23/09/2013 09:02 CEST - Personaggi

Djokovic, 100 da numero 1 Storia di un sogno realizzato

TENNIS - Già a sei anni, Novak Djokovic aveva le idee chiare: "Voglio diventare il n.1 del mondo". Oggi festeggia le 100 settimane in vetta al ranking. La prima volta dopo il trionfo su Nadal a Wimbledon 2011. Per quel sogno, suo padre è finito in mano agli strozzini. Ma quel che non uccide, rende più forti. Alessandro Mastroluca

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Novak Djokovic
Novak Djokovic

“Essere il numero 1, diventare il migliore, è da sempre l'obiettivo della mia vita”. Parola di Novak Djokovic, che ha raggiunto le 100 settimane in vetta alla classifica. Solo otto giocatori vantano più di 100 settimane da numero 1: Federer (302), Sampras (286), Lendl (270), Connors (268), McEnroe (170), Borg (109), Nadal (102) e Agassi (101).

Il suo viaggio, che l'ha portato a raggiungere il suo grande obiettivo per la prima volta nel luglio 2011, dopo aver realizzato l'altro grande sogno della vita, vincere Wimbledon, inizia sulle montagne Kopaonik, con i suoi panorami da sogno, le foreste d'aceri, pini e faggi dei Balcani che disegnano ombre scure su imponenti monasteri e fortezze di pietra. I genitori sono nati a Zvecan (che nel 2009 ha dato a Djokovic la cittadinanza onoraria), in Kosovo, luogo d'origine della religione ortodossa serba, centrale per l'identità nazionale, anche se la popolazione è composta per il 90% di albanesi. Teatro di guerre, di tentativi di pulizia etnica e bombardamenti, la cui indipendenza è stata riconosciuta da 75 Paesi guidati dagli Usa, per Djokovic il Kosovo rimane “la culla della nostra cultura”. Per questo, dopo il famoso e controverso discorso del 2008 (in cui riafferma che il Kosovo è Serbia), ha visitato più volte la regione e donato 100 mila dollari per restaurare gli storici monasteri e ha ricevuto il più alto ordine della Chiesa ortodossa serba, l'Ordine di San Sava.

Nel 1993, Djokovic guarda la sua prima partita di tennis in televisione. È la finale di Wimbledon: Pete Sampras batte Jim Courier. Da quel giorno, Djokovic passa intere giornate davanti alla recinzione dei tre campi da tennis aperti da poco sulla strada che porta alla pizzeria che gestiscono i genitori di Novak, Srdjan e Dijana (il padre è stato uno sciatore professionista e una volta ha avuto anche ospite a cena Alberto Tomba). L'insegnante di tennis è una leggenda, Jelena Gencic, che è stata nazionale di pallamano vincendo il bronzo mondiale nel 1957, e ha scoperto Monica Seles. Jelena lo invita a provare. Il giorno dopo Novak si presenta con una borsa termica, una racchetta, un asciugamano, acqua, una banana, una seconda T-shirt e una fascia tergisudore. “Gli dissi: 'Tua madre ti ha preparato bene la borsa.' Lui si arrabbiò e disse: 'L'ho fatta io. Solo io quello che vuole giocare a tennis, non mia madre'. Era straordinario” ricordava Gencic, scomparsa lo scorso giugno.

Immediatamente, si convince che Djokovic è “un bambino d'oro”. Novak ha cinque anni e mezzo, e per Jelena a 17 sarà tra i primi 5 del mondo. “Dopo cinque giorni di allenamento” ha ricordato Gencic, “gli ho chiesto davanti ai genitori : 'Novak, vuoi passare i prossimi sette, otto anni allenandoti duramente ogni giorno, con sorrisi e lacrime?'. Lui ha risposto: 'Sì, voglio essere grande'. Aveva sei anni, ma aveva già gli occhi, il cuore, l'anima di un campione”.

Srdjan e Dijana sono senza parole. “Jelena Gencic” ha spiegato Srdjan, “ci ha detto che Novak era il più grande talento che avesse mai visto dopo Monica Seles. E' stato incoraggiante, ma certo non ha tolto tutti i dubbi. Abbiamo parlato molto con Novak in quegli anni. Quando aveva 10 anni gli abbiamo chiesto: che cosa vuoi diventare? Ci ha risposto: voglio diventare un grande campione di tennis. Da quel momento l'abbiamo appoggiato in tutto, senza riserve”.

