27/08/2012 12:34 CEST - Us Open

I campioni e Flushing Meadows

TENNIS - Ogni grande giocatore ha avuto con Flushing Meadows un rapporto intenso. Ecco come i campioni hanno vissuto gli Us Open e come il torneo ha "vissuto" loro. Luca Pasta

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USTA Billie Jean King National Tennis Center (Getty Images North America Chris Trotman)
USTA Billie Jean King National Tennis Center (Getty Images North America Chris Trotman)

E' il 29 agosto 1978, quando una banda musicale di New Orleans inaugura lo stadio Louis Armstrong, il campo centrale del nuovo complesso di Flushing Meadows, il "National Tennis Center" nel quale si è trasferito l'Open degli Stati Uniti abbandonando la vecchia, storica sede di Forest Hills, e con essa l' "har tru", la terra verde americana, che già aveva sostituito l'erba nelle ultime tre edizioni giocate nella vecchia location. E' giunto il tempo del cemento, il decoturf grigio-verde di quei campi duri su cui si scriveranno pagine indimenticabili della storia del tennis moderno.

Tutti, giocatori, giornalisti, pubblico, capiranno da subito che Flushing Meadows non è il solito Slam: dell'ambiente solenne e quasi sacro dell'All England Lawn Tennis and Croquet Club non vi è nemmeno l'ombra, nè si respira l'atmosfera più composta e ordinata di Kooyong a Melbourne, e perfino certe vivacità di Roland Garros impallidiscono di fronte a quello che alcuni definiranno l' "inferno di Flushing Meadows": un catino gigantesco (l'Armstrong, nel 1997 ridimensionato per far posto all'ancor più immenso Ashe), un campo medio chiamato Grand Stand e molti altri campi vedono i giocatori districarsi in una giungla fatta di un pubblico popolare e rumoroso, passionale, di gradini di scorrimento liberi tanto cari al grande Rino Tommasi, ma non poi tanto liberi alla ripresa del gioco dopo i cambi di campo, di un disordine congenito, di un frastuono continuo nel cielo, da dove il rombo assordante di un jet può, volenti o nolenti, giungere a creare il sottofondo con il quale convivere magari servendo per salvare una palla break. Questo cocktail di ingredienti esplosivi, ha dato tuttavia luogo ad un'atmosfera unica e ad un torneo talvolta davvero elettrizzante come nessun altro. Ogni grande campione ha avuto ed ha con Flushing Meadows un rapporto intenso e particolare fatto talvolta di amore, gioia ed esaltazione, talvolta di mal sopportazione, insofferenza e quasi odio.

Connors, erezione agonistica sull'Armstrong

Connors ha dato e ricevuto tanto da Flushing Meadows. Aveva già vinto due volte l'Open sull'erba e sulla terra verde a Forest Hills, ma è probabile che dentro di lui i ricordi più indelebili siano legati alle tre vittorie ottenute sul cemento di Flushing. Nel 1978 comincia ad esaltare i newyorkesi salvandosi contro Panatta: sotto 5-4 e sul servizio avverso, si salva con risposte incredibili, poi in finale si vendica della sconfitta con Borg a Wimbledon. Dopo tre semifinali perse, nel 1982 Jimbo è diventato il "vecchio Connors", quello che non vince uno Slam appunto dal '78, il futuro sono McEnroe e Lendl, non certo lui. Ma è lui invece che, a 30 anni, nel giorno della finale, solleva un dito, per una volta non per mostrarlo all'arbitro, ma per indicare che manca un punto alla fine del match ed alla sua vittoria. "One more" è l'urlo suo e del pubblico, una folla che una volta non lo amava, e che ora esalta questo fenomeno unico dell'agonismo, che piegando il giovane ma già forte Lendl 6-4 al quarto set conquista il suo quarto Open americano.

