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02/05/2012 17:29 CEST - LA RIFLESSIONE

Ma di assi
saziami

TENNIS - L'ace è un'arma fondamentale e auspicata nei momenti cruciali da giocatori e tifosi. Ci sono poi episodi in cui esso diventa simbolo di un match. Come nella finale degli US Open 2002, dove Sampras... Riccardo Nuziale

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Ivanisevic serve durante la finale di Wimbledon 2001 (Clive Brunskill/ALLSPORT/Getty Images)
Ivanisevic serve durante la finale di Wimbledon 2001 (Clive Brunskill/ALLSPORT/Getty Images)

Un tale – né Oscar Wilde né Jim Morrison – disse che scegliere è un po’ come morire.

Verità agghiacciante: nella vita scegliere è lapalissianamente tutto. In pochi istanti, a caldo, bisogna prendere quella che si considera la scelta migliore, finendo in tantissime occasioni per pentirsi della strada intrapresa, sapendo di non poter tornare indietro. Così vale anche nello sport.

Pensate ai sottovalutatissimi rigori nel calcio: per troppi, anche competenti, sono una lotteria, un testa e croce, quando in realtà sono l’essenza di un aspetto del calcio. Non è vero che ai penalties ”rischia” di passare la squadra meno forte. I calci di rigore, semplicemente, rispetto alla partita esaltano la squadra non più come agglomerato astratto, bensì come insieme di unità. Esalta quindi le qualità puramente mentali, individuali, del sapere concentrare sé stessi in una frazione di secondo. Qualità totalmente differenti da quelle che si vedono in una partita, vero (ed ecco che Cristiano Ronaldo diventa prima salvatore poi boia della propria squadra nella recente semifinale di Champions League), ma il risultato non è meno veritiero e giusto. Ho sempre trovato straordinariamente affascinante il percorso del giocatore per arrivare al dischetto, la sistemazione del pallone, lo scambio di sguardi con il portiere: chiunque può segnare un rigore in una competizione? Come chiunque può scrivere Mattina.

Preparazione (con un bel po’ di riti scaramantici), sguardo all’avversario, concentrazione, per poi esplodere il tutto in un colpo…vi viene in mente niente? Oui, il meraviglioso San Servizio patrono dei croati, fondamentale di grande fascino perché unico ad essere giocato a gioco fermo. La cui manifestazione suprema è il candido, cristallino ace.

Ammettetelo: che siate tifosi di un Karlovic o del più periferico dei terraioli, quante volte, in una situazione delicatissima come un 30 pari o un 30-40, avete benedetto i grani del rosario con le vostre impronte digitali in supplica di un immacolato ace? Altro che punti epici e vinti dopo sessanta scambi, le coronarie non gradiscono: di gran lunga meglio una botta a 230 all’ora sulla riga e in un attimo la bua non c’è più. L’ossigeno più gradito da qualsiasi giocatore e tifoso.

Ma l’ace sa essere ben più di un colpo vincente, di un’arma: è quando una banale e volgare limonata diventa coronazione di un cinematografico amore sotto la pioggia (non chiedetemi com’è il film, non l’ho mai visto visto e non credo lo vedrò mai. Ma congiunzioni astrali vogliono che una bellissima fanciulla m’abbia dedicato tale link a pochi minuti dalla stesura di queste righe: nostalgico estimatore di piccioni viaggiatori e missive accarezzate dalla ceralacca ma anche di comunissimi bigliettini scolastici sottobanco, non disprezzo comunque manifestazioni d’affetto faccelibresche. Concedetemi questa parentesi di egocentrico piacere in una giornata piagata dalla cervicale di un ottuagenario). L’ace quando diventa simbolo di una partita, fotografia di un fatto storico, non un semplice dato statistico.

Come sigillo avrei voluto celebrare in tal categoria i tre giocatori a mio avviso più meritevoli (ho considerato solo giocatori che “ho vissuto” e secondo criteri della qualità media di prima e seconda, della capacità di variare tipologia di servizio, dell’abilità di usare al meglio questo nei momenti cruciali): Sampras, il miglior battitore che abbia mai visto; Federer, il migliore in attività; Ivanisevic colui che più ho amato in questo fondamentale. Su quest’ultimo però Youtube non mi ha dato sostegno, tanto che mi son visto costretto a limitarmi a dedicare a Goran la sola foto articolo. Perché nessun episodio (nemmeno nella sua sublimemente folle carriera) può essere paragonato all’ace di “seconda seconda” - al primo tentativo infatti la palla toccò il nastro - con cui il croato annullò al britannico Bailey il match point sul 65 del quinto set durante il secondo turno dell’edizione 1993 di Wimbledon, la prima che seguii.

In sostituzione ho quindi optato per un tipo particolare di asso-bacio cinematografico, come vedrete fra poche righe. Mi sono limitato a tre episodi per pura e semplice pigrizia, ma naturalmente i casi sono moltissimi. Mi affido a voi meravigliosi lettori per completare il quadro: come un maestro rinascimentale faccio lavorare la bottega per poi prendermi i meriti.

Vedi Hannover eppoi…muoio
Secondo molti la più grande partita di Sampras (e una delle più grandi mai giocate) rimane il quarto di finale degli US Open 2001 con Agassi, la partita dei quattro tiebreak, la partita che “senza il tiebreak sarebbe stata ancora 24 pari al primo” (Rino Tommasi copyright). Gusti, opinioni. A mio modesto avviso la finale del Master ’96 con Becker non ha assolutamente nulla da invidiarle. Anzi.

In quel tedesco autunno indoor, i due non si risparmiarono certo nel darsele di santa ragione: al Master Series di Stoccarda Bum Bum vinse 64 al quinto, al Master di Hannover il fuoriclasse tedesco bissò con un doppio 76.

