno mi devo allenare”. La stessa Gencic convocò una conferenza stampa per dire che quel bimbo sarebbe entrato tra i primi 5 del mondo. Diciamo che è stata prudente.

Musica classica e bombardamenti
Figlio di Djana e Srdjan, due ex sciatori, Nole passava buona parte del suo tempo a Kopaonik, villaggio montano nel cuore della Serbia dove i genitori gestivano una pizzeria chiamata “Red Bull”. Un giorno vide Pete Sampras vincere il torneo di Wimbledon e rimase folgorato. Non tanto da “Pistol Pete”, quanto dal tennis. Dalla gloria che avrebbe potuto regalargli il tennis. In quei giorni la Gencic stava aprendo un Campus estivo a Kopaonik. Il piccolo Novak insistette per parteciparvi e quando un bambino vuole una cosa, si sa, alla fine la ottiene. “Jelena è stata una mia seconda madre – racconta oggi – non si occupava solo del tennis, ma di ogni aspetto della mia vita. E ascoltavamo la musica classica insieme”. Gli fa eco la Gencic, oggi 75enne. “Alla sera capitava di vedere i filmati dei grandi campioni e lui mi riempiva di domande. E poi ascoltavamo musica classica per allenare la concentrazione. Una volta abbiamo sentito “1812 Ouverture” di Tchaikovsky e lui mi disse: “Il mio cuore è felice e ho la pelle d’oca”. Immaginate una cosa del genere detta da un bambino di 7 anni?”. Sempre quell’anno ci fu un episodio importante, di cui oggi sta pagando le conseguenze…Rafa Nadal. In totale autonomia, Novak decise di passare al rovescio a due mani, oggi arma vincente contro il dritto in cross del maiorchino. Ma erano anni difficili, la Serbia era messa in ginocchio dalla guerra. Nel 1999, la NATO decise di bombardare Belgrado. Furono 78 giorni d’inferno, in cui il desiderio di allenarsi si scontrava con la necessità di sopravvivere. “Ascoltavamo la radio al mattino per sapere dove erano previsti i bombardamenti – racconta la Gencic – e andavamo a giocare da un’altra parte. Se però sentivamo arrivare gli aerei ci nascondevamo dentro il club”. Uno dei giorni più felici dell’infanzia di Djokovic è il 10 giugno 1999, quando venne annunciata la sospensione dei bombardamenti. Insieme ai fratelli Marko e Djordje zomparono sul terrazzo urlando all’impazzata: “E’ finita, siamo al sicuro!”.

“Non voglio buttare via la mia carriera”
Jelena Gencic capì ben presto che il ragazzo aveva bisogno di strutture e supporti adeguati. Alzò la cornetta e chiamò il suo amico Niki Pilic. Gli propose di ospitare Djokovic nella sua Accademia a Monaco di Baviera. Pilic era perplesso: un bambino di 12 anni come avrebbe potuto sopportare un certo regime di lavoro? La leggenda narra che Novak arrivò a Monaco in pieno inverno, accompagnato dallo zio Goran (oggi direttore del torneo ATP di Belgrado). Aveva le tasche talmente vuote che la moglie di Pilic gli dovette regalare una giacca. Dopo cinque giorni, zio Goran se ne andò e Novak ebbe una delle sue pochissime crisi. Pianse. Ma era riuscito a colpire Pilic, il quale richiamò la Gencic. “Perché non me l’hai mandato prima?”. “Perché quando sarà diventato forte non voglio che tu ti prenda tutti i meriti” rispose sorniona l’allenatrice che ancora oggi va in giro con un borsone siglato “Jugoslavia”. Ma c’era il problema dei soldi. Allenarsi da Pilic costava 3.000 dollari al mese, ed anche quando arrivò lo sconto c’erano le spese per i viaggi ai tornei. Troppo per una famiglia che andava avanti con un ristorante dagli incassi altalenanti. Papà Srdjan, convinto delle qualità del figlio, si rivolse agli strozzini. Gli interessi toccavano anche il 10-15% mensile. Ma il figlio non lo ha mai deluso. Djokovic è stato il più forte europeo tra gli Under 14 e gli Under 16. Ciò che colpiva era la totale dedizione al lavoro. Una volta doveva allenarsi con Pilic. Mancavano 20 minuti, Niki stava pranzando e lo vide riscaldarsi. “Non è un po’ presto, ragazzo?” “Non voglio buttare via la mia carriera”. A proposito di talenti buttati, da quelle parti stazionava Ernests Gulbis. “Era già un professionista a 16 anni. Si preoccupava solo di lavorare. Per me, invece, era tutto uno scherzo”. La Federazione non aveva fondi da investire, così il padre andava in giro per il paese ad elemosinare sponsor. Bussava alla porta dei conoscenti proponendo di investire su Novak, come se stesse vendendo frutta o pane. Con pochi soldi in tasca è dura, e vengono anche strane idee. Tipo prendere in considerazione l’offerta della LTA (la federazione britannica) di naturalizzare il figlio e farlo giocare per la Regina. Qualche tempo prima, tra l’altro, si era parlato addirittura di una possibile cittadinanza italiana quando era seguito da Riccardo Piatti.

