ITALIANO ENGLISH
HOMEPAGE > > Agassi, l’immagine era tutto

13/07/2011 23:05 CEST - Storie di tennis

Agassi, l’immagine era tutto

TENNIS – Lo slogan dello spot Canon che ha girato a 18 anni ha accompagnato e segnato la vita e la carriera di Andre Agassi, entrato sabato nella Hall of Fame. Un tempo era un marchio negativo, ora è un segno positivo. La sua immagine racconta più delle parole, racconta dei successi in campo e del suo orgoglio per la scuola che ha aperto a Las Vegas con Steffi Graf. Alessandro Mastroluca

| | condividi

Nessuno può essere paragonato ad Andre Agassi, almeno non senza il suo permesso”. Così scriveva Robin Finn sul New York Times prima della finale del Roland Garros 1990 contro Gomez. È l’ultima recita dell’Agassi biondo quasi come Gesù (toupé or not toupé, questo è il problema), è la mascherata definitiva di un ribelle all’apparenza senza causa se non quella di venire a patti con le sue stesse contraddizioni.

Agassi ha definito la sua carriera per reazione. Diventa tennista per volere del padre, ex pugile iraniano che ha partecipato alle Olimpiadi del 1948 e del 1952. Mike lega una pallina da tennis a una corda e la fa penzolare sulla sua culla dal primo giorno in cui apre gli occhi, quando è abbastanza grande da stare nel seggiolone gli lega con un nastro mezza racchetta da ping pong alla mano e gli lancia dei palloncini. E quando può camminare e correre lo porta nel campo di cemento che ha fatto costruire nel retro della casa di Las Vegas in cui ha montato “il drago”. È una macchina lanciapalle modificata, perché Mike Agassi, come Andre scrive in Open, crede nella matematica: “dice che se colpisco 2500 palle al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile”.

Mike lo avvia al circuito junior a 7 anni, a 13 scappa da suo padre ma non dalla strada che ha scelto per lui, anzi facendo la miglior scelta possibile per arrivare al traguardo che ha disegnato per lui: si iscrive alla Bollettieri Academy. Dove l’allenamento, pur senza il drago, ha modalità simili e fini omologhi: la ripetizione è forza, l’ossessiva esecuzione dello stesso gesto porta all’interiorizzazione e l’esecuzione irriflessa è la base del successo.

Qui fa di tutto per ribellarsi e insieme mascherarsi, dai pantaloncini di jeans ai capelli punk allo smalto rosa. In campo come a carnevale, perché in tutto quello che fa Agassi sembra motivato da un senso inestirpabile di insicurezza. Ma è insieme un fenomeno di marketing, una sorta di “pagliaccio” che a ventun anni ha già giocato, e perso, tre finali dello Slam, il simbolo del tennis rock-and-roll che per anni diserta Wimbledon per non piegarsi alla regola del bianco.

Molti lo vedono come un campione passeggero, un talento naturale e insieme mercuriale, che mentre a parole cerca di staccarsene, fa di tutto perché lo slogan dello spot Canon che ha girato a 18 anni sia il suo ritratto migliore: l’immagine è tutto.

È tutto per chi si trova su un treno che va a Paradiso città perché qualcun altro l’ha fatto salire, che ha milioni di fan adoranti che si acconciano i capelli e si vestono come lui e che vogliono vedere sul suo volto i segni del successo, non le stimmate del dubbio. È tutto per chi per anni ha continuato a farsi scegliere, è rimasto dove un attimo vale un altro, dove una palla vale un altra, e anche se si è chiesto “come mai?” non ha trovato una risposta del tutto convincente.

Nemmeno quando è diventato il primo (e tuttora unico, nell’era Open) capace di vincere gli Us Open non essendo testa di serie.

L’immagine è tutto per chi, in campo, fa di tutto per essere diverso da come è fuori, da chi professa una fede cristiano evangelico e legge libri di psicologi popolari “da supermercato” e cerca costantemente appoggio nello sguardo degli altri.

Inizia a scegliere davvero quando chiama Brad Gilbert come suo allenatore e convince Gil Reyes a lasciare il suo ben remunerato contratto con l’Università di Las Vegas come preparatore della squadra di basket dei Runnin’ Rebels che hanno vinto il titolo NCAA nel 1990. Lascia un gruppo di Corridori Ribelli per prendersi carico di un corridore ribelle solo.

Agassi trova il padre che non ha mai avuto e insieme un preparatore inflessibile e metodico, che gli costruisce tutte le macchine per allenarsi, perché il suo scopo è di massimizzare la resa dell’esercizio muscolare senza sforzi inutili o dannosi. E allora le macchine devono essere personalizzate. Il garage di Reyes diventa l’Agassi Training Center, ed è lì che adesso si trovano tutti i trofei di Agassi, perché in fondo è lì che sono lati, è a quel luogo che appartengono.

