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07/02/2012 21:18 CEST - ATP

Non è bello ciò
che è bello...

TENNIS - La storica finale degli Australian Open tra Djokovic e Nadal ha trovato unanime consenso sui media stranieri, ma ha spaccato in due la stampa italiana. Perché? Si fa fatica a capire. Esaltare come grande tennis solo quello fatto di volee, tweener e giochi di fioretto è ragionamento insensato. Luca Labadini

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Seven network, broadcaster degli Australian Open, riporta che la vittoria di Djokovic su Nadal è stato l’evento di punta del 2012, con una media di 1.860.000 telespettatori che hanno seguito l’incontro fino alle 1.30 del mattino, registrando un picco nazionale di quasi 4 milioni. Gli appassionati ancora incollati al televisore alle 1.45 a seguire la premiazione erano ben 1.675.000. È passata più di una settimana dalla finale degli Australian Open, ma l’eco mediatica di questa partita, in buona parte del pianeta, si è tutt’altro che spenta. Il nostro valoroso Alberto Giorni, tramite la sua rassegna internazionale, aveva provato a fornirci lampanti indicazioni sul gradimento espresso dai principali media stranieri sul match in questione. Ne ho selezionato qualcuno, e ho poi esteso ulteriormente la mia ricerca, aggiungendone altri:

“Djokovic verrà incoronato come il degno campione, ma Nadal ha rafforzato la sua reputazione di grandissimo lottatore, recando il migliore omaggio alla Rod Laver Arena. Ha saputo risalire dalla buca del quarto set ed assicurare a questo match un posto nella storia. Una partita talmente straordinaria che sarà sempre inclusa nel discorso sulle più grandi finali dello Slam. L’ultimo atto più consono per un’eccellente edizione degli Australian Open” Courtney Walsh, The Australian

“Un ideale e sublime festeggiamento per la 100esima edizione del torneo maschile” Neil Harman, The Times

“Indubbiamente uno dei migliori match mai giocati. Djokovic talmente esausto da faticare a proseguire, Nadal ugualmente stremato ma capace di trovare energie per non mollare. Il primo match della loro rivalità che si risolve al quinto set è anche quello che passerà alla storia.” Linda Pearce, The Age

“I numeri non sono sufficienti a descrivere l’emozione di questo duello, che merita un posto fra i più affascinanti match della storia di questo sport. Gli scambi negli ultimi due set sono stati puro spettacolo, con entrambi i protagonisti determinati a cercare la soluzione vincente“ Christopher Clarey, New York Times

“Mai visto niente di meglio. Dovrebbero conservare questo match in una capsula del tempo per mostrare dove può arrivare l’uomo” Jim Courier, commentatore per la tv australiana e capitano della squadra Usa di Coppa Davis

“Non è stato solo il contesto a renderla così speciale, è stata la qualità, sia difensiva che offensiva. L’intensità e la difficoltà del match si potevano intuire sui volti dei due protagonisti, ma solo quando la palla era in gioco le si potevano davvero percepire” Christopher Clarey, New York Times

“È stata una finale speciale per gli sforzi profusi da entrambi, e perché ognuno ha mostrato i propri limiti e li ha superati. Nella sua bellezza, nei suoi difetti e nella sportività espressa a fine match, si è tramutato in un’emozione umana che ci ha ricordato il motivo per cui amiamo lo sport. Questi Australian Open non avrebbero dovuto chiudersi in altra maniera se non questa” Steve Tignor, Tennis.com

“Pensavamo ingenuamente che le due semifinali sarebbero bastate. Erano solo antipasti. Niente avrebbe potuto prepararci per questa finale. Hanno dato vita a una splendida battaglia durata 5 ore e 53 minuti. Se la finale degli Us Open poteva essere paragonata a un’incontro di boxe, come cataloghiamo questa? Di sicuro passa al comando nella nostra classifica delle cinque più memorabili finali dello Slam nell’era Open” Ravi Ubha, ESPN

“I cliché sono storici nemici dei giornalisti sportivi, ma quando mancano le parole, sono le uniche cose a cui puoi aggrapparti. E’ stata una partita che nessuno meritava di perdere. E’ stato il match del secolo, ed hai la sensazione che lo diresti anche se si fosse giocata nel 2099, e non nel 2012” Anthony Sharwood, Fox Sports

