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30/03/2012 20:04 CEST - ATP MIAMI

Mi chiamo Dimitrov

TENNIS - Con la vittoria su Tomas Berdych, Grigor Dimitrov è tornato a far parlare di sé per un risultato sportivo e non come semplice erede di Roger Federer. Stefano Pentagallo

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La somiglianza non fa tanto uguale come la differenza fa diverso. Il rovescio ad una mano, il dritto, il servizio, la volée, un talento smisurato, Wimbledon, Lundgren, Nike, Wilson. Parole che sembrano lì messe a caso, ma che invece hanno un senso. Un fine. E il fine è quello di far capire che il "nuovo…", "l'erede di…" non esiste, se non per aumentare le pressioni, in uno sport in cui di pressioni ce ne sono già tante. Mi auguro che il giocatore di cui stiamo parlando non si faccia coinvolgere in questo gioco al massacro, che abbia la forza di costruirsi una propria nominanza senza dover vivere per sempre nell'ombra di qualcun altro, senza dover rimpiangere la propria carriera vissuta nel segno di quella del suo idolo. Sempre a rincorrere i suoi successi, anziché godersi i propri. Perché il giocatore in questione, Grigor Dimitrov, potrà anche condividere alcuni aspetti del suo gioco e del suo percorso tennistico con Roger Federer, ma non è Roger Federer. E non lo sarà mai. Né lui, né nessun altro. Perché ogni campione è unico e inimitabile, per cui il suo sforzo di imitare lo svizzero risulterebbe vano, nonché deleterio per sé stesso.

Questo Dimitrov lo sa bene: "Non devo imitare Roger nel girare la racchetta quando rispondo, nel muovere la testa quando tiro il rovescio e in altre cose. Ma sono cresciuto guardandolo alla tv, e mi viene naturale. Però devo sviluppare la mia personalità, anche per la Bulgaria che è tanto orgogliosa di me."

Ad onor del vero ad alimentare questo paragone era stato Peter Lundgren, storico coach negli anni formativi sia di Federer sia di Dimitrov, con alcune dichiarazioni rilasciate un paio di anni fa in cui affermava la superiorità di talento del bulgaro rispetto allo svizzero al raggiungimento dei diciotto anni d'età. "Grigor ha tutti i colpi. Ha il servizio, lo slice, il topspin, tutto. Ha solo bisogno di diventare più forte, questo è tutto. Soprattutto ha il fuoco che gli arde dentro, la voglia di vincere."

Talento e maturazione, però, non sempre vanno di pari passo. C'è chi ci arriva prima, chi dopo, chi non ci arriva proprio. Vincitore nel 2008, tra gli juniores, di Wimbledon e Us Open, oltre che finalista l'anno prima all'Orange Bowl U18 dove perse dal lituano Berankis, Dimitrov pareva essere sulla buona strada. "All'inizio con Roger è stata dura. A volte mancava di motivazione. Era pigro. Grigor è lo stesso. Devono capire dagli errori. Alla fine ci arrivano, ma per le persone di talento ci vuole più tempo. Grigor è più avanti di quanto non fosse Roger alla sua età."

E il torneo che sancisce l'inizio della collaborazione tra Lundgren e Dimitrov sembra dare ragione al coach svedese. Siamo nel 2009. A Rotterdam Prime Time, come è soprannominato Dimitrov, batte Tomas Berdych all'esordio, per poi perdere dal numero 1 del mondo, Rafael Nadal, non senza avergli strappato prima un set. A Marsiglia viene battuto in rimonta da Gilles Simon e pochi mesi dopo ancora Simon lo batte al Queen's in una partita tiratissima, conclusasi con un doppio tiebreak.