Non pago, l'anno dopo vince anche il quinto, sempre a spese del povero Lendl, ancora a secco di Slam. Nel 1984 è uno dei protagonisti del "Super Saturday", uno straordinario sabato di 10 ore e più di tennis favoloso nel quale perde una grande semifinale con McEnroe. Seguono negli anni successivi, un paio di semifinali perse con Lendl e l'inevitabile declino. Tutto finiti dunque? No, non è tutto finito. Connors vuole recitare a Flushing un ultimo show, il più incredibile ed indimenticabile. Nel 1991 ha 39 anni, Borg, venuto dopo di lui, se ne è andato (al di là dei patetici momentanei rientri) da 10 anni. Ma lui è ancora lì. Convinto come sempre di essere il migliore. Al primo turno, di questo si accorge Patrick McEnroe: il fratello di Mac conduce due set a zero, 3-0, ha altre tre palle break sul servizio di Connors. Ebbene, all'1.35 del mattino è Connors, dopo 4 ore e 20, a vincere.

Il 2 settembre compie 39 anni e regala a sè ed al pubblico di Flushing Meadows il più indimenticabile dei ricordi. Quel giorno, davvero, Connors è "in erezione agonistica", secondo la felicissima espressione di Tommasi. Negli ottavi, sotto 5-2 contro Krickstein, (di cui non si dice che sarebbe potuto essere padre, ma quasi), si agita, discute con l'arbitro, ma soprattutto trascina nel suo delirio l'intero pubblico del Louis Armstrong, che esalta e dal quale è esaltato, e dal quale letteralmente assorbe l'energia per un'incredibile vittoria in 4 ore e 41 minuti. Cadrà, inevitabilmente, solo in semifinale con Courier. Per ironia della sorte, sarà colui che aveva traumatizzato, umiliato, impaurito per anni, a batterlo nel suo ultimo match a Flushing Meadows nel 1992: Ivan Lendl. Un rapporto intenso e ardente tra due simili: Connors e Flushing Meadows, appunto, forse il feeling torneo-giocatore più intenso della storia del tennis.

Borg: il dramma

Se per Lendl il torneo "maledetto" è stato Wimbledon, se per Mac, Sampras, Edberg e Becker è stato Roland Garros, per Borg lo Slam stregato è stato l'Open degli Stati Uniti: già sconfitto da Connors sulla terra verde nel 1976 a Forest Hills, Borg perse in modo bruciante 3 finali in 4 edizioni giocate a Flushing Meadows: dopo una netta sconfitta con Jimbo nel '78, torna in finale nel 1980. E' la più drammatica e dolorosa sconfitta dell'intera carriera dell' "Orso": un McEnroe inarrestabile va avanti due set a zero, ma con Borg non è mai finita. E dopo 3 ore e 26 minuti, i due fenomeni sono al quinto, come due mesi prima a Wimbledon. Borg sembra inarrestabile, è perfetto, prima o poi Mac cederà il servizio ed il match, come a Londra. Ma sul 3-3 qualcosa si rompe: nel primo punto del settimo gioco Borg subisce un furto: non gioca volontariamente una palla che giudica giustamente fuori, ma non arriva nessuna chiamata: in una situazione in cui un Connors, un Mac, un Lendl ed oggi magari una Serena Williams sarebbero esplosi, Bjorn Borg si limita a guardare, a disapprovare con lo sguardo. E riprende subito a giocare, come ha sempre fatto, dando l'ennesima lezione di controllo e di classe. Ma è dentro di sè che la calma se n'è andata: consegna il break a McEnroe con due doppi falli. E' la fine: cede 6-4 al quinto, è' inutile che vada in Australia ad inseguire un Grande Slam che è già fuggito.

Quel momento segna forse l'inizio di quella crisi interiore che avrà il suo compimento l'anno dopo: ancora una volta in finale, Mac in tutto il suo splendore lo piega in 4 set. La delusione di Borg è assoluta: fugge letteralmente da Flushing Meadows prima della consegna dei premi e, pare, senza aver fatto nemmeno la doccia. Forse neppure lui lo sa in quel triste momento, ma quella è la fine di Borg, l'unica vera fine di quel fenomeno biondo gelido e perfetto che quella sera mostrò la sua debolezza, la sua umanità, e forse, la sua voglia di essere finalmente libero.

