12/08/2013 10:43 CEST - Personaggi

Pete Sampras: l'importanza di essere onesti

TENNIS - Celebriamo i 42 anni di Pete Sampras con la biografia firmata Bud Collins e un'intervista del 2000 a Peter Bodo in cui racconta gli anni della scuola, il rapporto con i genitori, il dolore per la morte del coach e amico Tim Gullikson. Traduzione di Alessandro Mastroluca

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Pete Sampras (Getty Images North America Matthew Stockman)
Pete Sampras (Getty Images North America Matthew Stockman)

E' successo e basta. Non riusciva a spiegarlo o a capirlo. “Non sapevo cosa stessi facendo. Ero un ragazzo nuovo. Tutto quello che facevo funzionava”, Pete Sampras dirà anni dopo parlando del suo trionfo agli Us Open del 1990 che l'ha reso il più giovane campione nella storia del torneo a 19 anni e un mese.

Ha saputo cosa fare per tutto il resto della vita, “Silky” Sampras, che è scivolato lungo una strada di grandezza apparentemente senza sforzo, sereno mentre montava il suo programmato assalto alle cittadelle del passato. Pete conosce la storia del tennis e ha coscientemente inseguito l'uomo nel mirino, Roy Emerson, capace di vincere 12 slam tra il 1961 e il 1967 (sei Australian Open, due Roland Garros, due Wimbledon, due Us Championships).

Ha conquistato la cittadella di Emerson che resisteva da 33 anni battendo un altro figlio del Queensland, Patrick Rafter, 6-7 (10-12), 7-6 (7-5), 6-4, 6-2, conquistando il 13mo slam a Wimbledon nel 2000. Nuovo secolo, nuovo record. Ma nelle ombre del tramonto quell'anno, ha incontrato anche un altro fantasma, quello dell'inglese Willie Renshaw, che aveva vinto sette Wimbledon tra il 1881 e il 1889. E quello era anche il settimo Wimbledon di Pete. Emerson gli ha fatto i complimenti dopo essere stato eclissato, ridendo del fatto che non avesse mai saputo di detenere un record finché Sampras non aveva iniziato a inseguirlo.

Pete ha rafforzato il suo predominio vincendo il 14mo slam agli Us Open del 2002, anche se stava attraversando il suo anno peggiore e un periodo più secco del Sahara, 33 tornei senza un titolo. A Wimbledon, in quello che resterà il suo ultimo match all'All England Club, aveva perso dallo sconosciuto svizzero George Bastl, n.145 del mondo. A Parigi Andrea Gaudenzi, n.69, l'aveva eliminato al primo turno. Aveva perso perfino sull'erba, con due set di vantaggio, in Coppa Davis a Houston contro lo specialista della terra battuta Alex Corretja, 4-6, 4-6, 7-6 (7-4), 7-5, 6-4. Non era mai stato così giù.

Eppure Pete, n.17 e testa di serie n.17, era ispirato a Flushing Meadows, il palcoscenico del suo exploit del 1989 quando sconfisse il campione in carica Mats Wilander 5-7, 6-3, 1-6, 6-1, 6-4, al secondo turno. Ma dopo aver perso in finale dai ventenni Safin nel 2000, 6-4, 6-3, 6-3, e Lleyton Hewitt nel 2001, 7-6 (7-4), 6-1, 6-1, Pete era pronto a conquistare il suo quinto titolo agli Us Open battendo il rivale di una vita,  Andre Agassi, nella finale del 2002, 6-3, 6-4, 5-7, 6-4.

Era passato un po' di tempo dall'ultima volta che aveva dominato gli Stati Uniti. Aveva marcato il suo quarto e ultimo trionfo piegando il moto perpetuo di Michael Chang nella finale tutta californiana del 1996, 6-1, 6-4, 7-6 (7-3). Quell'anno aveva mancato il quarto Wimbledon di fila perdendo dal futuro campione Richard Krajicek, ma aveva comunque completato una serie di 25 successi di fila dove solo Borg (41) e Laver (31) avevano avuto strisce più lunghe. Avrebbe comunque completato la sua nona stagione da professionista al numero 1 del mondo per il quarto anno consecutivo.

