30/10/2012 13:20 CEST - Personaggi

Chi seguirà Stefanki dopo Roddick?

TENNIS - Dopo Roddick, Stefanki ha in progetto l'aprire un'accademia, ma non ha ancora del tutto accantonato l'idea di rimettersi su piazza se arrivasse la proposta giusta. Ma chi: Dolgopolov, Harrison o altri? Stefano Pentagallo

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Larry Stefanki (Julian Finney, Getty Images)
Larry Stefanki (Julian Finney, Getty Images)

Un paio d'anni fa su "The Wall Street Journal" apparve un articolo in cui Tom Perrotta s'interrogava sul mestiere del coach, chiedendosi: "È il lavoro peggiore nel mondo dello sport?"

Ne emergeva che quello che all'apparenza può sembrare un ruolo affascinante, di prestigio, altro non è che una sporca routine: prenota il campo d'allenamento; spingi il tuo giocatore ad andare in palestra e sul campo per cinque ore al giorno, sotto al sole; conta le calorie e pianifica i pasti. Non è tutto. Sopporta, con pazienza: l'irascibilità, i lamenti, le racchette lanciate al suolo, gli sbalzi d'umore. Questo nonostante sulle proprie spalle incomba già il peso di oltre quaranta settimane trascorse lontano dalla famiglia e dagli amici tra tornei ed allenamenti.

In compenso, la paga non è neanche lontanamente paragonabile a quella percepita da coach di altri sport come il basket o il football americano. In media si parla di circa 50.000 dollari l'anno nel tennis maschile, più le spese, ed anche meno nel tennis femminile, esclusi i bonus basati sul raggiungimento dei vari obiettivi. Una realtà vissuta da buona parte degli allenatori. A meno che tu non sia un coach di alto livello ed il tuo nome non sia Larry Stefanki.

Chi è Larry Stefanki?
Larry Stefanki nasce a Elmhurst, nell'Illinois, il 23 luglio del 1957. Ultimo di tre fratelli, segue le loro orme iniziando la sua carriera di giocatore e allenatore di tennis una volta trasferitosi a Los Altos con la sua famiglia.

"Vivevamo di fronte alla Los Altos High School; lì i miei fratelli più grandi hanno iniziato a giocare ed io ne ho seguito l'esempio," spiega Stefanki.

Nonostante nutra una grande passione per il baseball, il basket ed il wrestling, è nel tennis che Larry trova la sua vera dimensione, come egli stesso racconta: "Il tennis si adattava perfettamente a me, amavo ogni sua parte - dalle regole alla geometria di dover giocare all'interno di un perimetro rettangolare - non invecchia mai."

Con la Los Altos High School inizia a partecipare ai tornei juniores NorCal (USTA Northern California) ma è al Foothill College che si mette in luce al suo primo anno di college, come matricola, diventando il primo giocatore a vincere in un anno i Campionati di Stato sia in singolare che in doppio. Trasferitosi all'Università di Berkeley per la triennale, si guadagna una menzione d'onore nel team All-American, composto ogni anno dai giocatori di college che più si sono distinti in una singola stagione.

È il 1979 quando inizia a partecipare ai primi tornei professionistici. La sua carriera vive di due momenti topici. Nel 1981 vince il suo primo torneo ATP a Lagos, in Nigeria, ma è nel 1985 che compie il suo capolavoro. Siamo a febbraio e si gioca a La Quinta, nel torneo che sarebbe poi diventato Indian Wells. Stefanki, allora numero 143 del mondo, entra in tabellone grazie ad una wild-card. Battuto all'esordio il qualificato americano Kelvin Belcher, inizia la sua sorprendente quanto inaspettata scalata, a tal punto che Weller Evans, vice presidente esecutivo dell'ATP, non può credere ai suoi occhi. "Ho continuato a vedere nomi come Greg Holmes e Larry Stefanki andare avanti round dopo round e ho pensato, 'Aspetta un attimo, qualcosa non va.'" Invece è tutto vero, Stefanki mette in fila uno dietro l'altro giocatori più quotati di lui, tra i quali spiccano le teste di serie numero 7 e 12, Juan Aguilera e Scott Davis, e arriva a giocarsi il titolo contro David Pate. In finale, Stefanki, ha la meglio in quattro set, 6-1, 6-4, 3-6, 6-3, sollevando, così, il suo secondo ed ultimo trofeo in singolare ed intascando la bellezza di 51.000 dollari, una cifra neanche lontanamente paragonabile ai guadagni odierni ma che allora rappresentava una somma considerevole.