“Un giorno il tennis tornerà ad essere noioso. Ci sarà un periodo grigio, in cui magari le finali dello Slam si risolveranno in tre, insignificanti set. Si tornerà ad incagliarsi nella monotonia e nei personaggi senza carisma di qualche anno fa. Quel momento non è certamente oggi. Il tennis maschile, attualmente è forse lo sport più godibile del panorama mondiale. Non esiste altro sport con tanta eccellenza al suo vertice, in grado di produrre non solo divertimento, ma grandezza. È imperdibile” Jason Gay, Wall Street Journal

Un’apoteosi, un’uniformità di giudizio persino quasi fastidiosa, un entusiasmo unanime e tranciante. Il fatto che io, assistendo davanti alla Tv alle decisive, incerte fasi di questo match, mi sia emozionato quasi come il più accalorato fan di Harry Potter che sfoglia per la prima volta le ultime pagine della saga, non solo è irrilevante e assolutamente scevro di interesse, ma è del tutto in linea col proclama volto a dirimere l’eterno dilemma della bellezza soggettiva–oggettiva proposto dal mitico frate Antonino di Scasazza, brillantemente impersonato da Nino Frassica, da cui ho preso simpatica ispirazione per il titolo di questo pezzo.

Quello che invece, a mio avviso, sarebbe molto più stimolante approfondire, è la ragione per la quale il gradimento di questo evento, che sembra aver messo d’accordo la quasi totalità della stampa estera, ha letteralmente diviso in due quella italiana. Nel corso dell’ultima settimana, diversi miei colleghi di Ubitennis non solo hanno espresso tutte le loro perplessità sull’effettiva qualità di questa partita, ma si sono spinti oltre, invitando il mondo del tennis a chiedersi se la direzione che sta prendendo sia effettivamente quella giusta. Non sono stati fenomeni isolati. È stato piuttosto semplice imbattersi in svariate testate, in firme più o meno illustri da cui sono scaturiti giudizi sostanzialmente dello stesso tenore. “La cosa più bella della finale degli Australian Open sono stati gli spot della Rolex, con Federer”, è una battuta che avrei potuto leggere ovunque, ma l’ho trovata in Italia. Una simpatica provocazione, certo, ma che ha trovato diversi consensi. Mentre avevo trovato una confortante sintonia fra ciò che avevo provato io e quello che Nadal e Djokovic avevano suscitato, tramite la loro splendida battaglia, oltre confine, ho dovuto sorprendentemente constatare che invece, nell’amato Stivale, la mia posizione appartiene quasi a una minoranza.

In fondo, ci sarebbe davvero poco da stupirsi. Il nostro è il paese delle spaccature. Milan o Inter, berlusconiani o anti berlusconiani, bionde o more, cono o coppetta, Tim o Vodafone, mare o montagna, Amici o X Factor, etc etc. Le diversità ci piacciono, ci stimolano, ci intrigano. Di più, ci identificano. Abbiamo il record di parlamentari, di sigle sindacali, di radio locali e di suonerie dei cellulari, perché distinguerci ci piace un sacco. L’uniformità di giudizio non fa proprio per noi, la allontaniamo con sospetto e, quando possiamo, la scacciamo.

Eppure, il proliferarsi di recensioni negative sulla finale di domenica provenienti da buona parte dei nostri giornalisti ed appassionati continua ad incuriosirmi. L’italiano è universalmente riconosciuto essere di un certo fascino, capace di vestire con grande eleganza e in grado di apprezzare come nessun altro la buona cucina, ma che sia improvvisamente assurto al ruolo di “censore dal palato fino del tennis” è francamente una novità. Ho smesso di pensare che godessimo di una buona reputazione a livello sportivo il giorno in cui, durante una finale di Coppa Intercontinentale a Tokyo, uno sparuto ma vivacissimo gruppo di tifosi giapponesi espose lo striscione “viva il catenaccio”, irrimediabilmente inquadrato in mondo-visione. A livello sportivo ci considerano furbi, scaltri, intuitivi. Esteti, proprio no. La credibilità internazionale di cui gode un italiano che storce il naso di fronte alla qualità di una partita di tennis, soprattutto di vertice, è ahimè pressoché pari a quella che assegneremmo noi a un cowboy texano che esprime il disappunto di fronte a un Milan-Juventus, o a un tedesco che ci suggerisce di fare colazione con prosciutto e formaggio, in luogo di cappuccio e brioche.