Mac: il trionfo del figlio della Grande Mela

Se Flushing Meadows è fatto per Connors e non per Borg, il suo caos ben si adatta anche all'estro, agli sfoghi, alle pazzie di quel folle ragazzo di origine irlandese ma newyorkese in tutto e per tutto (a dispetto della nascita casuale in Germania) di John McEnroe. Ed è sul Louis Armstrong che Mac firma i suoi primi grandi trionfi. Ma non fu feeling immediato: in un incontro dei primi turni del 1979 con quell'altro istrione che era il vecchio Nastase, la folla applaude i suoi doppi falli, e Mac non esita a rivolgere gesti non esattamente finissimi al pubblico stesso. Anche Nastase ci mette del suo, e tra penalty point e scenette di ogni tipo, è Mac a vincere. In finale piega un altro figlio di New York, Vitas Gerulaitis. Due anni dopo, nel 1981, con il terzo titolo di fila a Flushing, diventa il primo giocatore dai tempi di Tilden, 56 anni prima, a realizzare simile impresa. Il terzo ed ultimo titolo nel clamoroso 1984: in due giorni, la sintesi perfetta del più perfetto Mac di sempre: il sabato, il famoso "Super-Saturday", finisce alle 23.15 di piegare l'indomito Connors in 5 set, e poche ore dopo, la domenica pomeriggio, fa di Lendl un sol boccone. Nessuno lo può credere, in quel momento così scintillante, ma sarà il suo ultimo Slam. Anche questo è stato Flushing Meadows: per il sempre ripudiato Borg, la molla definitiva verso il ritiro, per il pluri-coronato Mac, l'ultimo vero trionfo. Due momenti dell'importanza dei quali il mondo del tennis non aveva consapevolezza mentre si verificavano, ma che si riveleranno in seguito pietre miliari della storia del nostro sport.

Lendl: un uomo solo contro tutti

L'epopea di Ivan Lendl a Flushing Meadows è una delle più incredibili della storia del tennis. Il cammino di Lendl a New York nel corso degli anni è lo specchio fedele della sua evoluzione generale: un uomo solo, gelido, osteggiato, disprezzato, talvolta deriso, che con la forza della sua volontà non riuscirà mai a conquistare il cuore della maggior parte dei tifosi americani e nel mondo, ma riuscirà ad essere, per lungo tempo, il più forte. Dopo i quarti raggiunti a vent'anni nel 1980 e gli ottavi del 1981, nel 1982 spazza via con la sua potenza McEnroe in tre set in semifinale e gioca la finale contro Connors. Sono, per intenderci, i tempi in cui Gianni Clerici si alza sugli spalti per zittire un tifoso che sta insultando Lendl come "bastardo comunista" o qualcosa di simile, ma anche quelli in cui Lendl, interpellato da un giornalista sul perchè non concedesse mai un sorriso, risponde "lei dica qualcosa di buffo ed io sorriderò". Quest'uomo chiuso in sè, scontroso, scostante, gelido ed affamato di vittorie e di denaro, non può piacere agli americani. Nè piace a Connors, che già lo aveva definito "chicken", un pollo codardo che perdeva volontariamente contro di lui un incontro del round robin del Masters 1980 pur di non incontrare Borg in semifinale. Nella finale del 1982, Lendl è tecnicamente favorito, ma psicologicamente è un nano contro il gigante Connors, che, esaltato, lo batte in 4 set.