Quella vittoria lo proietta al suo best ranking (No.35) e, probabilmente, gli allunga la carriera più del previsto. L'addio al mondo del professionismo arriva nel 1987, a distanza di nove anni, ma più che un addio è un arrivederci. Nella sua testa Larry già pensa ad un futuro da coach.

Della sua carriera da giocatore, dirà: "Niente è come giocare. Mi è piaciuto tanto viaggiare e competere; mi sarei iscritto a qualsiasi torneo se avessi potuto, in tutto il mondo."

Il passaggio da giocatore a coach
Quattro sono gli uomini chiave nella formazione da giocatore e allenatore di Stefanki: Tom Chivington, conosciuto ai tempi del Foothill College ("I miei fratelli andavano al Foothill così io conobbi Tom quando avevo dieci o undici anni. Tom è una persona davvero speciale; lui capì quanto ero competitivo. Credeva in te e tu in lui e queste sono le qualità di cui ha bisogno un coach," ricorda Stefanki), Bill Wright, che l'ha avuto quando era a Berkeley, Tom Stow, coach del Northern California che più di tutti l'ha aiutato a migliorare i suoi fondamentali e John Brodie.

Quest'ultimo, John, è il padre di Kelly, la sua attuale moglie. Si conoscono quando Larry è ancora un ragazzino. A quei tempi Brodie gioca come quarterback con i San Francisco 49ers, squadra della National Football League, ed è lui a trasmettere a Stefanki un livello di professionalità e competitività fuori dalla portata di molti.

"Bisogna prefissarsi un certo standard e accontentarsi di niente di meno," spiega Brodie.

Stefanki fa di questa filosofia un motto, come spiega Tom Tucker, allenatore nonché suo amico di vecchia data: "Lui non è lì per dire ai suoi giocatori quello che vogliono sentirsi dire. I giocatori tendono ad essere circondati da tutti yes-man, mentre invece Larry gli dice esattamente dov'è che sta la realtà, che loro vogliano saperla oppure no."

Questo non vuol dire che non instauri con i suoi giocatori un rapporto che vada anche oltre la semplice correlazione tra giocatore ed allenatore, anzi è proprio in quei momenti che un buon coach sa come farsi ascoltare. "Larry è molto bravo nei rapporti interpersonali con i giocatori," dice Tom Gullikson, ex capitano degli Stati Uniti di Davis ed ex coach, tra gli altri, di Jennifer Capriati. "Si può far recepire meglio un messaggio tornando a piedi da un film o seduti davanti ad una birra, quando il giocatore non ha la stessa probabilità di essere sulla difensiva come invece è probabile che sia in campo. È subdolo, ma efficace."

Alla fine l'obiettivo è solo e soltanto uno. "Bisogna trovare un modo affinché il giocatore condivida il tuo stesso punto di vista, non importa quanto tempo ci voglia," spiega Stefanki. "E quando ciò avviene, non ho mai detto, 'Questo è quello che ti sto dicendo da due anni e mezzo!' Io dico: 'Oh, davvero? Hai intenzione di provarci?'"

Una strategia che è alla base del successo di Stefanki.

Dall'inferno al paradiso
Tutti conosciamo Larry Stefanki per essere un coach di successo, ma la sua storia parte dal basso. Con intraprendenza.

