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27/02/2012 14:49 CEST - Personaggi

Michael Chang Forever Young

TENNIS - Michael Chang è un predestinato. A 12 anni vince il primo titolo nazionale. A 15 gli USTA Boys Nationals, giocando con avversari di tre anni più grandi. A 16 la Federazione gli affianca Jose Higueras. Un anno dopo fa impazzire Ivan Lendl e diventa il più giovane vincitore di uno Slam. Pochi giorni fa ha festeggiato il quarantesimo compleanno. Ma resterà sempre "the youngest ever". Stefano Pentagallo

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"…avendo fiducia in questo: che Colui che ha cominciato in voi un'opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù." Filippesi 1: 6

Chiunque volesse avvicinarsi alla figura di Michael Chang, attraverso il suo sito ufficiale, verrà accolto da questo passo della Bibbia. Ecco, la mia prima impressione è che quel Colui, di cui sopra, gli abbia voluto simpaticamente bene sin dal giorno della sua nascita. Quel 22 febbraio del 1972, in lui, iniziava un'opera buona, quella del talento donatogli da Madre Natura.

È un predestinato, Chang. A dodici anni vince il suo primo titolo nazionale, l'USTA Junior Hard Court. A tredici si aggiudica il Fiesta Bowl riservato alla categoria Under 16. Due anni più tardi, a quindici, fa "en plein" portando a casa l'USTA Boys Hardcourts e il Boys Nationals, ancora una volta sotto età, fronteggiando avversari di tre anni più grandi.

È chiaro ormai a tutti che, Chang, sia un fenomeno di precocità nello sport, come nella vita. Mostra una maturità rara per un ragazzo della sua età, sintomo che i suoi genitori, Joe e Betty, l'hanno educato con sani principii. In una fase della vita in cui è un continuo sperimentare, lui si interroga su quale sia il senso della vita e si concentra sulla ricerca di sé stesso. Una mano gliela danno i nonni regalandogli una Bibbia. In essa scopre tante verità, tanta purezza. È così che vuole vivere la sua vita, Chang. Quello è ufficialmente il giorno in cui si avvicinerà alla fede, diventando un devoto cristiano, ma il Signore con lui non ha mai mancato d'esserci.

"Sento che Dio mi aveva dato questo meraviglioso talento per giocare a tennis. Mi rendo conto che non sarei stato in grado di fare ciò che ho fatto senza il Signore, senza Lui che mi desse la forza di realizzare quello che sono stato, poi, in grado di compiere."

Pagine indelebili di questo sport. Sono quelle scritte dal giovane Chang, che proprio a quindici anni fa il suo esordio nel circuito maggiore. Al secondo torneo utile, agli Us Open, diventa il più giovane giocatore ad aver vinto un match in una prova dello Slam (15 anni e 6 mesi). In quello stesso anno, a Scottsdale, diventa anche il più giovane a raggiungere una semifinale in un torneo ATP (15 anni e 7 mesi). L'anno successivo, a sedici anni, arriva il primo titolo a San Francisco. Al termine della stagione gli viene assegnato, dall'ATP, il premio di Atleta Rivelazione dell'Anno. È il preludio al suo capolavoro.

È la primavera dell'89, pochi mesi prima la federazione americana aveva affidato Chang alle "cure" di José Higueras. "Michael, se lavori duramente, hai la possibilità di far bene ai French Open del prossimo anno," gli disse il coach spagnolo. Chang lo guardò e prontamente gli rispose: "Perché non quest'anno?"

A Parigi, l'americano, si presenta come testa di serie numero 15. Il suo percorso non gode della giusta attenzione, nonostante abbia rifilato un periodico basso (volendo citare il vate Rino) al connazionale Pete Sampras, almeno fino agli ottavi dove ad affrontarlo c'è il numero 1 del mondo, Ivan Lendl, che al Roland Garros può vantare tre titoli e due finali perse.

I due già si erano affrontati l'anno prima, in un'esibizione giocata a Des Moines, nello Iowa, allorquando Boris Becker diede forfait e gli organizzatori, alla ricerca di un rimpiazzo da opporre al numero 1 del mondo, scelsero proprio il sedicenne Chang. Non ci fu partita. Vinse Lendl: 6-2, 6-3. Al ritorno in albergo, nella stessa limousine, Lendl gli chiese: "Vuoi sapere perché ti ho battuto oggi?"

