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22/06/2012 12:37 CEST - Personaggi

Baseliners a Wimbledon (p.1)

TENNIS - Essere giocatori da fondocampo e giocare a Wimbledon: nel tennis maschile è stato a lungo un incubo, oggi non lo è più. Da Connors a Borg, da Lendl a Wilander, fino a Nadal e Djokovic, l’evoluzione dell’approccio al lawn tennis di chi ha sempre amato rimanere “dietro”. Prima parte. Luca Pasta

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Un tempo vi fu, oggi pressochè scomparso, in cui i tennisti, soprattutto in campo maschile, erano quasi rigidamente classificati come possono esserlo, non vi suoni strano il paragone, gli animali o le piante: con la stessa decisione con cui un zoologo potrebbe dire “questo è un mammifero” o “questo è un uccello”, l’intenditore di tennis diceva “questo è un regolarista, un giocatore da fondocampo, un difensore”, oppure “questo è un attaccante, questo è un giocatore di volo”. Dagli anni ‘70 ai primi anni 2000, pur con i mille distinguo del caso e le debite eccezioni costituite da giocatori anomali capaci di essere a proprio agio in ogni zona del campo, questa distinzione è sempre stata applicata. Soltanto a partire dai primi anni del nuovo secolo, con la sempre più rapida evoluzione dei materiali (racchette ma anche palle) ed i mutamenti apportati alle superfici che le hanno condotte a somigliarsi talvolta notevolmente, si sono create le condizioni che hanno indotto la diffusione di un’unica macro-categoria di tennisti, quella alla quale, anche in questo caso con tutte le sfumature e le eccezioni del caso, appartiene oggi la stragrande maggioranza dei giocatori: un servizio tendenzialmente potente, due buoni fondamentali, un’ottima preparazione fisica e l’idea che il tennis sia servire una buona prima e cominciare a martellare da dietro, seppur con i piedi vicini alla linea di fondo, cercando di sfondare l’avversario e venendo a visitare la rete soltanto in alcuni casi, magari a punto già parzialmente fatto, per concludere spesso più che con delle voleè “ortodosse”, con violenti e “moderni” schiaffi al volo. Certo, ogni tanto un drop shot di Federer o una voleè di Llodra ci ricordano per nostra fortuna che questo sport è, ma soprattutto era, quella che Clerici definiva un’arte minore.

Ma tornando ai decenni della diversità e della varietà, non vi era periodo in cui queste caratteristiche venivano maggiormente esaltate di quello tra la fine di maggio e l’inizio di luglio: il rapido passaggio a cui da sempre siamo abituati dalla terra di Roland Garros all’erba di Wimbledon, segnava davvero il passaggio dal paradiso dei terraioli, lo Slam parigino giocato sulla lenta terra rossa della vecchia Europa continentale, al paradiso degli attaccanti erbivori, lo Slam londinese con suoi courts caratterizzati dall’infida, rapida, irregolare, spesso umida erba britannica, l’ambiente naturale del lawn tennis e dei raffinati gesti bianchi del tennis che fu. In tale contesto è sempre stato interessante osservare in quale maniera i più forti giocatori da fondo campo o comunque, seppur interpreti di un tennis aggressivo non volleatori naturali, si avvicinavano alla verde superficie che ospitava (ed ospita ovviamente) il torneo più prestigioso del mondo e che non potevano quindi ignorare. Senza alcuna pretesa di completezza, passare in rassegna alcuni di questi grandi campioni ed analizzarne l’approccio a Wimbledon può forse spiegarci qualcosa del passato e del presente dei Championships.