Il primo incarico arriva agli inizi degli anni '90 per guidare il baby-fenomeno Tommy Ho, messosi in luce a livello junior per aver stabilito numerosi record di precocità, tra cui spiccano quelli come giocatore più giovane di sempre, tra gli uomini, ad essere entrato nel main draw degli Us Open all'età di 15 anni e 2 mesi (perse al primo turno da John Kriek 6-4, 7-6, 7-6) e giocatore più giovane di sempre, sempre tra gli uomini, ad aver vinto un match in un torneo della categoria Grand Prix - l'equivalente degli attuali Master 1000 -, a Rye Brook, battendo al primo turno Matt Anger 6-4, 3-6, 6-4 (sempre a 15 anni e 2 mesi). All'epoca la paga di Stefanki era bassa, circa 1.000 dollari a settimana.

Le cose, però, sono destinate a cambiare, merito anche del fratello di Larry, Steve Stefanki. Alla fine degli anni '80, Steve aveva inviato una serie di lettere a John McEnroe, la cui attenzione era stata distolta dal tennis con il matrimonio e la paternità.

"Gli ho scritto dicendogli che sapevo che aveva ancora qualcosa da dare," racconta Steve. "Se vorrai chiamarmi, ti dimostrerò come tornare quello che eri in dieci minuti."

Un atteggiamento sfrontato, comune ai Stefanki. Nel 1991, McEnroe gioca un match d'esibizione contro Andre Agassi a Los Angeles, un evento a cui presenzia anche Larry Stefanki in qualità di talent scout. L'incontro vede "Super Brat" perdere in men che non si dica, 6-2, 6-1. Giunto all'aeroporto McEnroe viene avvicinato da Stefanki che, senza troppi peli sulla lingua, lo invita immediatamente a ritirarsi. Forse memore di quelle lettere alla quale non rispose mai, ma che probabilmente lesse, McEnroe il giorno seguente decide di invitare Larry nella sua villa a Malibu, ignaro che ad inviargli le lettere fu il fratello Steve. Cinque ore più tardi il giovane ed inesperto Stefanki si ritrova a rivestire la carica d'allenatore di uno dei più grandi talenti, forse il più grande, che abbia mai calcato un campo da tennis.

"Eccomi qui, alla fine del '91, con tre figli e l'intenzione di giocare meno, proprio nel momento in cui l'ATP stava cercando di convincere i suoi migliori giocatori a giocare di più," racconta McEnroe. "Sentivo come se Larry poteva capire quel che provavo. Mi disse di dimenticarmi della classifica e di concentrarmi solo sui grandi eventi. Lui era fondamentalmente nuovo al coaching e sentivo che sarebbe stato un buon allenatore. Sapevo che lavorare con me sarebbe stato per lui un trampolino di lancio, e che mi avrebbe dato rinnovata energia, e questo è essenzialmente quel che successe."

La prima tattica di Stefanki è quella di far vedere a McEnroe le immagini del McEnroe che fu. Un piano che si va a scontrare con le esitazioni dell'americano, che alla vigilia della partenza per gli Australian Open si convince.

"John era un giocatore che si basava sulle sensazioni ed il miglior modo per fargliele tornare era mostrargli com'era quando le aveva," rivela Stefanki.

Una scelta che segna la rinascita di Johnny Mac, al punto che a Melbourne, neanche due settimane dopo, torna nei quarti di finale in uno Slam prima di perdere da Wayne Ferreira.

Il rapporto di collaborazione tra McEnroe e Stefanki va avanti per un anno con ottimi risultati. In singolare l'americano raggiunge la semifinale a Wimbledon (sconfitto da Agassi), ma è in doppio che si toglie le maggiori soddisfazioni trionfando proprio a Wimbledon (insieme a Michael Stich), oltre che al Masters Series di Parigi insieme al fratello Patrick. A fine stagione partecipa, regalando un punto ai suoi Stati Uniti, nel vittorioso tie della finale di Coppa Davis contro la Svizzera (in doppio con Sampras battono Jakob Hlasek e Marc Rosset rimontando uno svantaggio di due set: 6-7, 6-7, 7-5, 6-1, 6-2). È il passo d'addio per McEnroe e, così, anche per Stefanki, che dovrà attendere tre anni prima di tornare ad allenare.