Un anno dopo, questo Lendl è sì forte, è già stato numero uno, vince caterve di tornei del circuito, ma non ha ancora vinto uno Slam: è un perdente. Ed anche nella finale del 1983 il copione si ripete: stretto dalla tensione, con il pubblico ostile, gli incalzanti sguardi dei genitori, un malessere allo stomaco da cui forse non sono estranei i fattori sopra citati, fatica terribilmente contro un Connors fantastico che gioca d'anticipo e aggredisce prima di essere aggredito. Tutto questo non impedisce a Lendl di avere sul 6-5 nel terzo set la palla per andare avanti 2 set a 1: ma è, drammaticamente, doppio fallo. E' finita. Ivan non vincerà più un solo gioco e cederà di schianto 6-0 al quarto. Finalmente nella famosa finale parigina del 1984, la maledizione degli Slam si spezza, ma a New York Mac lo spazza via in tre set. E' in questa fine di 1984 che Lendl capisce che per essere numero uno deve fare un salto in più. Arrivano Tony Roche, il dietologo Haas, la psicologa Castorri.

Comincia la costruzione di quella macchina perfetta o quasi che sarà Ivan Lendl per tre anni. Ed il frutto di tanti sacrifici e di un lavoro immane viene raccolto l'8 settembre del 1985: di fronte il suo eterno rivale John McEnroe, che lo ha battuto per due volte sul cemento estivo nordamericano. Sul 5-2 Mac nel primo set, in Lendl e nei suoi pochi ma "religiosi" tifosi riaffiorano i fantasmi del passato: ma questa volta è diverso. Lendl non crolla psicologicamente, nè fisicamente. Un Ivan più asciutto, che si muove meglio, che usa maggiormente il rovescio tagliato e prende più frequentemente la via della rete,comincia a giocare in modo incredibile: passanti, risposte e servizi di devastante potenza ed incredibile precisione inchiodano McEnroe e lasciano basito l'incredulo amico di John, Sergio Palmieri, durante la telecronaca in compagnia di Lea Pericoli su Telemontecarlo.

Il break decisivo nel terzo set, Lendl lo conquista con un meraviglioso lob liftato di dritto. Poco dopo, una voleè di dritto vincente chiude il match: Ivan Lendl è il primo giocatore non americano ed il primo giocatore destro a vincere l'Open degli Stati Uniti. E' il nuovo numero uno del mondo, e tale rimarrà per 156 settimane consecutive. Seguiranno le vittorie nel 1986 e nel 1987, la drammatica finale del 1988 perduta contro Mats Wilander che gli costerà provvisoriamente la perdita della prima posizione mondiale ed ancora una finale nel 1989 persa contro Becker. Il "looser" avrà alla fine giocato 8 finali consecutive agli Us Open, come il solo Tilden era riuscito a fare in tempi ben diversi. Nonostante tutto questo, Ivan non riuscirà mai davvero ad entrare nel cuore del popolo tennistico americano. Se dopo il suo secondo trionfo nel 1986, Sports Illustated titolerà su Lendl "the champion that nobody cares about", gli sforzi di Ivan per essere più affabile, più disteso, più spiritoso, otteranno negli anni del suo declino qualche piccolo risultato: nel corso degli ottavi di finale contro Becker nel 1992, il pubblico, forse per la prima ed un ultima volta, prenderà le parti dell'ex-ceco divenuto da un paio di mesi cittadino americano. Ma il destino di Ivan sarà sempre quello di essere solo contro tutti, anche nella sua patria acquisita.