“Bisogna velocizzare la superficie degli Australian Open, una finale non può durare così tanto”. Strano. Dodici mesi orsono, dopo che la finale fra Djokovic e Murray si chiuse in un baleno, nessuno invocò di correre ai ripari. Complicato, inoltre, comprendere che cos’abbia questa superficie di così sbagliato, visto che ha prodotto due serratissime semifinali fra i migliori quattro giocatori del mondo e una storica finale fra i primi due, mandando in scena il meglio del meglio. “L’erba deve tornare quella di una volta, non è possibile che uno vinca Wimbledon giocando come un terraiolo”. Curioso. La finale fra Federer e Roddick del vicino 2009 e giocata sull’identica “terba” (come simpaticamente l’hanno rinominata) venne acclamata e giustamente celebrata come un grande spettacolo. Peraltro, un chiaro esponente del tennis “classico” come Thomas Berdych ha colto proprio sui discussi prati londinesi quella che sino ad oggi è la sua unica finale a livello Slam. Per coerenza, mi aspetterei di trovare le stesse critiche sull’attuale terra rossa del Roland Garros, oggi certamente più rapida di qualche anno fa, cambiamento di cui Federer, nella stessa misura in cui ha tratto vantaggio Nadal sui prati inglesi, ha potuto beneficiare per portare a terminare il suo personale Grande Slam. In fondo, vedere John Isner, lo scorso anno, andare vicino a battere il maiorchino sul mattone tritato di Parigi avrebbe potuto favorire la formulazione di simili perplessità. Invece stento a trovarne. La priorità di questa crociata pare quindi volta, più che a cambiare, a “velocizzare” il tutto: lo scambio e, possibilmente, l’esito della partita.

Mentre la Federazione Internazionale, forte di record di affluenza e popolarità dei major che si migliora puntualmente anno dopo anno, è sempre più soddisfatta degli accorgimenti adottati sulle superfici, l’impavido censore italiano naviga eroicamente controcorrente, invocando più o meno drastici cambiamenti a una disciplina che, raramente così in salute, sta virando con convinzione e profitto in tutt’altra direzione. A conforto e supporto della loro tesi portano pareri assolutamente autorevoli, anche se forse converrete con me che chiedere a Martina Navratilova e a Pat Cash se sarebbe auspicabile favorire il ritorno del serve and volley, equivarrebbe a chiedere a Rocco Siffredi se sarebbe favorevole alla riapertura delle case chiuse. Una cosa è certa. O questo tennis fisico, uguale a se stesso e senza poesia annoia solo noi, o noi siamo in grado di vedere cose che buona parte del resto del mondo fatica maledettamente a scorgere. Perché la totale e convinta standing ovation dell’ormai stremato pubblico di Melbourne dopo l’inizio del quinto set, al termine dello scambio in cui Djokovic stramazza al suolo come un Ivan Drago qualsiasi, sembrerebbe indicare il contrario. Insomma, non solo i fischi piovuti dalla tribune di Parigi Bercy in segno di totale disapprovazione agli infiniti, inevitabili aces di Goran Ivanisevic - che avevano appunto indotto il governo del tennis ad adottare indolori contromisure - appaiono sempre più un lontano ricordo, ma l’affetto e il consenso dei fan pare sempre più convinto.