Siamo nel 1995 e ad assumere, Larry, è un giovane cileno di belle speranze, dal talento tanto cristallino quanto strafottente. Si chiama Marcelo Rios, è il numero 103 del ranking ed è reduce da nove eliminazioni negli ultimi dieci tornei tra primo e secondo turno.

A prendere la decisione di puntare forte su Stefanki in qualità di coach sono il padre ed il manager di Rios. "Il padre di Marcelo ed il suo agente percepivano che John (McEnroe) aveva la personalità più difficile del pianeta," ammette Stefanki. "Pensarono che se ero stato in grado di lavorare così bene con John, con questo ragazzo sarebbe stato facile."

Il primo giorno che si incontrano Rios appare demotivato, svogliato, così Stefanki decide di pungerlo nell'orgoglio, lo provoca. Lo sfida ad una partita. "Tu sei il numero 1 del mondo junior, e non riesci a battere neanche un vecchio come me," gli dice Stefanki. Il piano funziona, Rios non la prende troppo bene e fa di Stefanki un sol boccone. "Non sbagliò neanche una palla," ricorda Stefanki.

È da qui che parte la scalata in classifica di Rios. La crescita è costante, anche se per togliersi le prime soddisfazioni bisogna attendere un paio d'anni. A Montecarlo, nel '97, vince il suo primo Master Series, ma è l'anno dopo che raggiunge l'apice del suo successo. Con Stefanki ancora al suo fianco raggiunge la finale degli Australian Open (sconfitto da Korda) e diventa il quarto giocatore della storia - dopo Courier nel '91, Chang nel '92 e Sampras nel '94 - che riesce nell'impresa di centrare la doppietta Indian Wells-Miami. Di lì a poco diventa numero uno del mondo per la prima volta in carriera. A Roma il binomio Rios-Stefanki si toglie l'ultima soddisfazione insieme, prima che il loro rapporto si interrompa bruscamente, in maniera piuttosto burrascosa. A Rios interessa solamente il successo e tutto quel che gli ruota attorno: sponsor, soldi e fama; a Stefanki interessa la gloria.

"Questo ragazzo, quando era al meglio, vedeva il campo come McEnroe. Poteva creare angoli che il tennis non aveva mai visto. La differenza era che a Marcelo non importava vincere o perdere. Amava fare colpi sensazionali, fregandosene di quale fosse il momento più opportuno per farli," aggiunge Stefanki. "Era soddisfatto solo di arrivare al numero uno, ma gli ho sempre detto che non mi interessavano i venticinque milioni di dollari che aveva guadagnato, io volevo i Grandi Slam. Ecco come si misura il successo."

La vendetta, però si sa, è un piatto che va servito freddo. Stefanki si prende una doppia rivincita su Rios: una, indiretta, visto che senza di lui il cileno non riuscirà neanche più a raggiungere una finale Slam in carriera; l'altra, diretta, quando siede all'angolo di Yevgeny Kafelnikov.

Lo scenario è quello di Indian Wells, al primo turno si affrontano proprio Yevgeny Kafelnikov e Marcelo Rios. Il russo vince il primo set, 6-4, approfittando di un doppio fallo del cileno e si ripete anche nel secondo, deciso sulla distanza di un solo break. L'errore con cui Rios affossa in rete la palla che regala a Kafelnikov il 7-5 finale sa tanto di sentenza. L'ultima silenziosa parola ce l'ha Stefanki. Dietro a quel sorriso con cui accoglie il risultato si cela un profondo senso di rivalsa, le urla dell'anima trattenute a stento.

