30/01/2013 13:55 CEST - AUSTRALIAN OPEN 2013

Nella terra dei n.1 la più epica non la conosce nessuno

TENNIS - Hanno vinto gli Australian Open le tds n.1 dei due singolari e dei due doppi. Ma anche quella del wheelchair femminile, forse la storia più bella. Federer e Serena eroi che non cadono mai. Riccardo Nuziale

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Aniek Van Koot
Aniek Van Koot

IL BUONO, IL SIMPATICO E L’ANTIPATICA
Una volta un mio professore della sfiorita gioventù, noto retifista (feticista dei piedi, informazione per i più puri di cuore) e spudorato donnaiolo, in irritata risposta all’allora dilagante moda delle ragazze di uscire con vestiario che facesse vedere o intravedere la pancia, affermò in aula come una caviglia sa essere ben più erotica di un ombelico.

Sarebbe interessante chiedere a Victoria Azarenka se abbia intrapreso la via del culto di Restif de la Bretonne e ordinato l’opera omnia di quest’ultimo, a vedere l’origine del suo secondo Australian Open e Slam in carriera.

Un trofeo “cavigliforme” lo si era mai visto? Eppure i dubbi su come sarebbe finito il trofeo della n.1 mondiale in caso di match contro Serena Williams e contro una Na Li in perfette condizioni fisiche non possono che restare. Perché Vika non ha giocato bene per tutto il torneo: fallosissima al servizio, è stata spesso imprecisa anche nelle ragnatele da fondo, sembrando ben lontana da quanto fatto vedere qui dodici mesi fa o a New York a settembre. Contro Serena avrebbe fatto partita pari? Con Na Li avrebbe recuperato?

Ha vinto perché il suo torneo fondamentalmente non è mai davvero iniziato prima della finale, sebbene nei quarti, con una Kuznetsova più riposata e più riabituata a certi livelli, se la sarebbe vista bruttissima (moralmente il primo set la russa l’ha stravinto). In semifinale ha avuto la meglio di una giocatrice, Sloane Stephens, che in futuro potrebbe diventare sua acerrima rivale, ma che stavolta era troppo stanca e appagata per poter far partita pari.

Semifinale dove Vika è stata assalita da critiche fin troppo velenose, perché diciamolo: premessa ancora una volta l’esigenza di abolire un servizio, il medical time out, che in troppe occasioni è stato usato come arma tattica e posto il gesto della bielorussa come assolutamente inelegante e non confacente ad una numero 1 del mondo, la pausa non ha in alcun modo falsato l’esito del match ed è eccessivo giudicarlo antisportivo. Sia in campo WTA che ATP si sono visti episodi, anche ad alti livelli, nettamente più sgradevoli, al limite della scorrettezza. Avanti 61 54, avrebbe al 99% vinto comunque.

L’Azarenka è un’antipatica genuina e va bene così: non ha gusto nel vestire e non fa nulla per nasconderlo; ha il grunting più irritante di sempre e non fa nulla per contenerlo; è in quasi tutto priva di femminilità e non fa nulla per migliorare. Anzi, entra in campo con cappuccio e (si presume) ascoltando musica orribile. È cristallina in tutto ciò che fa, non si preoccupa di piacere mostrando quello che non è. Prendere o lasciare. Pur non provando particolare simpatia per il suo personaggio, apprezzo sempre il non nascondersi dietro maschere che non si sentono proprie e mi sento di dire che le critiche nei suoi confronti siano fin troppo colme di acrimonia.

D’altra parte non tutti hanno la contagiosa e irrefrenabile simpatia di Novak Djokovic, che dopo Londra si è ripresentato in sala stampa offrendo cioccolatini ai giornalisti. Due domande però sono d’obbligo: se simpatia e costruita ruffianeria siano sinonimi e se al mondo mediatico basta una scatola di cioccolatini per tornare bimbo.

In campo Nole non ha avuto nessun bisogno di essere simpatico, dimostrando come sia attualmente il più forte giocatore del mondo, sul cemento outdoor e non solo. Lascia il tempo che trova la puntualissima, lamentosa filosofia di ogni fine Slam secondo cui il vincitore ha vinto “perché non ha avuto avversari”.

Djokovic ha battuto il numero 4 del mondo, Ferrer, un giocatore temutissimo da tutti i tifosi di Federer, Berdych, un giocatore dall’estro imprevedibile, Wawrinka, uno dei cosiddetti enfant terribles del tennis, Harrison. Quali sono i giocatori che Djokovic avrebbe dovuto affrontare e non ha affrontato affinché il suo tabellone potesse essere ritenuto difficile?

