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25/02/2012 14:53 CEST - Personaggi

Dal sentimento alla ragione

TENNIS - Andy Roddick è sul viale del tramonto. Ma come la protagonista di Sunset Boulevard non sembra avere voglia di cambiare per mettersi in gioco di nuovo. Il campione orgoglioso del suo istinto, che voleva colpire home run a ogni palla, non c'è più. Con Stefanki, Roddick è diventato più consapevole completo. Ma ha smesso di vincere. E potrebbe ritirarsi in due anni. Alessandro Mastroluca

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Andy Roddick è come te”. Si intitolava così il ritratto firmato da Jon Wertheim su Sports Illustrated nel novembre 2003. “Anche lui non trova il telecomando, prova a convincersi che le patatine cotte al forno fanno meno male. Ha comprato una casa ordinaria non in un’enclave di lusso – Soho, South Beach o Bel-Air – ma a Austin, per poter stare più vicino ai due fratelli maggiori, John e Lawrence. È il raro esempio di atleta di vertice che non vive in un universo parallelo, ma nel nostro universo”. A nove anni di distanza, nonostante il matrimonio con Brooklyn Decker (e avere per moglie una modella della Swimsuit Edition di Sports Illustrated non fa parte esattamente dell’universo di tutti) l’immagine non è cambiata poi tanto.

Sul campo, però, il campione della porta accanto è cambiato molto. Ha vinto tanto ma negli ultimi anni si è conquistato le simpatie che si attribuiscono ai “lovable losers”, agli amabili perdenti. Non è solo per le 21 sconfitte in 23 partite giocate contro Roger Federer. Anche se il declino dell’uomo dal cappello che suda è iniziato proprio con lo svizzero, è partito su quella volée rustica finita più vicina alla prima fila di spettatori che alla riga che ha deciso, molto prima del 16-14 al quinto, la finale di Wimbledon 2009. Ora il cappello che suda nasconde capelli più radi, dalle acconciature improbabili, ma non aiuta un novello Sansone che insieme alla chioma sta perdendo la forza, la voglia e qualche partita di troppo.

Questa settimana è sceso al numero 27 del mondo, in basso come era stato solo nell’estate del 2001, la sua prima stagione completa da pro. Per Brooklyn, di recente intervenuta in radio al Dan Patrick Show, Roddick si ritirerà nel giro di due anni. E ha già il futuro scritto. “Andy e il suo amico Bobby Jones hanno firmato un accordo a gennaio per uno show radiofonico settimanale”, che va in onda su Fox Sports Radio. “Quando appenderà la racchetta al chiodo, tra al massimo due anni, lo show potrebbe diventare quotidiano”.

Roddick pensa di lasciare il tennis perché negli anni ha scelto la ragione e sacrificato l’istinto, ma il tennis è un gioco da sentire più che da pensare. Uno sport che parla la lingua delle passioni: la rottura e l’amore, la colpa e il servizio. Come scrive Agassi in Open, “il linguaggio del tennis è il linguaggio della maturità”. Ma Roddick ha inseguito la maturità per un altra strada. È diventato un giocatore migliore, anche se sembra un paradosso. Ma è diventato altro da sé.

Artefice del destino del kid di Omaha è Larry Stefanki. Già dalla sua apparizione sul circuito il destino, il ruolo, la responsabilità di Roddick era segnata: camminare sulle spalle dei giganti a stelle e strisce e proseguire sulla strada dei successi di Connors e McEnroe, di Sampras e Agassi. È Tariq Benhabiles a portare il ragazzo “dall’orgogliosa indolenza” (parole sue) al numero 5 del mondo. Ma per l’ulteriore salto di qualità serve un cambiamento. Serve un coach come Brad Gilbert. Non esistono due personalità più diverse. Da una parte il campione del winning ugly, attento ai dettagli e con un’ammirazione sconfinata per Lendl, da cui ha perso sedici volte su sedici in carriera. Dall’altra un giocatore che sembra voler batterne un home run a ogni palla e che non a caso diventa per tutti A-Rod, come Alex Rodriguez, il più giovane a superare il muro dei 500 home run nella MLB. Roddick, come ammette Gilbert, “va fiero del suo sviluppo arrestato”. Insieme, vincono uno Slam, l’unico nella carriera di Andy.

Gilbert è la forza tranquilla, che gli lascia in eredità calma, fiducia, e una diversa scelta musicale per la playlist nel suo iPod, in cui però sopravvive il Rick Astley di Never gonna give you up. “Quando abbiamo cominciato a lavorare insieme” ha spiegato Stefanki nel 2010, “non era per nulla familiare con concetti come la traiettoria dei colpi, l’alternanza delle rotazioni e la teoria degli angoli. Ora sta diventando un giocatore multidimensionale, capace di usare tutte le armi di cui dispone e di scegliere quando usarle a seconda della situazione. Ci sono un sacco di giocatori di ‘ping-pong’ là fuori, ma i veri campioni sono multidimensionali, ed è ciò che Andy sta diventando”.

Con Stefanki, nel 2009, mette in fila la semifinale agli Australian Open, il miglior risultato in carriera al Roland Garros (ottavi) e la finale epica a Wimbledon. Non aveva mai avuto una simile continuità nei tornei dello Slam. Stefanki gli dà un piano di gioco, una tattica e una strategia. Lo fa pensare, gli chiede di lavorare il dritto e di provare il rovescio in back. È un’opportunità, ma è insieme un limite. Stefanki prova a fare con Roddick quello che gli era riuscito con Fernando Gonzalez: farlo diventare un giocatore a tutto campo e per tutti i campi.

Ma Roddick non è Fernando Gonzalez. Lui suona una rock bambino, di tre accordi: istinto, servizio, diritto. Una musica da ritrovare, un senso di libertà da recuperare per chiudere il “gap forte tra dove sono e dove devo essere”. Perché “se non mi sentissi frustrato non sarei normale”. Perché un paio di obiettivi a breve termine ci sono ancora: alzare di nuovo un trofeo e toccare le 600 vittorie in carriera.

Roddick non ha mai avuto paura di mettersi in gioco. Ma le ultime settimane hanno restituito l’immagine di un giocatore che ha perso la voglia di cambiare per migliorare, che insiste a ripetere gli stessi gesti sperando che il risultato cambi. Un campione dalle troppe ferite che se la prende con gli arbitri ma non vede il suo problema. E che forse smetterà di provarci prima che l’ultima goccia di sudore gli cada dal cappello.

Alessandro Mastroluca

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