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22/02/2012 12:27 CEST - Regole

E se comandasse Harry Hopman?

La rivista americana Tennis tenta di immaginare come sarebbe diverso il tennis se a governarlo fosse l'intransigente Harry Hopman, leggendario australiano ex-capitano del team aussie di Davis. Tra illusione e realtà, quali sono i cambiamenti che porterebbero beneficio al gioco? Vanni Gibertini

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A tutti è capitato, prima o poi, seduti al tavolino di un bar in uno stanco pomeriggio estivo, o durante una discussione post-pasto in occasione dei tradizionali pranzi di famiglia, di sentire un anziano pontificare bonariamente su come “si stesse meglio quando si stava peggio”, di come “una volta” tutto era meglio mentre oggi il mondo sta andando a catafascio. L’atteggiamento più comune è quello di sopportare lo sproloquio con l’atteggiamento di inevitabilità con cui si affronta la scadenza dell’IRPEF, magari approfittando della pausa nella discussione “vera” per versarsi l’ennesimo digestivo.

La rivista americana Tennis di gennaio ci propone
un “predicozzo” di questo tipo, raccontato in terza persona da Joseph Epstein, il quale tenta di immaginare un presente alternativo nel quale fosse al comando del tennis mondiale una leggenda come Harry Hopman, indimenticato ex-capitano della squadra australiana di Coppa Davis, noto per le sue idee molto conservatrici e per il pugno di ferro con il quale guidava i suoi giocatori. Ve lo proponiamo qui sotto in traduzione integrale per trarne alcuni spunti di riflessione.

 

Cosa penserebbe Harry Hopman, l’ex giocatore australiano scomparso nel 1985 e famoso ai più come allenatore e capitano della squadra australiana di Davis, del modo in cui viene giocato il tennis oggi? Hopman ha guidato per l’Australia 22 diversi team tra il 1939 ed il 1967, ed ha vinto 16 Coppe Davis. Famoso per la sua disciplina ferrea, ha probabilmente rappresentato per il tennis australiano quello che Vince Lombardi [il coach cui è dedicato il trofeo del Super Bowl, che giudò i Green Bay Packers a cinque titoli in sette anni n.d.t] è stato per il football americano.
I giocatori agli ordini di Hopman – tra i quali annoveriamo Rod Laver, Ken Rosewall, Lew Hoad, Neale Frasier e Roy Emerson – lo rispettavano fino a temerlo. Sul campo e fuori dal campo, quando si giocava nella squadra di Harry Hopman si era tenuti a mantenere i più elevati standard di sportività e di comportamento. Un giocatore che avesse mormorato tra i denti “Che chiamata del cavolo!” avrebbe anche rischiato di dover fare i bagagli e lasciare la squadra. Jimmy Connors, se avesse giocato per Hopman, sarebbe stato messo in prigione, John McEnroe probabilmente condannato a morte.
Se Harry Hopman fosse ancora vivo al giorno d’oggi e fosse in una posizione di potere nel tennis moderno – mettiamo che fosse eletto “commissioner” del tennis, così come esiste il commissioner per gli sport professionistici americani – che cambiamenti farebbe al modo in cui il tennis viene giocato adesso? Per prima cosa presumo avrebbe eliminato le aperte manifestazioni di trionfalismo che si sono ormai impossessate del gioco durante l’era Open. Avrebbe iniziato a proibire i “pugnetti” o i “freni a mano” (movimento avanti-indietro con il pugno chiuso ed l’avambraccio parallelo al campo, come se si stesse ripetutamente azionando il freno a mano di un’auto) da parte di chi ha appena messo a segno un vincente. Avrebbe poi certamente eliminato gli atteggiamenti “alla Rafa” di chi si inginocchia sul campo o si rotola a terra dopo una grande vittoria. Sarebbe altresì bandito il piroettare per il campo a-la-Tsonga da parte del vincitore mentre l’avversario sconfitto è seduto con l’asciugamano sulla testa. Le urla di Djokovic sarebbero messe fuorilegge, così come i grugniti di giocatori e giocatrici, nonostante le loro solenni dichiarazioni di non riuscire a farne a meno.
Hopman avrebbe probabilmente fatto calare la sua scure anche sui nuovi indumenti tennistici. E’ difficile pensare che avrebbe approvato le magliette attillate con muscoli e spalle scoperte. I pantaloni alla pinocchietto che Rafa ha indossato fino a qualche tempo fa non sarebbero mai stati permessi. Per non parlare del completino da “cat-woman” di Serena. Niente da fare nemmeno per i calzini neri, e per quel che riguarda i cappellini da baseball indossati al contrario, non sarebbero stati permessi nemmeno negli spogliatoi.
Hopman avrebbe anche impedito che si potessero portare gli asciugamani in campo. Immagino avrebbe permesso di tenerli vicini alle sedie, da usare solamente durante i cambi di campo. Avrebbe fermamente condannato i giocatori che si asciugano dopo ogni punto, alterando il ritmo naturale dei match. Da australiano sanguigno qual era, avrebbe ricordato l’espressione “più stupido di un ragazzo che porge gli asciugamani in un bordello dell’equatore” e di conseguenza sancito che costringere i raccattapalle a porgere gli asciugamani intrisi di sudore ai giocatori è disdicevole, indecoroso, squallido e degradante.
Harry Hopman per gran parte della sua carriera era rimasto contrario al professionismo nel tennis, e se fosse ancora vivo per vedere il suo sport al giorno d’oggi proverebbe sicuramente piacere nel dire ‘ve l’avevo detto io’. Guardare i professionisti di oggi, con il loro entourage di allenatori, sparring partner ed agenti non lo avrebbe sorpreso. Aveva sempre saputo che, una volta introdotto il professionismo, il denaro avrebbe preso il comando del gioco, i tennisti si sarebbero trasformati da atleti a mini-imprese, e tutto avrebbe avuto un prezzo. Tomasi da Lampedusa in fondo si era sbagliato: più le cose cambiano, più decisamente non rimangono uguali a prima.