Wilander, Edberg e Becker, grandi emozioni a New York

Mats Wilander ha vissuto a New York il giorno più importante della sua carriera: già protagonista di una intensa finale contro Lendl nel 1987, raggiunge la finale anche nel 1988: questa partita è la realizzazione compiuta di tutta l'abnegazione, la costanza, ma sopratutto l'eccezionale intelligenza di Mats Wilander. Il ragazzino 17-enne che era partito nel 1982 a Parigi, raggiunse quella sera il punto di arrivo della sua ricerca: inferiore a Lendl nel servizio, nel dritto e nella potenza, vinse egualmente una fantastica finale dopo 4 ore e 55 minuti, con un capolavoro tattico senza precedenti. Mats, aveva da tempo affiancato al rovescio bimane anche un colpo ad una mano tagliato, ed aveva nel corso degli anni compiuto grandi progressi anche al volo. Con incredibile freddezza e straordinaria concentrazione, non sbagliò quella sera una sola scelta, sorprese più volte Lendl con discese e serve and volley, si dimostrò più coraggioso di Ivan (peraltro non in perfette condizioni) nella stretta finale e trionfò 6-4 al quinto, diventando il numero uno del mondo per 20 settimane. Mai nella sua carriera Wilander gioì come fece quel giorno. Una delle più indimenticabili serate di Flushing Meadows, ancora una volta teatro del punto focale della carriera di un grande campione.

Boris Becker vinse a New York nel 1989, e lo fece in modo folle, alla sua maniera: in finale piegò Lendl in 4 set vincendo entrambi i tiebreak del match, ma se potè giocare quella finale lo dovette al nastoò che, deviando un suo passante ed inducendo l'americano Rostagno all'errore, gli permise di annullare il secondo dei due matchpoint avuti dall'avversario.

A Stefan Edberg riuscì ciò che non era riuscito al suo leggendario connazionale Borg: trasformare il rapporto negativo con gli Us Open in un rapporto positivo. Fino al 1990 non riuscì mai a superare le semifinali, ma mise a segno una doppietta nel 1991 e nel 1992: nella prima occasione in finale annichilì Courier giocando il tennis più perfetto della sua carriera, nel '92 fu protagonista di un incredibile torneo che smentì definitivamente la leggenda secondo la quale lo svedese aveva classe ma non cuore e coraggio: vinse il titolo dopo essere stato indietro di un break nel set decisivo in ciascuno dei match giocati dagli ottavi alle semifinali. Incredibili in particolare il quarto con Lendl e la semifinale con Chang. Come fu per McEnroe e Wilander e come sarà per Pete Sampras, Flushing Meadows risulterà essere il luogo del suo ultimo sigillo nei tornei dello Slam.

Pete e Andre, i figli dell'America

Ci vorrebbe un libro per ricordare le infinite emozioni che i due grandi protagonisti, statunitensi, degli anni '90, hanno regalato a Flushing Meadows e le soddisfazioni che loro stessi hanno ricevuto dal torneo. Nel recente articolo scritto per il compleanno di Pete Sampras, ricordavo la vittoria del 1990 che fece conoscere a tutti il fenomeno Sampras e il drammatico quarto di finale del 1996, quando riuscì tra i conati di vomito a battere Corretja al tiebreak del quinto set, un'altra serata indimenticabile, nell'ultima edizione che vide il Louis Armstrong come campo centrale. Dopo lo straordinario quarto di finale del 2001 contro Agassi, nel 2002 Pete Sampras vincerà, stupendo tutti coloro che lo consideravano finito, un quinto ed ultimo Us Open, vincendo per la terza volta in tre finali giocate contro Andre Agassi. La grandezza di quella vittoria lo convincerà, dopo lunghe riflessioni, a fare di quel torneo non solo l'ultimo Slam vinto, ma l'ultimo torneo giocato. Un Sampras che a Flushing Meadows ha liberato le sue emozioni in maniera talvolta più esplicita di quanto non fosse solito fare altrove.

Andre Agassi a Flushing Meadows ha conosciuto gioie e dolori: se tre volte ha incontrato Pete Sampras in finale e tre volte ha perso, ha però vinto due titoli. Nel 1994 lo fece senza essere testa di serie, nel 1999 il secondo successo coronò la sua annata migliore, quella della vittoria a Parigi e del suo career Grand Slam. Difficile poi dimenticare lo straordinario torneo disputato da trentacinquenne nel 2005, con l'incredibile match vinto nei quarti su Blake 7-6 al quinto set e la finale persa con Federer. E' infine a Flushing Meadows, sull'Arthur Ashe stadium che Agassi ha giocato l'ultimo match della sua carriera contro Benjamin Becker, uscendo commosso tra la folla in delirio che gli tributava l'ultimo omaggio.