Dimitrov sembra essere un giocatore già bello che pronto. In rampa di lancio. Invece è tutta un'illusione. Un'illusione con cui Dimitrov è costretto ben presto a fare i conti. E a pagarne le conseguenze. Fischer, Brands, Hajek, Bozoljac, Udomchoke, Balazs, l'italianissimo Ianni. Sono solo alcuni dei nomi di coloro da cui Dimitrov prende paga nell'inferno dei Futures e dei Challenger. Si trova ad affrontare una realtà che è ben diversa da quella dalla quale proviene. Una realtà che per lui è completamente nuova. "Pensavo ormai di essere pronto per stare tra i grandi. E invece, ed è una delle cose più importanti da imparare nel tennis, devi capire come giocare bene sempre, non solo una partita o due. Non è come quando sei junior. Affronti giocatori che sanno come neutralizzarti perché ci sono passati prima di te. Certo ne puoi battere uno qualche volta, ma non basta. Io ho un po' allentato la presa, e ho fatto male."

La consapevolezza nei propri mezzi a Dimitrov non manca di certo. Anzi, forse questa fiducia è addirittura superiore al proprio talento. "Credo di poter diventare numero 1 del mondo, questo è il mio obiettivo principale. Io credo nelle mie capacità, ma perché ciò accada probabilmente ho bisogno di vincere un paio di Slam, e non cadranno dal cielo. Ho bisogno di continuare a lavorare e di migliorare i miei colpi," confessava l'anno scorso prima degli Australian Open, dopo una stagione conclusa al numero 106 del ranking, con tre Futures e tre Challenger in saccoccia. Una stagione che aveva, però, fatto emergere anche alcuni aspetti del suo carattere ai più sconosciuti. Emersi per la precisione in un Challenger novembrino. A Helsinki, in Finlandia. Quando sconfitto in semifinale da quel Berankis che lo batté anche da junior, mise le mani addosso all'arbitro nel tentativo di tirarlo giù dal seggiolone. Un episodio sintomo della giovane età e della poca disciplina.

Un aspetto su cui ha lavorato tanto Peter McNamara, suo coach dal giugno del 2010 fino al novembre dello scorso anno, perché "il talento se non è affrontato dalla disciplina diventa il peggior nemico". Proprio con l'australiano seduto al suo angolo, Dimitrov inizia a vincere qualche partita in più nel circuito maggiore e a scalare la classifica sfiorando solamente l'obiettivo prefissatosi all'inizio del 2011: la top 50. Raggiunge la 52esima posizione prima che la sua parabola ascendente subisca una battuta d'arresto in concomitanza con la conclusione del rapporto con McNamara. Da qui l'uscita dai primi cento, con una sola vittoria ottenuta in questi primi due mesi del 2012. A marzo la decisione di farsi affiancare nel ruolo di nuovo allenatore da Patrick Mouratoglou, proprietario dell'accademia in cui si allena ormai da tre anni. Un cambio di guardia che a Miami, due giorni fa, lo ha portato a vincere la sua prima partita in carriera contro un top ten. Proprio su quel Tomas Berdych che sconfisse tre anni or sono a Rotterdam. Oggi come allora ha fallito la prova del nove. Non ha ancora capito come giocare bene sempre.

Il padre, coach di tennis, gli diceva che il tennis è uno sport semplice per persone intelligenti. Grigor intelligente lo è. Ed è anche umile. È consapevole di dover compiere un passo per volta. Senza farne uno più lungo della gamba. Il paragone con Federer, però, inizia a non reggere più. A diciannove anni lo svizzero conquistava il suo primo titolo ATP, a ventuno era già numero sei del mondo e prima dei ventidue trionfava a Wimbledon, nel primo dei suoi sedici Slam. Perché come ricordava Lundgren "quando Roger decise di dare una sferzata alla propria carriera, andava talmente veloce che nessuno potrà mai capire". Neanche Dimi. E per questo che, forse, è il caso di essere intelligente una volta di più. Di smettere i panni del nuovo Federer e di indossare quelli di Grigor Dimitrov. Per far sì che quella somiglianza che non fa tanto uguale, non gli impedisca per questo di assottigliare quella differenza che fa diverso.


 

Stefano Pentagallo

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