Orgoglio serbo
Ma il legame con la Serbia è troppo forte. “La decisione finale è stata mia – dice Novak – non ho mai pensato di cambiare paese. La Serbia fa parte di me. Siamo un popolo molto orgoglioso, e l’aver vissuto momenti difficili ci rende ancora più fieri di quello che siamo”. L’attaccamento alle proprie origini è forte ed antico. A differenza di tanti altri giocatori, non ha mai rifiutato una convocazione in Coppa Davis. Andrà anche in Svezia, dove Troicki e Tipsarevic sarebbero più che sufficienti per battere gli svedesi privi di Soderling. L’anno scorso, il team di Coppa Davis è stato accolto da una platea di 100.000 persone che hanno festeggiato nella piazza principale di Belgrado, il tutto in diretta TV. Ed è successo qualcosa del genere anche dopo Wimbledon. L’orgoglio patriottico nasce dalle origini del padre, proveniente dal Kosovo. In verità, solo il 7% della popolazione kosovara ha origini serbe, ma è il luogo dove sono nate la cultura e la religione ortodossa serba. Le violenze dei kosovari-albanesi e la proclamazione di indipendenza del Kosovo, sottoscritta da 76 nazioni, hanno alimentato sentimenti di rabbia nel popolo serbo. Djokovic è ancora più coinvolto nella questione dal 2008, quando nella piazza di Belgrado venne trasmesso un suo filmato in cui disse che il Kosovo è serbo e che “Siamo pronti a difenderlo”. Quella sera, a Belgrado, ci furono scontri di ogni tipo e dozzine di feriti. L’ambasciata americana venne saccheggiata e incendiata, quelle croata e bosniaca “semplicemente” vandalizzate. Il suo coinvolgimento è concreto: tempo fa ha donato 100.000 dollari per sostenere gli antichi monasteri ortodossi. Per questo è stato insignito dell’Ordine di Saint Sava, la più alta onoreficenza della Chiesa Ortodossa Serba. “Il premio più importante che io abbia mai ricevuto”. Per spiegare il punto di vista serbo, una volta ha detto: “Immaginate gli Stati Uniti privati di uno stato che è stato la culla della loro storia: Ecco, questo è il Kosovo per la Serbia. Purtroppo ci sono poteri che non si possono combattere, ma io so da dove vengo e so cosa sta succedendo in quella regione da cui proviene la mia famiglia”. La figura di Djokovic è importante anche a livello d’immagine per un paese giovane, desideroso di togliersi di dosso tanti luoghi comuni. La pensa così Vlade Divac, ex stella NBA (giocava nei Lakers di Magic Johnson) e oggi a capo del Comitato Olimpico: “Per tanto tempo, soprattutto quando c’erano le guerre, la gente ci vedeva come persone cattive. Era difficile far sentire un bambino orgoglioso di essere serbo. Adesso Novak ha dato al nostro popolo quello di cui aveva bisogno: essere fiero di sé”. Gli fa eco Vladimir Petrovic, ambasciatore serbo negli Stati Uniti: “Djokovic è l’immagine più positiva che la Serbia potesse avere. E’ il volto nuovo della Serbia democratica”. Non è un caso che Boris Tadic, attuale presidente della Repubblica, sia volato a Londra per assistere alla finale di Wimbledon. Associare la sua immagine a quella di Djokovic è gesto intelligente, da consumato politico.