Con Kafelnikov anche il rapporto è piuttosto tormentato. Quando iniziano a lavorare insieme, nel '99, il russo è undicesimo nel ranking, a differenza di Rios è già qualcuno. Ha vinto il Roland Garros tre anni prima, vivendo per continuità di risultati la sua migliore stagione in carriera. Col tempo, però, le motivazioni calano e a Stefanki tocca il difficile compito di invertire la rotta. Pronti, via, agli Australian Open Kafelnikov si aggiudica subito il suo secondo titolo dello Slam e ad aprile diventa numero uno del mondo per la prima ed unica volta in carriera. Una posizione che occuperà soltanto per sei settimane, continuando comunque a mantenersi stabilmente tra i primi dieci fino all'interruzione della collaborazione con Stefanki, arrivata nel 2001 subito dopo il torneo di Roma. Già nel 2002 il russo chiuderà l'anno al numero ventisette.

L'ambizione, l'impegno e la voglia non sono più quelli che, nel 2000, lo portano a disputare un'altra finale agli Australian Open, questa volta persa per mano di Agassi, e a conquistare l'oro olimpico a Sidney battendo Tommy Haas.

Condizioni, quelle sopracitate, dalla quale non si può prescindere e che portano ad una inevitabile separazione. "Ad essere onesti non penso che la passione per questo gioco sia ancora nel suo cuore," dirà Stefanki. "Era arrivato ad un punto in cui niente di quel che dicevo o facevo faceva alcuna differenza. Lui non era disposto a modificare il suo gioco per continuare a migliorare, come i migliori atleti fanno. Non voleva smettere, ma abbiamo parlato per molto tempo, e gli ho detto che se devo stare lontano da casa per un mese, preferisco lavorare con qualcuno ambizioso, qualcuno che voglia raggiungere la vetta."

E quel qualcuno Stefanki lo trova in Tim Henman. L'inglese è reduce dalla bruciante sconfitta in semifinale a Wimbledon contro Goran Ivanisevic. Senza una guida da circa tre mesi decide, così, di affidarsi all'americano. I due iniziano a lavorare su alcuni cambiamenti tecnici e tattici che danno ad Henman, per sua stessa ammissione, "una dimensione extra al mio gioco".

Nei due anni trascorsi insieme Henman raggiunge il suo best ranking al numero quattro ma non riesce a sfatare il tabù Wimbledon, dove deve accontentarsi della sua quarta ed ultima semifinale raggiunta sui sacri prati dell'All England Lawn Tennis and Croquet Club, sconfitto da Lleyton Hewitt.

I risultati sono buoni ma non eccelsi, le vittorie nei tornei di Basilea, Adelaide e Washington non bastano ad evitare un lento crollo in classifica da parte di Henman, che inizia il 2003 da numero nove e decide di separarsi nel settembre dello stesso anno da Stefanki quand'è numero trentanove.

Dopo nove anni passati ininterrottamente sul Tour, Stefanki decide di prendersi una pausa. Una pausa bella lunga, della durata di tre anni. In pochi sanno che in quel periodo gli si prospetta la possibilità di allenare Andy Murray ma alla fine non se ne fa nulla. È solo questione di tempo, però, prima che arrivi la proposta giusta.

Nel 2006 si rivolge a lui "Mano de Piedra" Fernando Gonzalez in cerca di qualcuno che possa aiutarlo a migliorare il suo gioco. Stefanki viene subito colpito dalla determinazione del cileno e accetta, così, di sedere al suo angolo.

"A 25 o 26 anni Fernando era ancora disposto ad apportare dei cambiamenti al suo gioco." Il frutto del lavoro è evidente sin da subito: Gonzalez diventa di colpo più solido e migliora anche dal lato del rovescio, suo lato debole, affidandosi non più sistematicamente allo slice.