Che Ferrer sposti eccessivamente gli equilibri delle semifinali è verissimo (è questa la mancanza più tangibile lasciata da Nadal), che anche oggi il tennis visto sia stata soporiferamente noioso non fa che costringere il sottoscritto a ripetersi – cosa già fatto diverse volte in passato – sulla prigione emotiva costruita da un tennis contemporaneo tecnicamente perfetto ma privo di varietà, a più livelli. Negare però le straordinarie qualità di Djokovic è frutto di volontaria cecità critica: al momento è il più forte, fine della questione. Ridursi a denunciare una mancata semifinale con Murray non fa onore a nessun appassionato.

Murray che – come ha lui stesso lucidamente ammesso in conferenza stampa – ha perso la partita all’inizio del secondo set, dove aveva in mano l’inerzia della finale e non ha saputo pugnalare un Djokovic in quel momento tramortito (da 6-5 15-30 il serbo ha avuto un blackout importante, ricco di gratuiti e che probabilmente il break avrebbe prolungato). Proprio come l’anno scorso fece Nadal, sebbene in una situazione un tantinello diversa, Murray non ha azzannato, sparando fuori sul 15-40 un comodissimo rovescio da metà campo, un rovescio che solitamente gioca a occhi chiusi, un rovescio che gli avrebbe dato il 2-0. Semplicistico affermare che la partita sarebbe finita in altro modo, ma certamente avrebbe potuto prendere ben altre vie, le uniche percorribili: una volta perso il secondo set al tie-break, la partita era già segnata.

È proprio questo che manca ancora a Murray: miglioratissimo nelle lacune tecniche e fisiche nel corso degli anni, non riesce a liberarsi dall’incapacità di uccidere il match contro i grandissimi. Anche nella semifinale tecnicamente dominata con Federer, ha avuto bisogno non di quattro, ma addirittura di cinque set per portare a casa la partita. È troppo buono, troppo timido, troppo passivo quando deve alzare la voce con le belve. Necessita sempre di troppe occasioni (ricordarsi la stessa finale di NY) e contro questi giocatori il treno passa una sola volta. Spesso uno sporchissimo e mal frequentato regionale delle 4 di mattina.

NON CHIAMATECI EROI
È possibile che sia stato già citato in passato dal sottoscritto – la pigrizia m’impedisce di verificare, ma ne ho il sospetto – ma non riesco a trovare nessuna spiegazione migliore del torneo di Andreas Seppi e Stan Wawrinka di questo video.

Porthos la prima volta che ha pensato è morto. Così hanno fatto il nostro n.1, al quale non possiamo che donare un sinfonico applauso di almeno due ore ininterrotte per quanto sta facendo da un anno a questa parte, e il n.2 di Svizzera. Che hanno realizzato in modi diversi due tornei meravigliosi ma che, proprio nel momento in cui ne hanno assunto consapevolezza, hanno ceduto al peso della responsabilità di quella consapevolezza.

Seppi, ripeto, sta facendo e ha fatto davvero tantissimo, non possiamo che ringraziarlo dei risultati che sta ottenendo e del ranking che ha raggiunto, soprattutto considerando il suo tennis, completo e pulito ma non baciato da talento superiore. Ha battuto un avversario fastidiosissimo come Istomin e soprattutto Cilic, ridando un top 20 all’Italia. Lui, italiano “che parla anche l’italiano” (come suggerisce la sua scheda ATP).

Ma una volta capito quale impresa era nelle sue possibilità, soprattutto con l’eliminazione di Del Potro, è crollato miseramente. D’accordo, Chardy ha giocato una buona partita, ottima, ma se si è davvero un giocatore dal peso specifico di top 20 quell’ottavo va vinto a occhi chiusi. Così non è stato. Nulla toglie a quanto Andreas sta facendo, ma l’amaro per l’occasione non sfruttata non può che restare.

Un amaro che Stan Wawrinka sentirà fino pressappoco al 2016. Anche qui: bravissimo a far rivivere una partita che a fine terzo set sembrava morta e sepolta, ma le occasioni buttate al vento sono state un’enormità.

Il 61 52 (poi 53 30-0), il break a inizio quinto set immediatamente restituito e non ripreso il gioco successivo (due game lunghi e lottati, in cui ha avuto diverse chance), le palle break avute nel nono gioco. Soprattutto in quest’ultima occasione la scelta tattica di Wawrinka è stata quella tipica dell’underdog che vuole rimanere under: su seconde non irresistibili di Nole lo svizzero, già divorato dai crampi, anziché tentare il tutto per tutto con accelerazioni ha preferito entrare nello scambio e giocarsi il punto esattamente come sperava il serbo. Per quanto indubbiamente difficilissimo, portare in difficoltà un top player è infinitamente più semplice che fargli davvero male. Perché in questo secondo caso subentrano pressioni e responsabilità che a inizio match non ci sono. E il braccio pesa tremendamente di più. Quindi bravo Stan, mannaggia a te Stan.