Con il suo metro e 85 e i suoi 80 chili, la folta chioma bruna e il sangue greco, questo smilzo ragazzo di Palos Verdes che aveva lasciato la scuola per il tennis, stava gestendo bene ricchezza e popolarità. “Non è un anno buono per me se non vinco due slam” diceva. Ma nel 1996 è stato comunque felice di salvarne uno, considerato il dolore per la morte del suo coach e suo migliore amico Tim Gullikson per un tumore al cervello scoperto agli Australian Open del 1995. Benché non preparato per il Roland Garros, disputati subito dopo i suoi funerali, riuscì a fornire la sua migliore prestazione a Parigi, l'unico slam che gli è sempre sfuggito, perdendo in semifinale dal futuro vincitore Yevgeny Kafelnikov, 7-6 (7-4), 6-0, 6-2 dopo le estenuanti vittorie al quinto set contro gli ex campioni Sergi Bruguera e Jim Courier, e su Todd Martin.

Nato il 12 agosto 1971 a Washington, è cresciuto nella California del sud. Sua sorella maggiore, Stella Sampras, ha giocato a livello professionistico ed è poi passata ad allenare la squadra femminile di tennis della sua università, UCLA. Il fratello Gus è un agente. Il gioco di Pete è stato alterato a 14 anni da un pediatra e insegnante di tennis, il dottor Pete Fisher. Fisher, pensando che il rovescio a due mani e il gioco da fondo fossero infantili, lo spinse verso un fluido rovescio tradizionale, verso il gioco di volo e la reverenza verso i grandi del passato, per comportamento e prestazioni, Rod Laver e Ken Rosewall. Pete cresceva così come il suo decantato servizio e ogni cosa è andata a posto. Più tardi è stato Gullikson, ha detto Sampras, “che mi ha aiutato a crescere, a competere, a concentrarmi, a insegnarmi a giocare sull'erba. Gli devo tantissimo”.

Al suo primo anno da pro, nel 1988, Sampras uscì al primo turno agli Us Open, battuto dal peruviano Jaime Yzaga al primo turno. Si è fatto notare nel 1989 battendo Wilander, campione in carica, e raggiungendo gli ottavi. L'anno successivo è stato straordinario, seppur “inconsapevole”. Ha iniziato la stagione da numero 81, è arrivato agli Us Open da testa di serie numero 12 e ha dominato a suon di ace perdendo solo quattro set. Ha mostrato il suo temperamento battendo due ex vincitori uno via l'altro - Lendl, 6-4, 7-6 (7-3), 3-6, 4-6, 6-2 nei quarti e McEnroe, 6-2, 6-4, 3-6, 6-3 in semifinale. Ha dimostrato di “essere uno vero”, di essere incontenibile, neutralizzando i contrattacchi di Lendl, testa di serie numero 3, e mettendo a segno 26 ace. “Mi ha semplicemente dominato” ha detto Agassi dopo il 6-4 6-3 6-2 in finale in 106 minuti. Pete diventa il più giovane vincitore, battendo di sei mesi il precedente record che spettava a Oliver Campbell.