L’anacronistico mondo parallelo descritto da Epstein può essere considerato utopico o distopico a seconda delle preferenze, ma se si resiste a derubricare tutto il racconto ad inutile vaneggiamento dell’anziano di turno di cui sopra, magari si riesce ad evitare di “gettare il bambino con l’acqua sporca” e trarre alcuni suggerimenti per migliorare il gioco, senza per questo dover dar ragione a chi lo vorrebbe bloccato all’epoca dei gesti bianchi.

Per esempio, la durata per certi versi eccessiva della recente finale dell’Australian Open potrebbe essere catalogata come una prova a favore dell’eliminazione, o quantomeno della stretta regolamentazione, delle pause tra un punto e l’altro, favorite dall’abitudine di servirsi dell’asciugamano dopo ogni singolo quindici. Certo bisogna dare il tempo ai giocatori di rifiatare (ed alla televisione di mostrare i replay, i primi piani drammatici e le espressioni delle panchine), ma anche dal punto di vista dello show business credo che il gioco avrebbe soltanto da guadagnarci: le pause avverrebbero solo durante i cambi di campo, quando si possono vendere gli spot pubblicitari, che verrebbero ad intervalli più brevi e più prevedibili. Come per ogni novità (dal tie-break all hawk-eye), dopo un iniziale periodo di aggiustamento i giocatori si adatterebbero alla nuova situazione, e le nuove leve si abituerebbero da subito a giocare secondo i nuovi ritmi.

Un ragionamento simile si potrebbe fare per limitare i grugniti in campo, anche se come ha dichiarato la CEO della WTA Stacey Allaster: “Le giocatrici attuali giocano così da sempre, hanno imparato a tennis giocando in questo modo, per cui credo ci vorrà una nuova generazione di giocatrici per migliorare la situazione”.
Certo però che servirebbero misure per far sì che la pratica di giocare urlando sia scoraggiata a partire dalle scuole, anche per non indurre in tentazione chi vorrebbe far gridare i propri allievi con lo scopo di disturbare l’avversario (come suggerito qualche giorno fa dal giovane Ryan Harrison a proposito dell’Accademia di Bollettieri).

Per quel che riguarda il resto, non credo ci sia molto da fare: le esultanze dei giocatori ed il caleidoscopio di magliette e capi d’abbigliamento vari attirano la curiosità dei fans e fanno da volano all’indotto economico del prodotto tennis. Qualche purista magari storce il naso, sognando un mondo più simile a quello di Hopman, ma per il bene della diffusione del nostro sport, che soprattutto grazie ai primi quattro della classifica ATP è da più parti additato come la disciplina più in salute dell’intero panorama sportivo mondiale, credo si possa accettare qualche compromesso.

E voi cosa ne pensate?

 

Vanni Gibertini

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