Sul finire di stagione raggiunge una dietro l'altra la finale a Vienna, Madrid e Basilea pur uscendo sempre sconfitto. L'exploit maggiore arriva all'inizio del nuovo anno, agli Australian Open, dove mette in riga Korolev, Del Potro, Hewitt, Blake, Nadal e Haas prima di perdere in finale da Roger Federer. Un risultato, questo, che gli permette di raggiungere il suo best ranking in quinta posizione. È il quarto giocatore a tagliare un simile traguardo con Stefanki allenatore, dopo Rios, Kafelnikov ed Henman. L'anno prosegue con la finale nel Master Series di Roma, persa con Nadal, e con la vittoria nel torneo di Pechino, battendo Robredo. Agli Australian Open 2008, Gonzalez, non riesce a ripetere l'impresa dell'anno precedente perdendo, così, punti pesanti in classifica, ma fino alle Olimpiadi di Pechino gioca comunque una buona stagione, vincendo i tornei di Vina Del Mar e Monaco di Baviera e conquistando a sorpresa la medaglia d'argento a Beijing (sconfitto da Nadal). L'eliminazione al quarto turno agli Us Open per mano di Andy Roddick rappresenta per Stefanki una sorta di passaggio di consegne.

Con Gonzalez, infatti, Stefanki sente di aver terminato il proprio lavoro, di non avere nient'altro da dare, nient'altro da aggiungere per poter migliorare il gioco del cileno. Ci sta, fa parte del normale ciclo allenatore-giocatore. Così, decide di tentare una nuova sfida.

I due si lasciano senza alcun rimorso, il rapporto d'amicizia che si è instaurato negli anni è solido come non mai, Gonzalez ha solo parole buone per Larry: "Nella mia carriera i miei migliori ricordi sono con Larry. È stato il miglior coach che io abbia mai avuto. Mi ha insegnato tanto sul tennis. Con lui ho imparato a vincere anche quando non giocavo il mio miglior tennis. Larry è un grande allenatore, specialmente quando stai cercando di arrivare al top."

Chi punta a tornare al top è Andy Roddick, perché come diceva proprio Stefanki il successo non sta nella posizione che si occupa in classifica ma nei risultati ottenuti negli Slam. E nei major Andy non si spinge oltre la semifinale da ben due anni, una situazione che un giocatore dal suo temperamento non può accettare. A 28 anni decide di fare sul serio, di migliorarsi piuttosto che vivacchiare nel tour fino al ritiro e chi meglio di Stefanki può aiutarlo.

L'inizio della loro collaborazione, avvenuta nel novembre del 2008, fa registrare cambiamenti tecnici consistenti nel gioco dell'americano. La perdita di peso, unita ad una maggiore intelligenza tattica, ad un'inedita solidità nel rovescio e ad un uso più ragionato della già fenomenale arma del servizio, fanno compiere a Roddick il salto di qualità.

"Quando abbiamo cominciato a lavorare insieme non era per nulla familiare con concetti come la traiettoria dei colpi, l'alternanza delle rotazioni e la teoria degli angoli. Ora sta diventando un giocatore multidimensionale, capace di usare tutte le armi di cui dispone e di scegliere di usarle a seconda della situazione. Ci sono un sacco di giocatori di 'ping-pong' là fuori, ma i veri campioni sono multidimensionali, ed è ciò che Andy sta diventando," spiegava Stefanki, dopo la vittoria di Roddick nel Master 1000 di Miami nel 2010, ignaro del fatto che quello sarebbe stato l'ultimo grande risultato raggiunto insieme.

Quei miglioramenti di cui parla il coach americano, però, son ben visibili già durante il primo anno in cui lavorano a stretto contatto. Difatti, a distanza di due anni, Roddick torna in una semifinale dello Slam, agli Australian Open, battuto soltanto da Federer. In quella stagione, Roddick raggiunge quasi sempre le fasi finali nei tornei in cui partecipa e perde sempre dai migliori (Federer, Nadal, Murray, Del Potro). O quasi sempre. A Wimbledon, questa volta, batte un po' a sorpresa Andy Murray in semifinale e torna, così, a giocarsi il titolo dopo quattro anni. È la sua terza finale a Londra, le precedenti le ha sempre perse contro Roger Federer. E il destino vuole che il suo avversario sia ancora una volta lo svizzero.