D’altra parte non tutti i Rosol riescono con l’asso.

CHIAMATELI EROI
Questi vecchi, non ne vogliono sapere di lasciar strada.
C’è Na Li, che ha accettato con lodevolissima dignità il doppio destino avverso, non cercando sceneggiate ma anzi tentando di vincere fino alla fine una finale che avrebbe potuto far sua, in piena salute fisica.

Ci sono soprattutto Roger Federer e Serena Williams, che non  hanno ceduto le armi prima di consumare i loro ben più giovani avversari.

Venerdì ho visto forse per la prima volta un Federer dominato da Murray in una partita Slam, sia negli scambi che nei colpi d’inizio gioco. Penso a livello generale che – salvo Wimbledon – d’ora in poi lo svizzero sarà ben che vada il favorito n.3 nei major, aspettando di vedere se e come tornerà Nadal.

L’esplosività nei colpi e la reattività fisica stanno sempre più diminuendo e la devastante fisicità di Djokovic soprattutto ma anche di Murray sono probabilmente ormai un ostacolo insormontabile per Roger, nei match 3 su 5 (questo a livello percentuale, non si sta dicendo che parta battuto; diciamo che su dieci partite ne può vincere tre). Ormai gli ostacoli Slam per lo svizzero stanno diventando troppi, dalle piccionaie servizio e dritto alla consapevolezza di non poter allungare troppo le partite, dal sorteggio benevolo (leggasi “datemi Ferru e non Muzza”) a quello di doversi prendere troppi rischi – per la non più la già menzionata strabordante esplosività che aveva invece in passato - per piegare le difese dei primissimi.

Ma il cuore, la volontà e il rifiuto di perdere ammirati venerdì in Federer hanno avuto del commovente. Era una partita, come già detto a inizio partita, che mai e poi mai sarebbe dovuta arrivare al quinto set, visti i valori in campo, ma la tenacia e il sacro fuoco di un giocatore da alcuni ben poco competenti spettatori ancora considerato molle quando il gioco si fa duro, hanno rimesso in discussione più e più volte il match. Pur perdendo, Federer ha vinto.

Stesso dicasi per Serena. Che non paga di avere una caviglia grossa come le migliori angurie d’agosto, ha ben pensato di farsi male anche alla schiena, pregiudicando la piena resa del servizio, da sempre la sua arma principale.

Ma nonostante questo, perso il doppio dovendo fare…il doppio del lavoro a causa dell’ormai impresentabile sorella (ci fa male vederti così, Venere), ha cercato in tutti i modi di portare a casa un match di sola volontà. Ha perso perché doveva perdere, l’ideale passaggio di consegne (magari non immediato, ma ci sarà) andava fatto. E comunque la piccola-grande Sloane il successo l’ha meritato per come ha annullato la palla break che avrebbe portato Serena a servire per il match. Quindi va bene così.

Ma il prossimo che sostiene che la classe ’81 non ha palle e ha vinto per mancanza di avversari si faccia un esame di coscienza.

RITORNI E ATTESE SOTTO LA PIOGGIA
Sveta ha fatto vedere per 50 minuti a Vika come si gioca eppoi se n’è andata (il fisico ha puntato il dito su “no fuel”). Aga mi ha mandato l’ennesimo sms con scritto “ti amo” e per l’ennesima volta non si è presentata all’appuntamento. Bentornata alla prima, quando arrivi alla seconda.

UAN IS MEGL' CHE CIU
Come nel singolare, anche in doppio hanno vinto in entrambi i tornei le teste di n.1. Ma, ben lungi dal non voler elogiare i risultati incredibili delle nostre Sara Errani e Roberta Vinci e dei gemelloni Bryan, è abbastanza chiaro come il mondo del doppio vada visto con la sacrosanta cautela.

Il titolo da copertina, per quanto statisticamente esatto, “Bryan meglio di Roche e Newcombe”, comporta una chiarissima volontà nel chiudere entrambi gli occhi di fronte al differente peso sia dei giocatori in sé che delle vittorie. Roche e Newcombe hanno vinto tantissimo anche in singolare e sono stati fuoriclasse in un mondo tennistico in cui il cui doppio non era isola a sé stante di cosiddetti specialisti che hanno intravisto la possibilità di vittorie e guadagni sostanziosi che in singolare – per chiara incapacità – non avrebbero mai ottenuto. Roche e Newcombe battevano in finale Rosewall, Laver, Connors, Emerson, Nastase; i Bryan (mediocrissimi singolaristi loro stessi) Bjorkman, Mirnyi, Paes, Knowles, Zimonjic. Trovate le differenze.