Pochi mesi dopo, Pete ha fatto un salto finanziario ancora più grande, guadagnando il montepremi record di 2 milioni di dollari per la prima edizione della Grand Slam Cup a Monaco di Baviera, battendo in finale Brad Gilbert 6-3, 6-4, 6-2. Non a suo agio per tutta l'attenzione dovuta a questi risultati, salito al numero 5 del ranking, sembrava quasi sollevato di aver perso ai quarti agli Us Open del 1991, 6-2, 7-6 (7-4), 7-6 (7-5) da Jim Courier. Ma è maturato, ha accettato le responsabilità e le sfide di una vita al top, è diventato un solido numero 1 nel 1993, respingendo gli assalti dei possibili usurpatori per sei anni migliorando il record dell'era Open di Connors (5 anni di fila, 1974-78). Era da tre quarti di secolo, dai tempi di Bill Tilden rimasto numero 1 dal 1920 al 1925 nell'era pre-computer, che non si vedeva un dominio così. Anche se Agassi è riuscito per un momento a interromperlo vincendo gli Australian Open 1995, 4-6, 6-1 7-6 (8-6), 6-4, Sampras si è preso la rivincita otto mesi dopo, agli Us Open, piegando Andre 6-4, 6-3, 4-6, 7-5. La loro incredibile rivalità recita 20-14 per Pete al suo canto del cigno nel 2002. Ma più che i sei anni al numero 1, parlano i 12 in top-10: n. 5 nel 1990; n. 6 nel 1991; n. 3 nel 1992, 99-2000; n.10 nel 2001 prima del finale numero 13 nel 2002.

La Coppa Davis non è sempre stata felice per Pete, soprattutto il suo agitatissimo debutto nella finale del 2001. La rumorosa e patriottica folla francese a Lione lo innervosiva e Henri Leconte e Guy Forget sono riusciti a batterlo. Guy si è imposto nel singolare decisivo 7-6 (8-6), 3-6, 6-3, 6-4, dando alla Francia una coppa inattesa. Ha giocato con McEnroe, a destra, il doppio vincente nella finale del 1992, nel 3-1 contro la Svizzera, battendo Jakob Hlasek e Marc Rosset 6-7 (5-7), 6-7 (7-9), 7-5, 6-1, 6-2.

Nella finale di Mosca del 1995, su un campo in terra battuta reso scivoloso soprattutto per far cadere lui nello Stadio Olimpico, Pete ha risposto prendendo il comando nella vittoria per 3-2, portando tutti e tre i punti in uno dei weekend più gloriosi vissuti da un americano all'estero. Prima arriva il successo al quinto set su Andrei Chesnokov, 3-6, 6-4, 6-3, 6-7 (5-7), 6-4, al termine del quale Pete crolla a terra in ginocchio, esausto, in preda ai crampi. Poi il duello d'eleganza cin Todd Martin nel 7-5, 6-4, 6-3 con cui mettono al tappeto Andrei Olhovskiy e Kafelnikov. Poi fa calare il sipario stendendo Kafelnikov 6-2, 6-4, 7-6 (7-4) con una pioggia di ace (16) e di vincenti di dritto (19). Ha messo in mostra tutte le sue straordinarie qualità: la grinta, la testardaggine, i colpi fluidi da fondo, servizi devastanti, volée disinvolte ma letali, dritti fulminanti.

Sembrava sempre rilassato, ma la sua mente si piegava nei momenti difficili. Dietro la facciata di calma e distacco restavano fragilità fisiche ed emotive, una malattia ereditaria del sangue chiamata talassemia, che si è palesata quando è collassato alla fine della battaglia con Chesnokov. E il memorabile pomeriggio del 1996 a Flushing Meadows quando ha perso il suo pranzo ma non il titolo nel quarto di finale vinto 7-6 (7-5), 5-7, 5-7, 6-4, 7-6 (9-7) su Alex Corretja. Vomitando nel tiebreak del quinto set, Pete si tira fuori salvando un match point sul 6-5 con una volée in allungo. Barcollando, ha uncinato un ace a 90 mph -“Non so da dove io l'abbia tirato fuori”- e si procura un match point sull'8-7. Tuttavia, “non volevo più colpire nemmeno una palla”, e non ha dovuto. Corretja ha perso nell'unico modo in cui Pete avrebbe potuto vincere, con un doppio fallo.