In Gilbert trova un allenatore che gli fa capire un concetto semplice: quanto infinitamente doloroso sarebbe guardare la propria carriera, una volta conclusa, con rimpianto.

E nel 1992 la sua carriera, e il tennis, cambiano per sempre. Perché tutti gli anni passati insieme al drago e ai coach di Bradenton, insieme alla sua personalità incline al dubbio, hanno prodotto un tennis unico e perfetto, che si definisce per reazione. Agassi, etero-indotto su una strada su cui è rimasto grazie a un talento in parte preesistente, come ogni ribelle deve vedere una o due mosse più in là, deve giocare d’anticipo. E quando risponde o colpisce con le braccia quasi attaccate al corpo una palla ancora in fase ascendente e davanti al busto ha spiegato tutto di se stesso: la pallina sulla culla, la racchetta attaccata al braccio, i gesti ossessivamente ripetuti, la sua personalità. È tutto lì: è un gesto compresso, è il terzo principio della dinamica applicato al tennis. Ad ogni azione corrisponde una reazione, ma nel suo caso la reazione non è uguale e contraria, perché la palla torna indietro più rapida.

Così demolisce Becker nei quarti a Wimbledon, in quel 1992 che cambia tutto, e in finale a Ivanisevic non basteranno 37 ace per batterlo.

Credo di essere stato uno dei primi a colpire piatto e forte sia di dritto che di rovescio. E questo tipo di gioco ha spinto il tennis a migliorarsi” ha detto Andre alla cerimonia per l’ingresso nella Hall of Fame, dove si aggiunge a Steffi Graf.

Ho sempre rivelato i miei fallimenti più dei miei successi” ha aggiunto alla ESPN. “Ecco cosa mi ha insegnato questo sport. Nel tennis non serve essere perfetto, devi solo trovare il modo di essere migliore di una persona sola. Come risultato, non smetti mai di spingere te stesso”.

Un cambio di prospettiva che l’ha aiutato quando, nel 1997, dopo il divorzio con Brooke Shields, l’infortunio al polso e lo scandalo doping, la sua classifica precipita al numero 141 del mondo. Riparte dai Challenger, a Las Vegas e Burbank, e in un anno è numero 6. “Il fondo è un posto interessante” ha detto, “ci ho passato un po’ di tempo. Salire da numero 141 e tornare numero 1 non è stato un traguardo, ma la riflessione di un traguardo: il sintomo di scelte giuste”.

Non è un caso” ha scritto, “se il tennis e la vita usano le stesse parole: servizio, vantaggio, rotture (break), colpe (break), amore (love, che è anche “zero” nel punteggio). Le lezioni del tennis solo le lezioni della maturità”.

Una maturità che lo porta a vincere altri cinque Slam, a diventare il più “anziano” numero 1 della storia del tennis, a 33 anni (nella sua ultima parentesi al vertice del ranking, ad agosto 2003), un campione capace di essere in top-10 in tre decenni, uno dei tre insieme a Laver e Federer ad aver giocato quattro finali Slam di fila, l’unico ad aver vinto il career Grand Slam, l’oro olimpico e la Davis.

Il tennis è uno sport meraviglioso” ha detto in un’intervista al Times del 2004, “ma se non ci metti tutto te stesso non riuscirai mai a scoprire le maggiori bellezze. Per me è sempre stato come una tela su cui sperimentare tante cose. Se mi guardo indietro, la mia più grande forza è anche la mia maggiore debolezza. Perché ho una tremenda capacità di analizzare, di memorizzare ogni dettaglio. E quando le cose vanno bene, il campo da tennis è un posto meraviglioso in cui stare. Ma mi ha anche portato a inseguire la perfezione, ad essere me nel ruolo di me stesso”.

Oggi la sua ispirazione non è più il tennis perfetto, ma la sua scuola che ha fondato a Las Vegas e gestisce con Steffi Graf. Agli insegnanti e ai ragazzi ha dedicato la chiusura del suo discorso alla cerimonia di Newport. “Loro hanno già imparato quello che ho impiegato decenni ad apprendere: a brillare in segreto, a dare quando non c’è nessuno ad applaudire. Non è troppo tardi per essere ispirati. Non è troppo tardi per cambiare”.

Alessandro Mastroluca

comments powered by Disqus
Partnership

 

Sito segnalato da Freeonline.it - La guida alle risorse gratuite

Virtual Tour / Fanta Tennis virtual tour logo 2

Il fanta gioco di Ubitennis

Ultimi commenti
Blog: Servizi vincenti
Quote del giorno

"Avevo deciso di smettere con i miei balletti, ma quando l'ho fatto ho perso due partite di fila giocando il tennis più orribile della mia vita. Così ho ricominciato a danzare"

Andrea Petkovic

La vittoria di Francesca Schiavone a Parigi 2010

Copertine di magazine e giornali

Ubi TV

Ritratto di Federer in 4 minuti