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23/04/2012 20:37 CEST - Montecarlo

Montecarlo:
otto sotto un tetto

TENNIS - Il primo Master 1000 della stagione su terra battuta, a Monte-Carlo, sarà ricordato come quello del dolore, per la scomparsa del nonno di Djokovic, e della gioia, dovuta all'ottavo centro di Nadal. Ma cambia poco o nulla nella storia della loro rivalità. Stefano Pentagallo
 

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Particolare. È questo probabilmente il termine più appropriato per sintetizzare questa 106esima edizione del Monte-Carlo Rolex Masters, conclusasi con l'urlo liberatorio di un rinvigorito Rafa, ma che dapprima era stata caratterizzata dai tristi eventi della settimana. Una tristezza, però, ben diversa. Una attesa, l'altra no.

Accade, quindi, che la triste gioia da cui si è sempre inconsapevolmente travolti nel vedere un grande campione, ma ancor prima un grande uomo, ricevere la sua ultima standing ovation, lasci spazio alla triste disperazione che inevitabilmente ci attanaglia di fronte al lutto di un qualsiasi essere umano, ma che ci tocca ancor di più nell'animo se a subirlo è, non il più forte tennista al mondo, ma un ragazzo indubbiamente sensibile negli affetti familiari.

Con il ritiro del 33enne "Ljubo", gentleman della racchetta, si chiude un ciclo, una carriera ricca di soddisfazioni, il cui culmine è stato raggiunto nel momento meno propizio, nel 2010, con la vittoria del suo primo ed unico Master 1000, ad Indian Wells. Con la morte di Vladimir Djokovic, compianto nonno del numero 1 del mondo, si chiude, invece, il naturale ciclo della vita.

Una volta di più, Nole, ha mostrato di avere carattere. Avrebbe tranquillamente potuto salutare la combriccola e volarsene a Belgrado per stare accanto alla sua famiglia, affogando nel dolore. Invece no, ha scelto la via più impervia, più difficile, com'è nel suo spirito battagliero. Ha deciso di combattere, di dare un altro motivo d'orgoglio a quello che lui stesso aveva definito "il mio eroe". Ci è andato vicino, ma non ce l'ha fatta. Troppe le emozioni anche per uno come lui. È arrivato scarico, privato di ogni residua energia fisica e mentale, alla partita più importante. È uscito sconfitto, ma non è una sconfitta che lo ridimensiona. Perché dall'altra parte della rete c'era lui, Rafa Nadal. Il migliore sulla terra battuta. Di questa generazione e, forse, anche di quelle passate.

E l'investitura è arrivata dall'altro contendente per tale nomea, Bjorn Borg. "Rafa è il miglior giocatore della storia su terra battuta," sono state le parole dell'Orso svedese. Parole che assumono un valore doppio.

I numeri, del resto, sorridono allo spagnolo, che in carriera ha vinto trentatré dei suoi quarantasette titoli sul rosso, con una percentuale di vittorie del 92.9% (236-18). Addirittura dal 2005 in poi il suo record è di 196-8 nei soli tornei ATP. Cifre da capogiro, che da sole bastano per rendere l'idea di quanto continuativamente Nadal abbia dominato sulla terra battuta nel corso della sua carriera, vincendo tre volte Amburgo/Madrid, cinque volte Roma, sei volte Parigi e, per l'appunto, otto volte Monte-Carlo, tanto per citare i tornei più prestigiosi. Vedere, al termine della finale disputata contro Djokovic, la grafica con l'albo d'oro del torneo monopolizzata dal suo nome mi ha fatto uno strano effetto. Piacevole. Rendeva ancor meglio l'idea della disumanità di questo ragazzo su questa superficie.

"Sono stato io a fare questo?", avrà pensato Nadal sollevando il trofeo che lo pone come l'unico giocatore della storia del tennis ad aver vinto un torneo per otto volte consecutive (Guillermo Vilas è l'altro giocatore ad aver vinto per otto volte uno stesso torneo - Buenos Aires - ma non consecutivamente). Una grandissima impresa che, per significato ed importanza, non può essere paragonata ai cinque Wimbledon consecutivi di Borg e di Federer - che ha vinto cinque volte consecutive anche a New York - e forse neanche ai suoi quattro Roland Garros consecutivi - ci è riuscito anche Borg - ma che per difficoltà gli è anche superiore. Vuol dire presentarsi in forma per otto anni consecutivi - e tutti noi sappiamo come questo sia francamente impossibile, ciò vuol dire che Rafa sulla terra vinceva e vince anche quando non è in forma ottimale - scontrarsi contro i migliori giocatori del mondo e batterli sempre e comunque, in un torneo giocato due set su tre e in cui i margini di errore sono ridottissimi.

Tra sé e sé anche Djokovic si sarà detto "sono stato io a fare questo?", nel vedere i suoi maldestri errori e la sua disastrosa prestazione, quasi incredulo per aver mandato in campo la propria controfigura. Più lo vedevo, più mi tornava in mente Steve Urkel, il protagonista della serie televisiva americana "Family Matters" (Otto sotto un tetto), visti i pasticci che combinava uno dietro l'altro.

Proprio per le suddette ragioni, a parer mio, questa partita non aiuta certo a trarre delle conclusioni circa la rivalità tra lo spagnolo e il serbo e né tantomeno ci dice che per Rafa il peggio sia passato. Così come in Australia, nonostante la sconfitta dura da digerire, avevo professato ottimismo per Rafa, adesso predicherei calma. Per tante ragioni. Se Nadal sarà uscito, o no, dal tunnel nel quale l'ha condotto Djokovic ce lo diranno i prossimi tornei, Roma e Parigi su tutti. Per questioni tecniche, le stesse che rendono Rafa kriptonite per Roger, io propenderei per il no. Ma quel che è certo, è che da oggi per Rafa si intravede la luce.

 

Stefano Pentagallo

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