Cominciamo dal signor James Scott Connors, più semplicemente Jimmy, al secolo ”Jimbo”. Un tipo che ha saputo ben adattarsi all’erba di Londra, se è vero che ha vinto il torneo 2 volte e vi ha giocato altre 4 finali. Gioco prevalentemente piatto, aperture nei due fondamentali piuttosto contenute, un rovescio che era fantastico in generale e tale rimaneva sull’erba, una straordinaria risposta al servizio per riflessi, rapidità del braccio e brevità del movimento, questi gli ingredienti tecnici che hanno fatto sì che la ricetta di Connors a Wimbledon fosse vincente, considerato anche il fatto che l’erba attutiva i suoi più macroscopici punti deboli, perché il non esaltante servizio acquisiva comunque una certa efficacia sull’erba, ed aveva meno occasioni di dover spingere di suo ed arrotare sul dritto, sul quale invece poteva sfruttare, colpendo pulito, il peso della palla dell’avversario. L’istinto offensivo di Connors, che pur partendo spesso da dietro, è sempre stato proteso in avanti, l’idea che bisognasse aggredire prima di essere aggrediti, ed ovviamente la una smisurata convinzione di essere il migliore, di potercela sempre fare, contro tutto e tutti, completavano il quadro. Dopo la prima vittoria del 1974 contro il vecchio Rosewall, a smontarlo non furono sufficienti né la sconfitta bruciante con Ashe in finale l’anno dopo, né quelle in finale con Borg nel 1977 e 1978 (quest’ultima in tre rapidi set), né le successive tre sconfitte in semifinale. Se nel 1982 Borg aveva abdicato, ci pensò Jimbo in prima persona a piegare l’altro grande ostacolo sulla strada della sua assoluta volontà di vittoria, John McEnroe che dovette cedere alla furia Connors in finale in cinque set. A tutto ciò, non contento, aggiunse un’altra finale e due semifinali.

Il secondo “baseliner” sotto analisi altri non è che Bjorn Borg. Tutti sanno che, se Connors aveva in parte cominciato, l’ ”Orso” sradicò definitivamente ogni convinzione secondo la quale a Londra si poteva vincere soltanto se interpreti del tennis classico votato al serve and volley. Le cinque vittorie di Borg a Wimbledon rappresentano tuttora una delle imprese più clamorose della storia del tennis. Qui non stiamo più parlando di giocatore nato sui veloci campi americani in cemento, abituato comunque fino dall’infanzia tennistica ad aggredire come poteva essere Connors, qui si sta trattando di un soggetto che quindici giorni prima di calcare l’erba inglese consumava la terra del centrale di Parigi ed i suoi malcapitati avversari, si chiamassero Vilas o Clerc o Barazzutti e così via, asfissiandoli con una regolarità devastante, un top spin da boscaiolo che lui stesso inventò, e che passava le ore ad arrotare metri dietro la riga di fondo. Quello stesso uomo, dopo alcuni anni di rodaggio, mise a punto il sistema per alzare per tre volte nello stesso anno le coppe dei due antipodi dello Slam, quelle di Roland Garros e di Wimbledon. Coloro che pensavano che non avesse armi sufficienti per vincere sul verde, non avevano fatto i conti con la sua preparazione fisica clamorosa, la leggerezza e l’agilità dei suoi spostamenti, il suo servizio non letale ma comunque pesante, gli angoli impossibili dei suoi passanti di rovescio. A tutto questo Borg, oltre alla consueta inscalfibile solidità mentale, aggiunse sul suolo britannico un’attitudine più offensiva di quella che aveva normalmente altrove, con discese verso la rete non sistematiche ma ben scelte dal suo notevole acume tattico, spesso realizzate seguendo un rovescio bimane tagliato di approccio che aveva appositamente sviluppato per i Championships. Borg infine, ebbe anche, a giudizio di chi scrive, la fortuna, meritata, di trovarsi in un periodo storico che ancora consentiva di non essere sommersi da giganti di un metro e novanta o quasi e dai loro ace, un periodo che era soltanto la vigilia dell’era post-legno negli attrezzi e dell’era dei giganti fisicamente possenti alla Becker, capaci di ridurre per molti games il ribatittore all’impotenza. Per intenderci, lo stesso Tanner che lui domò nel 1979, con in mano un altro tipo di clava, forse sarebbe stato incontenibile.