Federer, cinque anni di dominio, tre di incubi

Roger Federer ha letteralmente dominato l'Open degli Stati Uniti per cinque anni: ha cominciato nel 2004 ad entusiasmare il pubblico di New York e non ha per ora, ancora finito: tanti i momenti indimenticabili, dalla vittoria in 5 set con Agassi nel 2004 nei quarti, alla vittoria in finale con lo stesso Agassi nel 2005, fino ai tornei dominati del 2006 e del 2007. Importantissima poi l'ultima vittoria a Flushing Meadows nel 2008: Roger non aveva ancora vinto uno Slam quell'anno, ma diede un colpo di coda spinto dall'orgoglio dominando il giovane Murray in finale. Paradossalmente, nel catino dell'Arthur Ashe Stadium che tante gioie gli ha dato, ha anche vissuto negli ultimi tre anni cocenti delusioni: avanti due set a uno nel 2009 in finale, perde in cinque set con un Del Potro stratosferico e mai più visto, mentre gli ultimi due anni sono quelli delle due semifinali perse con Djokovic, in entrambi i casi con un paio di match point a disposizione. Nel 2011 in particolare, tutti lo ricordiamo, un match point gli viene cancellato da una risposta di Djokovic tirata ad occhi chiusi sulla riga. Un momento di delusione suprema, che segna la prima stagione priva di Slam vinti dal 2002 per Roger. Ma, forse, da quella triste giornata, è partita la riscossa di questo signore 31-enne che non finisce di stupire, riscossa cominciata con uno sfavillante autunno 2011 e proseguita con l'eccellente 2012, fino all'apoteosi del ritorno alla prima posizione mondiale e, sopratutto, del ritorno al trionfo in un major a Wimbledon quest'anno. Al di là della rievocazione storico-statistica su Federer a New York, mi sembra sia da sottolineare che la stima, l'ammirazione, in taluni casi addirittura il tifo a favore, ricevuti da Federer a Flushing Meadows anche in occasione di incontri contro giocatori di casa, abbiano evidenziato in modo particolare l'internazionalità e l'universalità dell'amore per Roger Federer, che sono senza precedenti nella storia del tennis.

La firma di Rafa e di Nole

Concludere la rassegna del rapporto tra Flushing Meadows ed i grandi campioni significa parlare di Rafael Nadal e Novak Djokovic. Il titolo ottenuto nel 2010 da Rafa Nadal a Flushing Meadows esemplifica meglio di ogni altro della sua carriera la volontà di ferro del giocatore di Maiorca, capace di vincere anche ad occhi chiusi sulla terra, a suo agio anche sulla rallentata erba degli ultimi Wimbledon, ma sempre a disagio sul cemento americano. Rafa per anni ha preso "sberle" a New York, ma due anni fa si è presentato a Flushing con l'arma in più di un miglioratissimo servizio ed ha domato un Djokovic che era sulla strada della sua in seguito inarrestabile progressione. La vittoria di Nadal agli Us Open è stata davvero la vittoria del lavoro, della fatica, della costanza più assoluta. Spiace pensare che quest'anno non ci sarà.

Nole Djokovic infine, ha sempre avuto con Flushing Meadows un buon feeling: fu la finale giocata da 20-enne contro Federer nel 2007 a mostrarlo davvero al grande pubblico, è stata la finale del 2011 vinta contro Nadal a consacrarlo definitivamente ed a consegnargli un'annata fenomenale e forse irripetibile.

34 anni di storia, di aerei rombanti nel cielo, di disordine, di colori, di folle impazzite, di caos ai cambi di campo, di tennis indimenticabile: tutto questo è Flushing Meadows!

Luca Pasta

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