“Ma Pete è così” dice l'amico e rivale Courier. “Quando pensi che stia per morire, è allora che ti ammazza”. Quello che davvero l'ha ucciso è stata la sconfitta in finale agli Us Open 1992 contro Stefan Edberg, 3-6, 6-4, 7-6 (7-5) , 6-2. Quella sconfitta ha cambiato le sue prospettive “Per la prima volta, mi faceva davvero male perdere. Fino a quel momento non ero stato mai davvero motivato” ha detto. “Ma allora ho capito che non volevo fermarmi a un solo slam. Dovevo vincerne di più”. E così ha fatto. Ha vinto 64 tornei sui 265 giocati, perdendo 24 finali. Ha vinto due titoli in doppio, ha trionfato in 14 major su 18 finali. Ha una notevole percentuale di 762 vittorie e 222 sconfitte (.776), 203-39 negli slam (.839). Ha vinto  $43,280,489 di montepremi. La sua migliore stagione è stata il 1994, in cui ha vinto 10 tornei su 18, con 77 vittorie e 12 sconfitte. Ha perso da Chesnokov al terzo turno del 1992. Ma fino a quando si giocherà a tennis, sarà per sempre il re di Wimbledon. (Bud Collins)

MAJOR TITLES (14) — Australian singles, 1994, 1997; Wimbledon singles, 1993, 1994, 1995; 1997, 1998, 1999, 2000; U.S. singles, 1990, 1993, 1995, 1996, 2002. 

DAVIS CUP — 1991, 1992, 1994, 1995, 1997, 1999, 2000, 2002; 15-8 singles, 4-1 doubles. 

SINGLES RECORD IN THE MAJORS — Australian (45-9), French (24-13), Wimbledon (63-7), U.S. (71-9 ) 


Nella grande mente di Pete Sampras
Peter Bodo, Ace Tennis Magazine, UK
Ottobre 2000, n. 48


Secondo te, campioni si nasce o si diventa?
Nel mio caso, direi che lo sono nato. Al livello più elementare, questo sport mi è venuto naturale. Sono nato con i geni giusti, credo. Ma nonostante quel talento, ho dovuto costruirmi come giocatore, mentalmente. Da quel punto di vista, lo sono diventato. E non è stato facile perché non sono il tipo che va dallo psicologo dello sport per fare lunghe chiacchierate sul suo gioco o che cerca di ottenere un vantaggio costi quel che costi. Tuttavia non sottovaluterei mai gli aspetti mentali di questo sport.

Tu tendi a mantenere le distanze. Questo atteggiamento ti ha condizionato nella vita? E' difficile capirti per chi ti sta vicino?
Diverse persone me l'hanno detto, compreso Paul Annacone. Lui una volta mi ha detto che ero un enigma, che quando entro negli spogliati nessuno riesce a vedere cosa mi passa per la testa. Non è di certo qualcosa che faccio di proposito per crearmi una certa reputazione, un'aura particolare. Ma nessuna delle persone che amo si è mai lamentata del fatto che sono distante. Ho bisogno di tempo per conoscere qualcuno e all'inizio posso non mostrare quello che sento o penso. Ma quando mi fido di qualcuno, abbasso la guardia e mi apro.

I tuoi genitori, Sam e Georgia, sono leggendari per essere rimasti sempre fuori dai riflettori. Come descriveresti loro e il modo in cui ti hanno influenzato?
Ho scoperto il tennis da solo. I miei genitori hanno solo sostenuto il mio interesse verso questo sport. Finanziariamente è stato un salasso all'inizio. Per un po', mio padre faceva due lavori (ingegnere e proprietario di un ristorante). Ha provato anche ad allenarmi leggendo libri sul tennis. Ma non è durato molto e adesso ci scherziamo su. Papà ha affidato il mio sviluppo al mio primo coach, Pete Fischer. C'era sempre, era coinvolto, mi accompagnava a un sacco di lezioni, alle partite e ai tornei, ma non si intrometteva nelle questioni tecniche, era abbastanza intelligente da capire di non saperne a sufficienza. Papà ha un carattere simile al mio, tiene le persone un po' a distanza, ma se gli piaci, se si fida di te, sarà sempre dalla tua parte. Può volerci molto tempo però. Il marito di mia sorella minore Marion, Phil Hodges, ci ha messo un anno. Anche al telefono non è proprio una delle persone più calorose. Quando i miei amici di infanzia chiamavano a casa, erano sempre un po' intimiditi. (…) Mamma è la roccia della famiglia. Mi regalava palline da tennis perché ero pazzo per questo sport, ma non ha molti interessi a parte i suoi figli. Ha conosciuto la povertà. Ha lasciato la Grecia a 25 anni per venire in America senza conoscere una parola d'inglese con sei sorelle e due fratelli. In quei primi anni a volte dormiva sul pavimento. È diventata un'estetista e ha incontrato mio padre quando un suo amico l'ha incoraggiato ad andare dove lei lavorava. Ha un sacco di buons senso e sa leggere benissimo le persone.