Dieta e ambizione
Una della fortune di Nole è l’ambizione. Nel 2006, papà Srdjan voleva fargli i complimenti per aver chiuso la stagione tra i primi 20 del mondo grazie alle vittorie ad Amersfoort e Metz. “Lascia perdere – gli rispose – me li farai quando sarò diventato numero 1”. La scalata è stata inarrestabile fino al 2007, quando si è…incagliato al numero 3 ATP. Sopra di lui c’erano Roger Federer e Rafael Nadal, che tante volte lo hanno stoppato in semifinale. Ci voleva qualcosa per mettere la freccia e tentare il sorpasso. Nel 2009 ha provato ad affiancare Todd Martin allo storico coach Marjan Vajda (conosciuto al Roland Garros 2006 e da allora mai lasciato). Spesso, tuttavia, il problema era di natura fisica. Allergie, problemi respiratori…di tutto un po’. “Djokovic le ha tutte: SARS, aviaria, antrace, tosse e raffreddore” lo prese in giro Andy Roddick in una conferenza stampa prima di essere battuto allo Us Open. In realtà i guai c’erano, tanto che aveva provato a risolvere il problema facendo esercizi di respirazione con un cantante d’opera. Niente da fare fino a quando, nel luglio 2010, è entrato nel team il nutrizionista Igor Cetojevic, un tipo eccentrico capace di trovare la soluzione. Appassionato motociclista, ha studiato medicina cinese a Belgrado e si è laureato presso l’Istituto Indiano di Magnetoterapia a New Dehli. Si è accorto di un’intolleranza al glutine (il che, attenzione, non vuol dire celiachia). “Ci siamo accorti che il problema veniva da un’allergia al glutine – dice Djokovic – Non ne avevo idea. E pensare che sono cresciuto consumando ingenti quantità di pane e pasta”. La nuova dieta ci ha consegnato un tennista quasi imbattibile, sconfitto solo da Roger Federer nella semifinale del Roland Garros. Per il resto solo vittorie, con un bilancio stagionale che gli ha permesso di effettuare il sorpasso con 48 vittorie e una sconfitta. Due Slam, quattro Masters 1000, un ATP 500 (in finale su Federer) e il torneo di casa a Belgrado sono un ruolino di marcia che fa impallidire il 1984 di John McEnroe, quando l’americano chiuse con un bilancio di 82 vittorie e 3 sconfitte. Se va avanti così, Nole può provare ad imitarlo. Intanto è già numero 1 del mondo e prima di tornare in Serbia ha fatto in tempo a ricordare i prossimi obiettivi. “Voglio vincere altri Slam, soprattutto quelli che mi mancano, e una medaglia olimpica”. Ma era tutto scritto. Che Djokovic sarebbe arrivato lassù si era capito tanti anni fa, quando si allenava ancora con Pilic: dopo una dura seduta di allenamento sulle Alpi austriache, tutti i ragazzi si stavano preparando per una festa. Tutto preoccupato, andò da Dick Hordoff (coach internazionale, capace di portare Rainer Schuettler a una finale Slam) e gli chiese: “Se esco stasera, è un male per il mio tennis?” “Esci senza problemi, un bicchiere di vino…”. Lo interruppe. “Non ti ho chiesto se uscire sarebbe un bene per me. Ti ho chiesto se sarebbe buono per il mio tennis”.

Riccardo Bisti

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