La vicenda quindi si fa sempre più interessante. Un po’ come analizzare la (presunta) colpa maggiore di questa discussa rivalità serbo-spagnola: “Manca totalmente il confronto fra stili”. Oltre a nutrire serissimi dubbi che un match fra Feliciano Lopez e Michael Llodra genererebbe la medesima critica, coloro che si ostinano a sostenere che lo spagnolo e il serbo giochino allo stesso modo mi ricordano moltissimo quelli che, quando fai loro notare che Andy Murray non è inglese ma scozzese, ti rispondono che “Sì, vabbè, ma è lo stesso”. Avresti voglia di invitarli a guardare “Braveheart“ tutto di un fiato, ma capisci che lo dicono solo perché non hanno troppa voglia di approfondire, e allora passi oltre. Premesso questo, sforzandomi di assecondarli e a fingere di non riscontrare sostanziali diversità nel loro tennis, confesso comunque di non aver mai capito in fondo la magia e l’ineluttabilità del “confronto fra stili” e del suo essere irrinunciabile ingrediente della ricetta “ tennis di qualità”. Pensavo che avere la fortuna di assistere all’ultimo atto di uno dei tornei più importanti del mondo fra i due migliori interpreti del nostro sport, sarebbe stato sufficiente per poterne godere appieno, e a non potere chiedere nulla di meglio e di diverso. Non avere ancora chiare indicazioni, su chi, dopo oltre cinque, intensissime ore di battaglia, avrebbe infine prevalso sull’altro, un ulteriore privilegio. Forse hanno ragione loro, e sono io a sbagliare. Come ne “L’Attimo fuggente”, voglio provare ad emulare gli allievi del professor Keating, esortati dallo stesso a salire in piedi sui tavoli e a “vedere il mondo da una prospettiva diversa”. Il mio programma della serata era il seguente: un piatto di spaghetti al pomodoro accompagnati da un buon vino rosso, un caffè e un cd di Elton John come sottofondo musicale. Avrei poi fatto seguire un film con Al Pacino e Robert De Niro. Scelte banali, ma con pochi rischi. Sarei, insomma, andato a botta sicura. Lo cambierò. Intingerò il caffè nel vino rosso, condirò gli spaghetti con la nutella, il sottofondo musicale sarà garantito da un duetto di Elton John e Caparezza, a cui farò seguire un paio di film: uno con Al Pacino e Lino Banfi, l’altro con Bob De Niro e Rocco Papaleo. Per aumentare la spettacolarità, acuire il senso di precarietà e allontanare ogni rischio di banalità, eseguirò il tutto a testa in giù. Ho il grosso timore che verrà fuori un’immane schifezza, ma vuoi mettere ”il contrasto di stili”…

L’eccezionalità di questa partita risiede anche nella differenza di adrenalina percepita in occasione del match point con quella provata in qualsiasi altro scambio dell’incontro: minima, quasi impercettibile. Nole e Rafa hanno giocato ogni punto come fosse l’ultimo, ogni game come fosse quello determinante, ogni set con la consapevolezza che lasciare scappare nel punteggio il proprio avversario avrebbe comportato imboccare una strada senza ritorno. Gli strabilianti numeri relativi ai dati di ascolto forniti dalla televisione australiana si devono, in larga misura, proprio a questo aspetto. Il fedele telespettatore, conscio che il “turning point” del match avrebbe potuto essere uno qualunque, non solo si è appassionato calorosamente alla vicenda ma, di fatto, non l’ha mai abbandonata, per il timore che un’imperdonabile pausa avrebbe impedito di vivere l’attimo decisivo. Rimane quindi da capire il misterioso motivo per il quale, in Italia, la popolarità di questa finale sia così fortemente in dubbio e tormentata. Forse perché i due, incuranti della sacralità della nostra domenica, ci hanno costretto ad alzarci prima delle 9.30, costringendosi a una doccia veloce e una colazione volante. Anche le lasagne della mamma si sono raffreddate, e loro due non solo non hanno optato per un time-out che ci avrebbe consentito di pranzare con più calma, ma non sembravano neppure avere appetito. Saranno pure stati intenti a scrivere pagine indelebili di storia del tennis ma, diamine, alle 15 non avevano ancora sbrigliato la matassa. Stavano per iniziare le partite di campionato, e in ogni caso la diretta di Fiorentina-Siena ce la siamo persa per sempre. E poi, diciamocela tutta, invece che pensare a soddisfare il nostro gusto estetico regalandoci smorzate, veroniche, tweener a profusione, i due vili, insensibili finalisti hanno badato all’essenziale, limitandosi a cercare di bruciare il proprio avversario sfoderando le loro armi migliori.

Chissà se in futuro i miei dubbi troveranno risposta, se sarà intervenuta l’abolizione del rovescio a due mani, o se sarà una finale sulla terra rossa tra due esponenti del serve&volley ad aprirmi gli occhi, e a riaprire questo “cold case”, volto a smascherare l’identità del killer del tennis di qualità. Forse sarà un’altra massima del frate Scasazza: “Le arti sono due... l'arte si divide in l'arte intera e l'arte parzialmente scremata”, a venirmi in aiuto e a convincermi che in fondo, non c’è niente da capire. L’unica cosa davvero importante è che Rafa & Nole, scolpiti per sempre nella storia del tennis, ma colpevolmente incapaci di fare breccia nei cuori degli irreprensibili censori tricolori, trovino il modo, un giorno, di farsene una ragione.

Luca Labadini

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