18/10/2012 16:59 CEST - Recensioni

Dove ci portano "I silenzi di Federer"?

TENNIS - Andre Scala, filosofo francese studioso di Spinoza, rilegge il tennis. Ne "I silenzi di Federer" (ObarraO edizioni) il racconto dell'opposizione tra purezza del gesto e spettacolarizzazione tv. Alessandro Mastroluca

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I silenzi di Federer
I silenzi di Federer

Per un filosofo, il fascino dello sport sta nel rapporto unico che riesce a creare tra il corpo e lo spirito. Non fa eccezione “I silenzi di Federer” di Andrè Scala (ObarraO edizioni), studioso di Berkeley e Spinoza, co-sceneggiatore de Gli ultimi giorni di Kant. “Lo sport costituisce oggigiorno un modello dominante della costruzione del sé” scrive. Scala guarda al tennis come Pirandello guardava al teatro, il luogo in cui due “maschere nude” si disvelano e si rivelano attraverso gli scambi. Con la differenza rispetto al teatro che l'identità degli atleti in scena non è diversa da quella che portano a casa alla fine dello spettacolo. “Nel tennis”, scrive Scala, “il gesto e il gioco si fanno carico dell’espressione, per intero. Lo spirito dei giocatori, come quello degli eroi, è vuoto, totalmente al di fuori. I corpi nel tennis non devono parlare”.

Come ogni narrazione, e quella di Scala ha i tratti della narrazione, del racconto di un percorso che attraversa il tempo e lo spazio, al centro di questo pamphet c'è una dicotomia, c'è l'opposizione tra l'autenticità del gesto e le esigenze di spettacolarizzazione. “Il momento mediatico ha fatto la sua comparsa quando gli eventi sportivi hanno cessato di essere semplicemente teletrasmessi per diventare soprattutto televisivi”.

L'atleta ha sempre avuto bisogno del poeta, e il poeta dell'atleta da cantare. “Se sforzo trionfa, ecco il vocale / miele degl’inni, / preludio d’altra fama, pegno valido / di nobili prodezze” scriveva Pindaro. È il momento epico, che lega l'impresa e l'evento. Un legame che sparisce con la televisione che invade lo sport, che crea l'evento, gonfia l'impresa e cancella la narrazione. La stampa e la tv diventano lo sport, come scrive il filosofo Yves Vargas, e l'evento deve essere all'altezza delle aspettative, “del commento che l'ha reso evento ancor prima che lo fosse”. La televisione cancella il senso più alto della narrazione, che dà vita all'evento quando poche persone possono vederlo (Buzzati che racconta il Giro d'Italia del 1949): questa esigenza legata allo spazio, tanto quanto la funzione del poema era legata al tempo, a permettere la conservazione dell'impresa nella memoria, sparisce. E con essa sparisce la narrazione, sostituita dai primi piani e delle statistiche.

Ogni sportivo oggigiorno ingaggia due battaglie: contro il suo avversario e contro gli sguardi che lo consumano”. È la battaglia che vedeva Pasolini nei corpi dei ciclisti al Giro d'Italia all'inizio degli anni Settanta. Corpi che diventano “il luogo di un conflitto radicale tra la loro realtà esistenziale e l’irrealtà o la falsificazione alienante alla quale li consacra la 'cultura borghese di massa, i media' [:] un mezzo di comunicazione che vuole essere la scena di un’impresa senza essere lo spazio della sua gloria”.

Il tennis, per Scala, è uno sport per appassionati, più che per sostenitori. “L’appassionato soffre più del sostenitore perché qui non è in gioco solamente la squadra, la città, la maglia, ma il gioco in sé, qualcosa d’essenziale, non necessariamente eterno, bensì transitorio, mortale, che si manifesta in un gesto, in una postura in rapporto a questo gioco che viene ridefinito ogni volta, mai una volta per tutte”.

E' uno sport intrinsecamente lontano dalle logiche televisive e non tanto per la lunghezza imprevedibile delle partite. È uno sport silenzioso: “occorre aver sentito il silenzio dell’impatto della palla sulla racchetta di John McEnroe o di Vijay Amritraj. Il tocco si sente”. È uno sport muto che diventa spettacolo sonoro e parlante, in cui niente deve o dovrebbe sfuggire al linguaggio, al commento. Così, in questo “monologo del corpo sociale con se stesso”, come McLuhan definisce gli sport, compaiono il linguaggio del corpo, i pugnetti, i come on, i gemiti, gli sguardi verso “l'angolo”.

La storia del tennis disegnata da Scala è il racconto di un passaggio di tempo, dalla felicità dell'idea al piacere della tecnica. Dai primi tornei dell'era Open, scrive il filosofo francese, si potrebbe trarre una lezione: “la vittoria è prerogativa di chi eccelle nel gioco piuttosto che di chi attribuisce grande importanza alla competizione. Qualche anno più tardi, Björn Borg dimostrerà, per lungo tempo, il contrario”.