"Ok," rispose Chang. "Dimmi il perché."

"In verità non hai nulla che possa farmi male. Non hai il servizio; la seconda non è molto potente. Così, posso fare, più o meno, quello che voglio quando giochiamo l'uno contro l'altro e posso batterti comodamente come ho fatto oggi," gli disse Lendl con un pelo di superbia ma con estrema sincerità.

Non era potente, Chang. I suoi punti di forza li aveva nella velocità, nella risposta al servizio e nella sua incredibile voglia di lottare. Ma non erano le sue uniche doti. Possedeva anche un'intelligenza fuori dal comune, in uno sport in cui l'intelligenza iniziava ad esser messa in secondo piano dalla potenza.

Non so se Chang credesse o meno nel destino, ma sicuramente credeva in un Signore che lo amasse e camminasse con lui. Quello stesso Signore che, dall'alto, lo spinse a non mollare neanche un centimetro in quella fatidica partita contro Lendl al Roland Garros; né quando fu sotto di due set, né quando fu preda dei crampi, nel set decisivo, dopo aver vinto il terzo e il quarto parziale. Soltanto per un attimo fu sul punto di mollare, Chang. All'inizio del quinto set, ma non era il suo destino, non era la sua storia. La sua storia l'avrebbe scritta in quegli attimi immediatamente successivi, quando, in vantaggio 4-3, 15-30, sempre più vittima dei crampi che non gli permettevano di servire, gli passarono per la mente i ricordi di quando, ancora ragazzini, André Agassi utilizzava la battuta da sotto con risultati incoraggianti. È il crocevia della partita. Nel gioco successivo, sopra 15-40 sulla seconda di servizio del suo avversario, Chang si posiziona, in risposta, sulla linea di metà campo. Una mossa che rompe gli equilibri mentali di Lendl. La sua battuta rimbalza sul nastro e termina fuori. Chang finisce in ginocchio. È la vittoria del cervello sulla forza bruta, è la vittoria di Davide contro Golia. È una vittoria non soltanto sportiva, ma anche, e soprattutto, una vittoria di vita, che di lì a poco alimenterà, in maniera fondamentale, il mito di Michael Chang.

Ancor di più della finale vinta, anche questa volta in cinque set, sul numero 3 del mondo Stefan Edberg, che lo incoronerà come l'uomo più giovane della storia ad aver vinto una prova del Grande Slam (17 anni e 3 mesi). Resterà il suo unico trionfo in un major, nonostante raggiunga altre tre finali più in là, tra il '95 e il '96, di nuovo al Roland Garros (sconfitto da Muster), agli Australian Open (sconfitto da Becker) e agli Us Open (sconfitto da Sampras). Ma che trionfo! Il primo di uno statunitense sulla terra degli Internazionali di Francia dai tempi di Tony Trabert, nel 1955. Un trionfo che farà da spartiacque tra la generazione dei Connors e dei McEnroe e quella dei Courier, dei Sampras e degli Agassi. E Chang ne fu il precursore.

Continuerà a vincere titoli, Chang, fermandosi a trentaquattro, divisi in tredici anni. Per undici stagioni consecutive timbrerà sempre il cartellino, almeno per una volta. Accumulerà, in carriera, più di diciannove milioni di dollari e, dopo essere entrato nella top 10 in seguito al successo al Roland Garros finendo l'anno alla posizione numero 5 - divenendo così anche il più giovane ad essersi mai classificato così in alto - ci rimarrà, più o meno, stabilmente per nove anni - raggiungendo il suo best ranking, nel 1996, alla posizione numero 2 - fino al 1998, anno in cui verrà rallentato dagli infortuni al ginocchio, prima, e al polso, poi. Uscirà, per la prima volta dal 1988, dai primi venti. Vincerà ancora un torneo, a Los Angeles, nel 2000, prima di ritirarsi nel 2003, agli Us Open, in quel torneo che gli vide fissare il primo di tanti record di precocità. Nel 2008, a coronamento di una splendida carriera, viene introdotto nella Tennis Hall of Fame.

Oggi, il tempo passa inesorabile anche per lui. Pochi giorni fa ha festeggiato il suo 40esimo compleanno, sul suo volto evidenti sono i segni dell'età che avanza. Non è più un ragazzino, Chang, ma per noi resterà per sempre "The Youngest Ever".

 

Stefano Pentagallo

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