La rivincita arrivò qualche giorno dopo in finale, dove i due arrivarono in seguito a semifinali intensissime contro Krajicek e Ivanisevic. Finale di straordinario profilo agonistico e tecnico, vera delizia per gli occhi, una dei match più belli mai visti dal sottoscritto: finì dopo quattro ore 36 76 76 67 64 per Pistol Pete, che avrebbe potuto chiudere già al quarto, se non avesse sprecato malamente due match point con altrettanti gratuiti nel tiebreak, vinto da Becker 13-11.

Becker che, come appena detto, quella partita la perse, ma guardate come scese dal letto: a freddo, pronti e via, BUM-BUM-BUM-BUM. Quattro aces. Nella finale del Master. In casa. Contro Sampras. Un perfect game iniziale così, per gradire. La colazione a letto del buongiorno. Anche Pete ha mangiato Gocciole.

L’importanza di una seconda abbondante
E a proposito di Sampras e di Sampras-Agassi. Niente 2001, ma rimaniamo a New York e spostiamoci di un anno. La famosa finale dell’addio. Storia ormai famosissima, quella dell’ormai wheelchair Pete, a secco di Slam da due anni, sempre più l’ombra di sé stesso, senza quasi più alcuna voglia di giocare, fuori dalla top 10, il Pete che proprio quell’anno perse sull’erba da Corretja (in Davis) e da Bastl (a Wimbledon). Il Pete sempre più legato al servizio. Da chiamarsi però IL servizio, prego.

Soffermiamoci sul capolavoro, l’estasi purissima che lo sport sa offrire come poche altre cose: Sampras ha appena strappato il servizio ad Agassi e serve per il primo set. Ace-doppio fallo-ace: 30-15. La prima non entra ma, come innumerevoli volte gli è successo in carriera, Pistol Pete scaglia una grande seconda che bacia la riga centrale: ace. Due set point.
Prima esterna che dà per un attimo l’illusione di un altro asso ma invece è fuori e la seconda, ancora una volta rischiata, stavolta esce: doppio fallo. 40-30, tre aces e due doppi falli. C’è un altro set point. Nei due punti successivi, però, Sampras ha il primo passaggio a vuoto del match, due volee per lui banali finiscono entrambe out. C’è la prima palla break dell’incontro per Agassi, che nel game è stato in pratica spettatore.

I pensieri schiaccianti del momento: 31 anni, il tennis sentito non più come una gioia ma come un peso, le finali newyorchesi dei due anni precedenti perse, uno Slam che manca dal 2000, un set praticamente vinto che si sta rimettendo terribilmente in gioco e solo per colpa propria. Ma certi istinti, che si abbia 25, 31 o 39 anni (gli occhi indemoniati del post “fattaccio” esibizione Hit for Haiti sono regalo del cielo: prima esterna e volee sulla riga. Mai svegliare il cuore e lo spirito del fuoriclasse), non se ne vanno mai.

La prima non entra, ancora una volta. Bene, ora una seconda carica e giochiamoci il punto, sarebbe il pensiero di tutti, soprattutto di questi tempi. Macché. Come sul 30-15, seconda imprendibile sulla riga centrale, gesto e risultato fotocopie. Ace del 30-15 2 la vendetta. Ricordate il canestro di Jordan contro i Jazz in gara 6 della finale NBA 1998? Ecco, qui vedo lo stesso Genio.

La pioggia nel deserto
Quel 15-30 che ieri t’illuse, che oggi t’illude, o Rafa. Perché acciderbolina se Roger la stava facendo grossa: un match dominato in lungo e in largo, nonostante il fastidiosissimo vento che avrebbe dovuto fortemente penalizzarlo, 63 52 e servizio senza troppi complimenti.

Ma figurarsi se i meccanismi diamantini e a prova di granello di polvere (per andare in tilt) di Roger non bussavano alla porta: ecco quindi la reazione della nemesi, il break e un servizio tenuto senza problemi per arrivare al 54. Serving for the match. Again. Quei momenti in cui ogni palla diventa lavica, soprattutto se dall’altra parte della rete c’è Rafa. Il quale infatti annusa il sangue e va 15-30. Esplicito quello che penso sia il pensiero di molti: fosse andato 5 pari, Nadal avrebbe vinto la partita. E il 93% dei tifosi di Federer si sarebbe suicidato. Opinione mia, che come tutti i “what if?” non può trovare alcun riscontro oggettivo ed è dunque destinata a nascere e morire nelle discussioni da bar, ma ne sono convintissimo.

Ma lì – o meglio, sul 30 pari, perché sul 15-30 l’attacco c’è stato eccome - il Roger che non t’aspetti: quello che anziché tentare l’uno-due rema come un Ferrer d’annata, soffre, sputa sudore e sangue sul pressing di Rafa, non cede e attende l’errore dello spagnolo che alla fine arriva. Un “c’mon, now!” sentito a miglia di distanza.

Però poi…Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Qualche goccia scende sul campo. Il gioco si ferma, proprio sul match point. Sulle interruzioni di quel match si è discusso e polemizzato molto, tornarci non è nel mio interesse perché francamente non avrebbe senso.

Certo non mi sarei aspettato vedere quello che tutti vedemmo una volta che i due tornarono in campo. La scioltezza con cui Federer ha inflitto l’ace definitivo mi ha stupito non poco, come spesso gli è successo ha reso apparentemente elementare un gesto che, in una situazione così tesa (uno stop sul match point avrebbe potuto mandarlo in vacanza mentale per 4-5 mesi), era tutt’altro.

Taci. Su le soglie del campo non odo parole che dici umane.

Il pugnetto di Roger fu il primo a capirlo.

Riccardo Nuziale

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