Quali sono i tuoi migliori ricordi d'infanzia?
Non importa quanto a lungo io ci pensi, tutto torna sempre al tennis. Giocare e vincere. Uscire da scuola, andare sul campo, allenarmi, vedere miglioramenti nel mio gioco. Non avevo amici a scuola, se non quelli del Jack Kramer Club dove mi allenavo. Non uscivo la sera, non socializzavo, non praticavo altri sport. A pranzo tornavo addirittura a casa. Per gli altri ero “il ragazzo del tennis” ma mi andavo bene, avevo una vera passione per il tennis. Non sono un tipo sentimentale, non ho conservato cose come il primo orsetto o la prima racchetta. (…)

Senti che ti manca l'aver vissuto un'adolescenza normale?
No, anche se qualche volta penso sarebbe stato bello andare al college. Ne parlo molto con mia sorella Stella che adorava l'indipendenza, le feste, il divertimento. Se inizio a pensare di essermi perso qualcosa, devo solo ricordarmi che il mio lavoro è fare sport. È il sogno di ogni bambino diventato realtà. Non credo potesse andare meglio di così.

Quali sono i tuoi più grandi successi, secondo te?
Su tutti, il mio primo Us Open. La finale di Wimbledon 1999 contro Andre ha un posto molto in alto, anche. È stata la mia migliore prestazione ad alto livello, contro un grande avversario, in un momento così importante. Quel giorno ho avuto tutto. Un altro è la finale di Davis del 1995 con la Russia a Mosca, perché ho vinto due singoli e il doppio contro una squadra forte e sulla terra rossa, la superficie peggiore per me. Altri due spiccano, ma non per le finali: gli Australian Open 1997 e gli Us Open 1996. A Melbourne ho vinto una finale facile con Moya, ma avevo quasi persi agli ottavi in cinque set con Dominik Hrbaty con quasi 50 gradi. E agli Us Open 1996 c'è stato quel quarto di finale epico con Alex Corretja.

Hai mostrato grande fedeltà ai tuoi tre coach: Fischer, Gullikson e Annacone. Due di loro hanno sperimentato autentiche tragedie: Pete Fischer è finito in prigione nel 1998 per molestie su minori, Tim Gullikson è morto per un cancro al cervello nel 1996. In che modo questi episodi ti hanno segnato?
Mi ero separato da molto tempo dalla moglie di Pete quando è stato arrestato. Non ho seguito il suo caso molto da vicino ma sapevo che, qualsiasi cosa avesse fatto, non potevo abbandonarlo come amico. Ha avuto una parte importante nella mia vita. Ha avuto un gran ruolo nel farmi diventare quello che sono adesso, e non si abbandona una persona così. (…) La situazione di Tim è stata un colpo durissimo. Era con me quando si è sentito male, ed è praticamente morto davanti ai miei occhi (…), non posso immaginare niente di peggio di quello che ha passato Tim. E' stato difficile giocare in quel periodo perché dovevo affrontare quella situazione, quell'esperienza così profondamente triste, privata, in pubblico. Certamente ha messo il dono della vita in una nuova prospettiva per me.

Qual è la lezione più importante che hai imparato dalle persone in tutti questi anni?
Che non tutti sono necessariamente onesti, e che sono interessato solo a chi è franco e onesto. Io tendo a essere sempre onesto e mi aspetto che le persone siano oneste con me.

Traduzione di Alessandro Mastroluca

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