La partita è senz'altro la più bella ed intensa messa in scena dai due. Nel primo set Roddick sorprende Federer chiudendo il parziale per 7-5, dopo aver annullato quattro palle break sul cinque pari. Il match prosegue sui binari dell'equilibrio anche nel secondo, che trova la sua inevitabile conclusione nel tiebreak. Qui l'americano vola prima sul 5-1 e poi sul 6-2, ma è incredibile come fallisca tutti e quattro i set point, soprattutto l'ultimo spedendo larga una comoda volèe alta di rovescio. Federer, allora, decide che non è il caso di farsi pregare due volte e per otto punti a sei finisce per aggiudicarsi la seconda frazione. È ancora un tiebreak a decidere il terzo set e ancora una volta lo vince Federer, questa volta per 7-5, dopo essere salito sul 5-1. Quando tutti pensavano che l'americano avrebbe accusato il colpo, ecco che pareggia il conto dei set vincendo il quarto 6-3. Il quinto ed ultimo parziale non prevede il tiebreak e, così, le emozioni si susseguono una dietro l'altra. Federer ha il vantaggio di servire per primo, questo fa sì che Roddick sia costretto a servire per restare nel match più e più volte a partire dal 5-4 per lo svizzero. In tutto saranno dieci le volte in cui Andy dovrà servire indietro d'un game. Sul 15-14 Federer, Roddick non sfrutta due palle per pareggiare il punteggio e finisce per concedere la sua prima palla break del set, che è anche un match point. Dopo quattro ore e sedici minuti, Roddick cede il servizio per la prima volta in tutto il match e si arrende ancora una volta al suo destino.

Neanche tornare tra i primi cinque giocatori del mondo può alleviare la ferita non di una singola partita ma di un'intera carriera, quella di non essere riuscito ad inscrivere il proprio nome nell'albo d'oro di Wimbledon. Per lui le opportunità sono finite, a Londra come negli altri Slam.

Il resto è storia recente. Agli Us Open di quest'anno Roddick ci fa sognare un'ultima volta, partita dopo partita. A sancire il suo addio al tennis giocato è Juan Martin Del Potro. È proprio vero, non apprezzi mai le cose che hai finché non le perdi.

I progetti futuri
Calato il sipario sulla carriera di A-Rod, Stefanki è tornato in California, a La Quinta dove risiede, per un periodo di meritato riposo. Ai suoi doveri d'allenatore ha sostituito quelli di padre, al seguito del figlio Joe, al suo ultimo anno di scuola, catcher nella squadra di baseball delle superiori.

"È un momento speciale per me," ha dichiarato Stefanki. "Quelli dei miei primi due figli sono ormai lontani, e questo è l'ultimogenito. Con questo non sto dicendo che sono in pensione," ha aggiunto Stefanki. "C'è ancora qualcosa nella mia anima che mi spinge ad allenare ad alto livello."

Finora, però, le uniche telefonate ricevute da Stefanki sono arrivate perlopiù da genitori di junior. In futuro c'è l'intenzione di aprire un'accademia, anche se "c'è bisogno di due, tre allenatori per fare una cosa simile. È molto gratificante, ma non è un passo che sono disposto a compiere in questo momento."

In questo momento c'è ancora quel fuoco che gli arde dentro, quel fuoco che lo spingerebbe a "sacrificare" di nuovo la propria famiglia se arrivasse l'opportunità giusta.

"Non è mai finita, finita," ha spiegato Stefanki. "Ce l'ho nel sangue. Andy mi ha detto 'Sei un ergastolano'. Io gli ho risposto 'No'. Mi piace quando qualcuno vuole sfidare sé stesso. Non importa se è 20, 25, 30 del ranking, non è una questione di numero. 'Ho giocato tante volte contro i tuoi giocatori, mi hai visto. Cosa ne pensi?' ecco come Fernando (Gonzalez) mi ha avvicinato. Gli ho risposto: 'Non importa quello che penso io. Cosa ne pensi tu?'"

"Questa è la cosa più importante, perché parliamo di un gioco individuale," ha continuato Stefanki. "Bisogna guardarsi allo specchio e dire, 'Ho bisogno d'aiuto.' Non cose del tipo, 'Sto guadagnando 1, 2 milioni di dollari l'anno e mi basta questo.'"

