29/05/2013 20:14 CEST - TENNIS E LIBRI

Arthur Ashe, un messaggio che non può perdere

TENNIS - E' uscito il libro monografico di Alessandro Mastroluca dedicato ad Arthur Ashe, "Il successo è un viaggio". Oltre 200 pagine dove non si ricorda solo il fuoriclasse sportivo, ma anche e soprattutto il simbolo di lotte in nome dell'abbattimento di barriere. Riccardo Nuziale

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Arthur Ashe, Althea Gibson, Ryan White: protagonisti del libro "Il successo è un viaggio" di Alessandro Mastroluca (ed. Castelvecchi, collana Ultra Sport)
Arthur Ashe, Althea Gibson, Ryan White: protagonisti del libro "Il successo è un viaggio" di Alessandro Mastroluca (ed. Castelvecchi, collana Ultra Sport)
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Mamma è così felice
Mamma inizia a piangere
Papà sta cantando
Ce la puoi fare
Ce la puoi fare
Farcela

Grazie per permettermi di essere me stesso ancora
Grazie per permettermi di essere me stesso ancora

I fiammeggianti occhi della paura della gente
bruciano dentro te
A molti uomini manca così tanto
Odiano quello che fanno

Grazie per permettermi di essere me stesso ancora
Grazie per permettermi di essere me stesso ancora

(Sly & the Family Stone, Thank You For Talking To Me Africa)

 

“Ho cercato di ignorare l’ingiustizia perché sapevo che si sbagliavano. Io e la mia famiglia non proviamo odio per queste persone, perché abbiamo capito che sono vittime della loro ignoranza. Crediamo che con la pazienza, la comprensione, l’educazione, io e la mia famiglia possiamo cambiare la mentalità e l’atteggiamento delle persone intorno a noi”.

Ryan White ha trovato la strada di una morte lenta a causa di una trasfusione infetta, anche se nel dicembre 1984 i medici sentenziano una fine tutt’altro che estenuante: sei mesi di distanza dall’addio. Ryan ha 13 anni e il virus che il suo corpo ha suo malgrado accolto tramite quella trasfusione è il nome che sta terrorizzando e che terrorizzerà il mondo intero per decenni, anche se la novità fece sì che gli anni ’80 siano stati il principale regno del panico: il virus è infatti l’AIDS.

Ma il giovanissimo ragazzo non ha da combattere solamente un mostro che lo sconfiggerà più lentamente del previsto, l’8 aprile 1990 (al tempo i medici davano ai malati di AIDS massimo tre anni di vita dal contagio), ma anche di un nemico forse ancora più spaventoso, perché inafferrabile e non del tutto debellabile: il disprezzo, l’ignoranza, il rifiuto. Niente ha riportato nel XX secolo a folli forme mentis da medievali cacce alle streghe come l’AIDS negli anni ’80. Quando ancora pochissimo si sapeva del virus, le informazioni erano frammentarie e contraddittorie e la miccia della paura epidemica era sempre pronta ad accendersi. 

Ryan è stato uno dei martiri di quella situazione: per quanto le sue condizioni di salute siano migliori nell’estate 1985, tanto da poter rientrare a scuola, il sovrintendente dell’istituto rifiuta la domanda di riammissione. E quando, nel febbraio dell’anno successivo, al termine di una battaglia legale durata otto mesi, a White viene concesso di rientrare a scuola per un giorno, 151 dei 360 studenti non si presentano. Il motivo è chiarissimo: hanno paura di essere contagiati. Semplicemente respirando l’aria nella sua stessa area, toccandolo per sbaglio, parlandogli. Addirittura molti dei suoi concittadini, a Kokomo, disdicono l’abbonamento al giornale che lui consegna per paura di essere contagiati da quelle copie di carta stampata da lui toccate.

Ma Ryan riuscirà a diplomarsi nel 1987 e a diventare un simbolo della lotta all’AIDS e dell’educazione contro i pregiudizi legati a questa malattia. Le parole virgolettate d’inizio articolo sono sue ed incarnano a menadito la filosofia di vita di Arthur Ashe. Che con il giovane White condivide anche la data di morte: 8 aprile. Effettiva per White, simbolica per Ashe.

Di viaggi si parla, nel nuovo libro di Alessandro Mastroluca. E se gli ultimi 100 metri della maratona sono la summa dell’intero percorso, il sipario a salutare la vita di Arthur Ashe non poteva essere più imponente ed esplicativo.

Perché quando l’8 aprile 1992 Ashe confessò in conferenza stampa di essere malato di AIDS (fatale una trasfusione infetta durante un’operazione al cuore nel 1983) finì in qualche modo di vivere. Per salutare la vita terrena dovette aspettare poco meno di dieci mesi, il 6 febbraio 1993, ma quell’8 aprile finì di essere presente. Diventò all’istante statua marmorea a simboleggiare una lotta di cui non avrebbe mai potuto vedere l’esito. S.L. Price descrisse questo a caldo meglio di chiunque altro: “tutte le persone che circondano i malati non possono non cominciare a pensarli gentilmente al passato. Per Ashe è cominciato mercoledì. Ricordi. Tributi. Parole su una lapide. Era un grande campione. Ha combattuto l’apartheid, ha parlato con eloquenza sui problema dei neri, era un grande uomo. Tutto al passato. Lui ERA”.