Dopo la vittoria di Connors nel 1974, la parentesi di Ashe nel 1975, le cinque vittorie di Borg dal 1976 al 1980, i volleatori tornarono a comandare nel 1981 con il primo trionfo del genio della rete più grande che la storia abbia conosciuto, John McEnroe, che con la sua irresistibile freschezza costrinse un Borg che stava cominciando a spegnersi alla resa. Dopo il passo falso di Mac contro Connors nel 1982, dal 1983 non ci fu più verso per chi non aveva il serve and volley nel sangue di trionfare sul Centre Court: alle ulteriori due vittorie di Superbrat nel 1983 e 1984, seguirono le tre di Becker nel 1985, 1986, 1989, le due di Edberg nel 1988 e nel 1990, quella di Cash nel 1987 e quella di Stich nel 1991. Come il lettore tennisticamente maturo potrà ben capire, che si trattasse delle voleè acrobatiche di Bum Bum a seguito di un servizio di una violenza fino ad allora sconosciuta, di quelle sublimi dell’aristocratico svedere anomalo Edberg figlie di una battuta meno violenta ma dalla rotazione composita quantomai insidiosa, dell’istinto ereditato dagli avi dell’aussie Cash o dell’apertura alare e dell’eccellente gioco di volo del tedesco di riserva (si fa per dire) Stich, sempre di attaccanti capaci di ridurre al silenzio i grandi giocatori da fondo del periodo si trattava. Infatti, laddove Connors e Borg erano riusciti più volte, Lendl e Wilander fallirono sempre.

Prendiamo Mats Wilander. Dopo gli inizi da terraiolo doc, erede sì, ma sul rosso, del sacro padre della Patria Borg, il biondo ragazzino svedese presto cominciò a mostrare che era sua intenzione uscire dal ghetto della terra. E lo dimostrò così bene che con la sua intelligenza tattica, le sue variazioni, il suo dicreto gioco di volo, si aggiudicò per due volte sull’erba di Melbourne l’Australian Open, dimostrando in un caso maggiore elasticità tattica di Lendl che battè in finale nel 1983, nell’altro un pericoloso bombardiere come Kevin Curren. Eppure, nonostante i fasti australiani, nulla da fare ci fu per Wilander a Wimbledon. Che sia stato a causa dell’erba britannica spesso più umida, più veloce, dai rimbalzi più irregolari di quella australe, o per altri motivi, la storia ci dice che Mats a Londra non andò oltre i 3 quarti di finale consecutivi del periodo 1987-1989, quando si dovette arrendere in sequenza a Cash, Mecir, ed infine ad un Mac ormai trentenne ma ancora, se ispirato come in quell’occasione, fuori dalla portata di Wilander che pure lo aveva una volta piegato sul verde a Melbourne in una di quelle giornate in cui John tendeva all’autodistruzione.

Ma il paradigma del giocatore da fondocampo, contrattaccante, “difensore” o chiamatelo come preferite, che fallisce a Wimbledon ha un solo nome: Ivan Lendl. Dopo inizi londinesi deludenti, dichiarazioni del tipo “l’erba è buona per farci pascolare le mucche” (frase in realtà attribuita di volta in volta più di un giocatore in difficoltà sul verde), il re degli anni ’80 giocò nelle 8 edizioni dei Championships tenutesi tra il 1983 ed il 1990 la bellezza di 2 finali e 5 semifinali. Ma non vinse mai. Perché? Chi scrive ritiene che questo fallimento sia dovuto a svariate ragioni, quali alcune caratteristiche tecniche di Lendl particolarmente inadatte all’erba, un atteggiamento tattico probabilmente errato, ed anche tanta sfortuna. Certamente le ampie aperture di Lendl nel dritto e nel rovescio non erano ideali per i tempi ristretti che l’erba imponeva allora. Il problema tecnico principale dell’allora cecoslovacco era però il gioco di volo: Ivan purtroppo, nonostante gli sforzi compiuti, non è mai riuscito ad essere veramente veloce nella discesa dopo il servizio (non di rado era costretto a giocare difficili demi-voleè o voleè basse), nè ad avere un buon senso della posizione, nè tantomeno spostamenti laterali rapidi ed efficaci con i piedi come quelli di Edberg, e la sua tecnica di esecuzione dei colpi di volo non è mai stata tra le più raffinate, anche se gli ho visto giocare talvolta voleè molto belle, specie di rovescio. Il fatto è che tali difetti vennero, secondo chi scrive, amplificati da una tattica sconveniente. Se si vanno a rivedere le immagini della prima semifinale che Lendl giocò e perse contro McEnroe a Wimbledon nel 1983 si nota come l'allora cecoslovacco già a quel tempo seguisse a rete pressochè sistematicamente sia la prima che la seconda palla di servizio, segno questo del fatto che già con Fibak al suo fianco era stata adottata questa tattica. Questo atteggiamento continuerà sistematico anche con il successivo coah, l’australiano Tony Roche. Mi pare di ricordare che Roche, interpellato una volta sul perchè Lendl seguisse ossessivamente a rete il servizio anche sulla seconda palla, abbia risposto che a suo avviso non c’erano alternative perchè se fosse rimasto a fondo campo sarebbe stato rapidamente attaccato da gente come Becker, Edberg o Cash.