Per lo stesso motivo sono più importanti e pesanti i risultati ottenuti da Sara e Roberta in singolare che in doppio, dove i nomi non sono così improponibili come nel caso dei Bryan, ma poco ci manca.

Le Williams, certo, affrontate però con Serena infortunata alla caviglia e Venus che sta subendo troppe stese per non capire come il suo orgoglio da n.1 e vincitrice di sette Slam debba portarla alla logica risposta. Ma diciamo che affrontare in finale Ashleigh Barty (che per quanto promettente è sedicenne) e Casey Dellacqua (che per quanto Casey Dellacqua è Casey Dellacqua), non è la più insormontabile delle montagne.

Stanno raggiungendo risultati divini e dobbiamo solo che ringraziarle per questo, ma il patriottismo non deve farci non vedere come anche il doppio femminile sia una no (wo)man’s land. Hradecka e Hlavackova, la seconda coppia più forte, in singolare non sono mai state tra le prime 40 del mondo e non sono mai andate oltre – salvo la Hlavackova agli ultimi US Open, dove ha fatto ottavi – oltre un secondo turno Slam.

Sara e Roberta bravissime lo sono davvero e lo stanno facendo vedere anche e soprattutto in singolare, dove c’è la vera concorrenza: sarò forse eccessivamente tommasiano, ma non cambierei i risultati che le due hanno ottenuto in singolare a NY lo scorso settembre con i tre Slam in doppio.

LA “VERA” N.1
Ad Aniek Van Koot non sembrava vero di avere l’occasione della vita, di giocare il primo Slam dell’anno senza quella Esther Vergeer che non perde un match dai tempi del barone von Cramm e che è più tirchia nell’elargire game del Nadal di Parigi 2008. Ne sa qualcosa, Aniek, che contro la leggendaria connazionale ha sbattuto il naso in tre finali Slam consecutive, finendo sempre con le ossa rotte. 62 61 a New York nel 2011, 60 60 in Australia e a Parigi lo scorso anno.

Di quei unici tre game fui testimone. Assistere a una finale Slam wheelchair è qualcosa d’irreale: a fine match gli spettatori si conoscono di persona, tanto esiguo è il numero. In quell’occasione non fummo più di una trentina. È un teatro ovattato, dove la danza delle sedie a rotelle e delle braccia delle atlete è una piece sconosciuta, per occhi vergini a questa specialità. Da perfetto ignorante di tennis per disabili non capii assolutamente nulla del perché la Vergeer fosse così forte. Vedevo solo che faceva sempre punto, che riusciva sempre a trovare traiettorie e angoli che la Van Koot non trovava, in quel strano tennis dai due rimbalzi.

Ma questa volta la Vergeer, che ha deciso di non partecipare, ha lasciato strada libera all’olandese classe 1990 per il suo primo Slam, arrivato in maniera però tutt’altro che banale.

In semifinale la Van Koot ha dovuto infatti annullare due match point alla connazionale Marjolein Buis, numero 5 del mondo, vincendo 16 76 (6) 63.

Non meno fatica ha fatto in finale contro la testa di serie n.2, la tedesca Sabine Ellerbrock. Dove, dopo un set vinto nettamente da ciascuna, l’olandese è salita 5-2, ma ha sentito a quel punto tutta la pressione del primo Slam quasi vinto.

Sette match point, la tedesca che ha recuperato fino al 5-5, ma poi la gioia finale, all’ottavo match point: 61 16 75. Primo Slam e n.1 del mondo. Trionfo (anche in doppio, dove aveva già vinto tre titoli major: le manca solo NY). Anche se la “vera” n.1 rimane Esther Vergeer. Ma non torniamo ai soliti dibattiti: al computer spetta solo fare calcoli.

Ha vinto annullando due match point e vincendo partite epiche. Come Djokovic. Al quale nei prossimi giorni e mesi continueremo a dedicare articoli e foto d’apertura.

Ma per una volta – mi scuseranno i fan di Nole – diamo spazio a numeri 1 che di spazio non ne hanno davvero mai.

E – mi riscuseranno i fan di Nole - il quadrato di fondente 99% Lindt che sto assaporando è un piacere misantropo davvero imbattibile.

Riccardo Nuziale

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