12/08/2012 07:41 CEST - Rassegna Nazionale

Il suono di Federer (Marco Codignola)

12-08-2012

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Il suono di Federer (Marco Codignola, Il Sole 24 Ore, 12-08-2012)


Dopo la vittoria olimpica della trimurti Murray (Andy, cioè il membro che scende in campo, più la sua signora madre Judy, più il questurino di Ostrava coi capelli a spazzola e gli occhi spenti un tempo noto come Ivan Lendl), alcuni cronisti professionali - e gran parte di quelli avventizi, cui una wild card per i grandi eventi non si nega mai - si sono precipitati a sostenere di avere assistito a una svolta epocale. Sfruttando l'eclissi dell'acciaccato Nadal e il calo di certezze patito da Djokovic, una nuova generazione di bad boys, con Andy Murray nel ruolo di apripista e simbolo, si appresterebbe infatti a conquistare la vetta del mondo tennistico, sloggiandone a titolo definitivo il suo attuale, noiosissimo occupante, Roger Federer. Seguono inni al trionfo del tennis rozzo, violento e strafottente dei nuovi padroni, e cachinni alla grazia sublime, ma fredda e ripetitiva che il monarca deposto si ostina a manifestare, dentro e fuori dal campo.


Ora, a parte il grottesco di contrabbandare per ragazzaccio un ventiseienne che a ogni errore chiede scusa con gli occhi alla mamma in tribuna, a ogni vincente cerca la di lei approvazione, e dopo aver vinto una medaglia bacia frettolosamente la fidanzata, per poi gettarsi in lacrime fra le braccia dell'augusta genitrice, l'accostamento fra Murray e Federer non regge per una serie di ragioni, che si riducono a una: si tratta di due grandezze non omogenee. A ventisei anni Federer aveva già vinto undici Slam, e Murray non si avvicinerebbe ai suoi risultati neppure se la persuasione occulta di Ivan Lendl (che in carriera ne ha vinti otto) riuscisse a mantenere in vita molto più lungo del fisiologico la trance agonistica di domenica scorsa. Senza contare che, nel caso la finale di Londra segnasse davvero l'inizio di un declino - peraltro già annunciato più volte - gli amatori del tennis in generale, e di quello di Federer in particolare, si fregherebbero le mani. I momenti migliori di questo sport sono infatti, spesso, quelli che precedono la fine di una carriera. Pochi match si ricordano come la finale di Wimbledon persa da Ken Rosewall nel 1974, a quarant'anni compiuti, contro Jimmy Connors; o i cinque set della semifinale degli US Open 1989, persa da Jimmy Connors, a sua volta quarantenne, contro André Agassi. E, per restare a Federer, è proprio la possibilità del suo tramonto prossimo venturo a rendere non dimenticabili, e struggenti, partite come la semifinale olimpica, vinta dopo quattro ore e mezzo di corpo a corpo contro un altro presunto ragazzaccio, il pampero triste Juan Martin del Potro.


Su quel match, il più lungo mai giocato in tre set, si potrebbero innestare analisi tecniche di vario genere, perché Federer non vince in virtù di invenzioni mirabili, vince perché è una macchina, o sì se preferisce una mente, programmata per vincere, dal palleggio di riscaldamento in poi. Basta guardarlo anche distrattamente per capire come nel tempo sia riuscito a eliminare dal suo tennis, liofilizzandoli, tutti i paraphernalia che accompagnano tradizionalmente questo sport, a cominciare dai tic, cui nessun giocatore è immune: Ivan Lendl, fra un servizio e l'altro, aveva la dolce consuetudine di strapparsi le ciglia, una a una: Roger, nei momenti di massima tensione, si toglie un invisibile pelucco dalla maglietta. Ora, se al tennis, che è un gioco intessuto di rituali, si sottraggono i rituali, rimane solo il tennis - più o meno allo stato puro. Che è poi la ragione del sortilegio esercitato da Federer su chiunque lo guardi. Anche se guardare, in questo caso, rischia di non essere sufficiente.