Evidentemente Lendl stesso era di questa opinione, dal momento che continuò a giocare in quel modo a Wimbledon fino alla sua ultima partecipazione. Che sia stata una buona idea è tutto da dimostrare. Fermo restando il fatto che negli 70-80 e primi anni 90 l’erba di Wimbledon non era la ben più lenta ”erba battuta” (felice definizione di Clerici) degli ultimi anni e rendeva difficile controllare bene la palla sui colpi di rimbalzo, rimane il fatto che Bjorn Borg aveva dimostrato ed Andre Agassi dimostrerà che a Wimbledon era possibile vincere anche senza essere ossessionati dalla presa della rete. Lo stesso Connors, altro grande ribattitore, non praticava il serve and volley sistematicamente. In definitiva la morale è che che non si deve snaturare il proprio gioco e far violenza al proprio istinto anche se ci si trova sulla superficie più sfavorevole.

Non è per contro continuando a scendere a rete che Edberg e McEnroe hanno sfiorato la vittoria sulla terra di Parigi dove lo stesso Noah prendeva spesso la rete nel corso del suo vittorioso torneo del 1983? Lendl avrebbe potuto seguire la prima palla alcune volte, mentre in altre occasioni avrebbe potuto grazie alla potenza del primo servizio, affondare i colpi da fondo specie con il diritto, tenuto anche conto che se su quell’erba velocissima veniva giocata una buona accelerazione non era facile opporvisi. Ma soprattutto Lendl non avrebbe dovuto seguire a rete la seconda palla: è possibile che i suoi avversari di maggiore talento ed istinto “erbivoro” come Cash e John McEnroe o Edberg e Becker sarebbe stati in alcune occasioni in grado di attaccare con il “chip and charge” direttamente sulla risposta il suo secondo servizio, ma sempre in meno occasioni di quante siano state invece le volte nelle quali è stato visto sbagliare o la volèè di approccio a seguito di una risposta tesa tra i piedi del suo avversario sulla seconda palla o comunque giocarla male, preparando il terreno per essere poi vitttima di un facile passante. Non vi è dubbio però che Lendl a Wimbledon sia anche stato estremamente sfortunato: non vi è stato anno, dal 1983 al 1990, in cui non si sia trovata sbarrata la strada da un grande giocatore di serve and volley, o, in due occasioni, da giocatori fortissimi sull’erba come Connors e Leconte. Ciò nonostante è stato capace di battere Edberg nella semifinale del 1987 e di essere avanti di due set a uno con un break nel quarto contro Becker nell'anno migliore della carriera di Boris. Come lui stesso disse, non gli è invece mai capitato un giocatore modesto come Chris Lewis in una finale di Wimbledon, come successe invece a John McEnroe nel 1983 permettendogli di passeggiare e di vincere con un triplice 62. Lendl infine, è visssuto tennisticamente troppo presto per assistere al notevole cambio dell’erba dei Championships che ha trasformato il gioco praticato sui courts londinesi in un senso che sarebbe certamente stato a lui favorevole.

Le gioie di Borg e di Connors, i dolori di Lendl e Wilander, hanno caratterizzato la parabola dei baseliners a Wimbledon negli anni 70 ed 80. Nella seconda parte di questo articolo analizzeremo gli anni 90, per poi parlare degli epocali cambiamenti giunti a Wimbledon con il nuovo secolo.

Luca Pasta

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