Ma negli ultimi mesi di vita Artur Ashe ha persistito nel parlare l’unica lingua che conosceva: quella della lotta sociale, che nasceva da un innato senso di libertà individuale.

E negli ultimi mesi c’è riassunta tutta la sua vita: c’è il tennis, quello sport che l’ha visto trionfare in tre delle quattro prove dello Slam e che l’ha visto commentare, per un ultima volta, il torneo di Wimbledon, salutando così il primo successo major di Andre Agassi; c’è la lotta per i diritti dei neri e sociali in generale, tanto che alla vigilia degli US Open promuove, tramite un esibizione, la Arthur Ashe Foundation for the Defeat of AIDS e nel settembre del 1992 non si tira indietro nel protestare davanti alla Casa Bianca per il colpo di stato appoggiato dalla CIA ad Haiti. C'è la grandissima dignità e compostezza umana, che non verrà mai meno, anche a pochi giorni dalla morte, dove non smette di rispondere a miriadi di telefonate e a lottare per gli ideali che gli sono sempre stati a cuore.

Ma fondamentalmente c’è ciò che, a 20 anni dalla morte, è rimasto più di qualsiasi altra cosa: il messaggio che ogni barriera può essere infranta. A partire da quel bus che da ragazzino lo vedeva costretto a posizionarsi in fondo, nella zona riservata ai "niggers".

Di viaggi si parla, nel nuovo libro di Mastroluca. Al plurale. A ricordare come le grandi rivoluzioni attuate da Ashe non siano frutti isolati, nati per magia, ma tasselli di un puzzle molto più grande. Frutti nati per rendere un’orrenda realtà da rinchiudere nelle prigioni del passato - ma non del dimenticatoio - gli “strani frutti” denunciati con la voce di uno stupro da Billie Holiday (dove i frutti che pendevano dall’albero erano i cadaveri dei neri impiccati nel Sud degli Stati Uniti).

E non è un caso che a iniziare il viaggio delle oltre 200 pagine, dopo una breve introduzione, vi sia Althea Gibson, la giocatrice che ha fatto esplodere, magnificente, il black power nel mondo del tennis quando il mondo generale non permetteva minimamente ai neri le stesse possibilità concesse ai bianchi. E che durante tutto il tragitto, con notevole perizia, il libro si ramifichi a narrare vita e gesta degli ideali compagni di viaggio di Ashe.

Per riassumere e bilanciare una vita tanto complessa e multi faccettata come quella del primo nero uomo vincitore a Wimbledon senza cadere in wikipedismi modaioli che non fanno che saziare un’annoiata e compulsiva fame nozionistica, serviva una penna equilibrata e mossa da autentica passione. La storia, per essere compresa e divulgata, va vissuta. E il cuore che mette Alessandro Mastroluca nella ricerca storiografica, apprezzata da stagioni qui su Ubitennis e lo scorso anno nella sua prima opera, “La valigia dello sport” (lapalissiano come i titoli dei suoi primi due libri richiamino al percorso, alla storia come iter, ancor prima che ricerca), trova il suo culmine in questo suo esordio monografico. Che non è un mero libro di tennis, ma molto di più.

Perché era sin troppo semplice gettarsi nella spicciola agiografia, sportiva e umana, appiattendo una vita cornucopia di fatti, sfumature, incontri. “Nessuno sta a sentire i perdenti”, ricorda la quarta di copertina del libro la famosa frase pronunciata da Ashe dopo aver vinto gli US Open ’68, l’alba dell’Era Open, e Mastroluca sin dalle primissime parole (“il successo è un viaggio. Non una destinazione”) mostra di aver assorbito pienamente il lascito di Ashe: “Se gli sforzi non saranno abbastanza intensi, i nostri figli, i nostri nipoti un giorno ci chiederanno, e a ragione, perché non abbiamo fatto il massimo di fronte a una tale calamità. Cosa diremo loro?. Quel giorno vorremo poterci guardare indietro e dire a tutti che abbiamo fatto quello che dovevamo, quando dovevamo e impegnando tutte le risorse necessarie”.

Il punto di arrivo non è importante quanto il viaggio in sé. Perché in fondo ogni cammino è un urlo di libertà.

E ora Ashe può “urlare” anche nel nostro Paese, pronto a far conoscere le sue mille vite, i suoi mille viaggi, i suoi mille volti nella coerenza dell’uno, grazie a quella che è una delle migliori offerte dell’editoria tennistica italiana.


Alessandro Mastroluca, "Il successo è un viaggio - Arthur Ashe, simbolo di libertà" (Castelvecchi Editore, collana Ultra Sport)

Riccardo Nuziale

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