Ma quale potrebbe essere il giocatore che corrisponde al profilo tracciato da Stefanki e che sarebbe disposto a rimettersi in gioco sfidando sé stesso verso nuovi importanti traguardi?

Cinque nomi per un solo uomo
No. 18 Alexandr Dolgopolov: Potenzialmente l'ucraino è uno dei giocatori di maggiore talento presenti nel circuito, con una varietà di colpi che è merce rara nel tennis d'oggi, ma al contempo è anche uno dei giocatori più discontinui. Fresco di separazione dall'australiano Jack Reader, colui che l'ho allenato per quattro anni portandolo ai massimi livelli del ranking ATP, Dolgopolov potrebbe affidarsi ora a Stefanki, che potrebbe aiutarlo a sfruttare al meglio l'arsenale di cui dispone. Educarlo ad avere anche un piano di gioco non sarebbe certo impresa facile, ma nessuno più di Stefanki ha le qualità per riuscirci.

No. 23 Sam Querrey: Sul piano tecnico Querrey ricorda per caratteristiche alcuni dei precedenti giocatori allenati in carriera da Stefanki. Grande potenza, grande servizio, grande dritto. Vi ricorda qualcuno? Inoltre, per la tendenza di Stefanki ad allenare giocatori già all'apice della loro carriera - Querrey attualmente è numero 23 del mondo, ad un passo dal suo best ranking al numero 17 - Sam potrebbe essere uno dei maggiori indiziati ad avere Stefanki come suo prossimo coach, a patto che l'americano riconosca di volersi migliorare e di aver bisogno di un nuovo coach per riuscirci.

No. 49 Bernard Tomic: Considerato da molti come il prospetto più interessante tra le nuove leve, l'aussie ha vissuto una stagione deludente sul piano dei risultati, con ben dieci sconfitte raccolte al primo turno, e sul piano del gioco le cose non sono andate tanto meglio. È passato più di un anno da quando Tomic sorprese tutti raggiungendo i quarti a Wimbledon da qualificato, eppure, da allora, non ha fatto un solo passo avanti. Il carattere fumantino, che l'ha portato più volte a delle intemperanze fuori dal rettangolo di gioco, poi non è certo d'aiuto. Perciò avrebbe bisogno di una guida, di un allenatore capace di raddrizzarlo, di farlo migliorare e che possa permettergli di esprimersi continuativamente sui livelli che ha già dimostrato di saper esprimere.

No. 55 Grigor Dimitrov: Bisogna dimenticarsi la pesante etichetta di "baby Federer", perché così non si va da nessuna parte. Il talento c'è ed è inutile negarlo, ma va affinato. E chi meglio di Stefanki è in grado di riuscirci? Larry ha già dimostrato in passato con uno come Rios di saper lavorare e sviluppare il talento inespresso. Come il cileno, anche il bulgaro sembra accontentarsi più della forma che non della sostanza. L'esperienza di Stefanki potrebbe essere determinante per il futuro di Dimitrov, la cui carriera pare sempre più appesa ad un filo. C'è però bisogno che il ragazzo si convinca ad abbandonare la via dell'anonimato per cercare di inseguire quella carriera che il suo talento meriterebbe.

No. 66 Ryan Harrison: L'americano potrebbe beneficiare di una sorta di corsia preferenziale, per l'amicizia che lo lega all'ex pupillo di Stefanki, Andy Roddick. Harrison rappresenta, forse, l'esempio più calzante di tutto quello che un giovane atleta dovrebbe possedere sotto il profilo caratteriale. Non avrà il talento naturale di Dimitrov e le qualità di Tomic, ma la sua ambizione e la sua voglia d'arrivare ad ogni costo potrebbero convincere Stefanki ad aiutarlo a sopperire ai suoi limiti tecnici. Dopo una stagione incolore, con Larry al suo fianco, potrebbe finalmente puntare al salto di qualità.

Stefano Pentagallo

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