Con lo svedese, sosteneva Gilles Deleuze, uno dei maggiori filosofi del Novecento, è iniziata la proletarizzazione del tennis. “Certo una proletarizzazione relativa. È diventato uno sport di massa, di massa più del genere giovani dirigenti che proletari” scrive nel suo Abbecedario. “Ovviamente c’erano movimenti profondi perché potesse succedere, ma non sarebbe avvenuto se non ci fosse stato un genio, Borg. Perché? Perché ha portato lo stile di un tennis di massa. Uno stile di fondo campo, l’arretramento assoluto, il lift e palle alte sulla rete. Qualunque proletario lo può capire, qualunque impiegato può capire quel gioco, non dico che possano rifarlo… L’arrivo di Borg è stato straordinario, un grandissimo creatore per lo sport. E poi c’era McEnroe che invece era un aristocratico puro (…). Inventava colpi sapendo che nessuno avrebbe potuto imitarlo, era l’aristocratico che non può essere imitato…Difatti ha inventato colpi prodigiosi”.

Con McEnroe, prosegue Scala, il tennis ha avuto il suo 1984, un cambio di paradigma di sapore orwelliano nell'anno che più orwelliano non si può. “Una domenica di giugno del 1984 al Roland Garros, una volée alta, impossibile da sbagliare, di McEnroe finiva in rete e segnava l’inizio del dominio di Ivan Lendl. McEnroe sconfitto da Lendl, ciò aveva ben altro significato rispetto a una sconfitta contro Borg, o perfino contro Connors. Lendl è colui che ha fatto entrare il tennis nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. E' il lato techno del tennis, che con i nuovi attrezzi regala facilità di esecuzione e premia la fatica fisica. Nella dicotomia tra la bellezza e l'industria si giocano, per Scala, le due grandi rivalità del tennis moderno, due rivalità che hanno al centro quelli che definisce tennisti neoclassici: Sampras (contro Agassi) e Federer (contro Nadal).

Il tennis evolve a volte attraverso grandi sintesi. E Sampras e Federer ne sono due chiari esempi. Non hanno cambiato il tennis, come hanno Connors o Borg o McEnroe, hanno sintetizzato e portato a un livello superiore le qualità dei campioni che li hanno preceduti. Hanno partecipato al respiro della storia, hanno riscritto una Weltanschauung, lo spirito del loro tempo, con i giganti del loro sport sulle spalle. “I colpi che Federer gioca sembrano allo stesso tempo sopraggiungere e sopraggiungergli”.

Nell'accordo con se stesso, nel messaggio di eccellenza e compiutezza che lancia, anche per l'assenza di un coach, per Scala Federer comunica una lezione precisa: “gioca meglio a tennis perché gioca meglio il tennis”. Ma se non ha un coach, ha certamente un demone. “Sembra posseduto da una preoccupazione cosmica, l’avversario è portato a pensare che stia meditando su qualcosa di ben più importante di quello che sta avvenendo in campo. Federer dà costantemente l’impressione – tra due colpi, due scambi, al cambio di campo – di guardare oltre le tribune, di avere lo sguardo perso nel vuoto, di non vedere niente, di pensare senza curarsi del match, di pensare a tutt’altro che al diritto appena sbagliato o riuscito. Inoltre, “i suoi movimenti fluidi, eleganti, che producono un’impressione di facilità, lasciano altresì credere di tendere ad altro che alla disputa del punto”.

Nella rivalità con Nadal c'è la tensione tra estetismo e stoicismo. Nadal è “architetto della durata, in primis nel presente, il presente della lotta, la sensazione dello scontro”. Il suo stile di gioco “richiede altresì la durata, il tempo di costruire i punti”. Nadal è indifferente all'oggetto e alle condizioni del gioco, il suo raggio d'azione coincide con le necessità originate dal gioco, con le sue regole. “Gioca a tennis come l’arciere tira con l’arco, l’arciere degli stoici che distingue lo scopo (il bersaglio) dal fine (tutto ciò che va fatto per raggiungere il bersaglio). Il fine del suo scopo è lo scopo stesso; lo scopo di Nadal, è semplicemente quello di giocare a tennis”.

Federer afferma una storia del tennis, non inventa né colpi né gesti, inventa un rapporto nuovo tra gesto e movimento grazie al suo gioco classico. “Classico non vuol dire nostalgico o antiquato, Federer non gioca all’antica, gioca il tennis per definizione, ne affronta la molteplicità, la varietà ed è in grado, il più delle volte, di cavarsela. Classicismo che appartiene anche all’atteggiamento: nessuna concessione al visivo, al plastico, al di fuori del suo gioco”.

Federer non introduce elementi altri nel suo modo di giocare a tennis, gioca a tennis conducendo lo spettatore verso elementi altri. Interessante, a questo proposito, il paragone con Cruyff e l'Ajax del calcio totale. “Cruyff ha cambiato il concetto di felicità in Olanda”. Elementare, generatore di moto, sinuoso nel cuore del flusso e riflusso di una squadra che si muove a immagine e somiglianza di una nazione, come scriveva Claudel. Una nazione che una volta al giorno è sommersa e una volta al giorno si svuota delle acque del mare, una nazione che si rispecchia e si racconta in una squadra, in una nazionale che si muove con l'elasticità segreta di una respirazione. Resta una domanda allora: verso cosa ci conduce il tennis di Roger Federer?

La risposta nelle pagine di Andre Scala.

Alessandro Mastroluca

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