Ogni incontro di tennis nasconde una musica sottile, sulla quale chi vuole vincere deve riuscire a sintonizzarsi, ha detto una volta Gianni Clerici. È una delle frasi che raccontano meglio questo sport, ma nel caso di Federer contempla una variante. Quella musica sottile Federer tende a produrla, e non a caso è un giocatore che a occhi chiusi si apprezza quasi quanto a occhi aperti. Ascoltare il suo tennis è un'esperienza che la televisione, appiattendo i suoni, non consente, ma che la visione dal vivo, al contrario, incoraggia - non fosse altro perché per chiunque segua Roger abbastanza da sapere cosa, nel momento generalmente meno indicato, stia per fare, chiudere gli occhi è una forma naturale di autodifesa del proprio sistema cardiocircolatorio.


Il fatto, immediatamente percepibile, è che il tennis di Federer ha un suono diverso da qualsiasi altro. Ogni giocatore ha il suo, beninteso, immediatamente riconoscibile anche a un orecchio non allenato. Cinque minuti di Nadal a occhi chiusi bastano per familiarizzarsi col sibilo, sempre uguale, prodotto dalle sue rotazioni infernali, e dopo altrettanti di Djokovic lo schiocco in crescendo del suo dritto quasi piatto aiuta a capire che Nole si sta costruendo il punto, costringendo l'avversario a stramazzare. Ma con Federer cinque minuti non bastano: le sue corde producono suoni sempre diversi, che seguire può essere, a seconda della psiche, esaltante, o tormentoso.


Un esempio? Entriamo a occhi chiusi nel secondo set della finale di Wimbledon (quella vera) 2012.40-30 Federer, che serve per il set. Colpo morbido (servizio a uscire, verosimilmente). Schiocco (risposta Murray). Ronzio (rovescio in slice di Federer, sicuro). Schiocco(attacco Murray, impossibile dire se di dritto o di rovescio, suonano uguali). Schiocco (dritto Federer). Schiocco (attacco Murray). Schiocco, più forte (Federer forza lo scambio col dritto). Schiocco (attacco Murray). Pizzicato esilissimo (rovescio in slice, verosimilmente difensivo). Schiocco (attacco Murray). Silenzio. Di morte. A quel punto gli occhi fatalmente si riaprono, sicuri di inquadrare Federer che fissa il punto d'impatto del vincente di Murray. Invece, Federer è a rete. La palla che ha appena accarezzato al volo - senza rumore - sta ricadendo, fotogramma dopo fotogramma, nel campo di Murray. Tocca terra e schizza di lato, verso il corridoio. Murray inciampa tentando di raggiungerla, ma non le si avvicina neanche. Set Federer. Il resto è noto. Momenti come questo sono percepibili anche a occhi aperti, evidentemente, ma nel senso in cui Vertigo o Psycho sono percepibili anche senza la colonna sonora di Bernard Hermann. La scena rimane identica, però la tensione dello spettatore si attenua. E la sua interpretazione rischia di offuscarsi.


Non so se l'assenza del sonoro, o del sonoro corretto, sia la ragione per cui il tennis di Federer viene costantemente frainteso, e le analisi di cui è oggetto sconfinano così spesso nell'allucinazione. A partire dall'unica lettura fino a questo momento convincente (quella di David Forster Fallace, che quando parlava di tennis sapeva con estrema precisione di cosa stesse parlando) negli ultimi anni si infatti sviluppato un fiorentissimo sottogenere letterario, che all'incolpevole Roger attribuisce un'enorme quantità di virtù filosofiche, e persino politiche. Non vale troppo la pena di scendere in dettaglio, ma sarebbe divertente chiedere all'interessato se davvero si senta più un legislatore intento a una restaurazione neoclassica che un monarca (André Scala, I silenzi di Federer in uscita da ObarraO), o se davvero ritenga di occupare, nel tennis, la posizione che occupa Heidegger nella storia del pensiero (Carlo Magnani, Filosofia del tennis). Chissà come risponderebbe. Probabilmente come rispose l'immenso Bill Tilden, autocrate del tennis fra i Venti e i Trenta abbondanti del secolo scorso, a un amico che gli suggeriva di adottare, in futuro, una tattica meno solipsistica, più ragionata: «Oh, no, no. l'Il play my own sweet game».
 

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