Al Partizan Tennis Club di Belgrado ancora ricordano quel bambino che già sembrava cresciuto, che arrivava presto, per poter vedere i più grandi allenarsi, con tutto l'occorrente perfettamente organizzato. “Un giorno” ha raccontato il suo amico Dusan Vemic, “ci stavamo ancora allenando quando Djokovic ha cominciato a girare intorno al campo e iniziare qualche esercizio. L'ho salutato, gli ho fatto un paio di domande. Lui si ferma qualche secondo, mi guarda dritto negli occhi e mi risponde che ha bisogno di migliorare il movimento dei piedi per diventare un giocatore. Era incredibile: aveva sei anni”.

Spesso dopo l'allenamento, Djokovic si trattiene a casa di Jelena Gencic, a Belgrado, per guardare i video dei grandi campioni. “Forse è per questo che da grande è diventato così bravo a imitare i movimenti degli altri giocatori, ricordava Jelena. “Mi chiedeva: 'Perfavore, mi spieghi come fa Sampras a tirare così il dritto lungolinea in corsa?'. E io gli spiegavo quale gamba doveva fermare, con quale trasferire il peso in avanti e così via”. Sampras è il suo idolo, ma a sette anni capisce di essere troppo debole per continuare a giocare il rovescio a una mano, soprattutto sulle palle alte, e passa alla presa bimane.

Gencic ispira il suo talento con le poesie di Puskin e la musica classica, che usa per aiutare la visualizzazione dei colpi. A sette anni, Gencic lo manda per la prima volta in tv. “Il tennis è il mio lavoro” dice il Nole bambino. “Il mio obiettivo è diventare numero 1”.

La guerra
Il 24 marzo 1999 la NATO lancia il primo bombardamento su Belgrado: è il culmine della guerra con il Kosovo. Per due giorni e due notti Novak, i suoi genitori e i suoi due fratelli si rifugiano nel seminterrato del loro condominio. Poi trovano rifugio nell'appartamento del nonno, scomparso due anni fa durante il torneo di Montecarlo.

In quei giorni, gioca a tennis tutti i giorni, nonostante la paura. "La mattina" ha ricordato Gencic, che ha perso sua sorella durante i bombardamenti, "con Novak ascoltavamo la radio per sapere dove erano previsti i bombardamenti e andavamo a giocare da un'altra parte. Se poi sentivamo gli aerei avvicinarsi, scappavamo dentro il club".

"Stavamo fuori, sul campo, tutto il giorno" racconta mamma Dijana, "e questo ci ha salvato. Non era un posto più o meno sicuro degli altri, ma se te ne stai tutto il giorno in cantina pensando che stanno per venire a bombardare casa tua diventi matto". “Decidemmo di continuare a vivere normalmente. Se fosse accaduto qualcosa, sarebbe successo”. Benché dovesse svegliarsi ogni notte alle due o alle tre per le bombe, Novak ricorda quei giorni in positivo. “Non dovevamo andare a scuola e abbiamo giocato di più a tennis” ha raccontato alla CBS per il programma '60 minutes'. “La guerra ci ha resi più forti, più affamati di successo”.

Per Vlade Divac, pivot dei Los Angeles Lakers adorato da Magic Johnson diventato capo del comitato olimpico serbo, che ha visto terminare la fraterna amicizia con il croato Drazen Petrovic per questioni nazionalistiche (durante i festeggiamenti per la vittoria ai mondiali di Buemos Aires butta via una bandiera croata portata da un tifoso a Petrovic), Djokovic è molto più che un campione. “Per anni, soprattutto negli ultimi 15, segnati dalle guerre civili, tutti ci guardavano come se fossimo cattivi. Novak ci sta facendo sentire di nuovo fieri di essere serbi”.

Pilic e Monaco
Sei mesi dopo la fine dei bombardamenti, accade l'inevitabile. “Era diventato troppo bravo” ha ricordato Gencic. È lei a chiamare il suo amico Nikola Pilic, che aveva aperto un'accademia a Monaco di Baviera, per aiutare quel ragazzo così speciale. L'ex campione per cui 80 giocatori hanno boicottato Wimbledon nel 1972 e raggiunto la finale del Roland Garros 1973 è titubante: il suo regime di allenamento è troppo pesante per un ragazzino che deve ancora compiere 13 anni.

Ma Djokovic, che ha preso il suo primo aereo per l'audizione, accompagnato da Goran Ivanisevic, lo convince. Qualche tempo dopo, una mattina trova Pilic e sua madre Dijana a chiacchierare davanti a una tazza di caffé: è arrabbiatissimo, passa loro accanto senza dire una parola. “Gli chiesi perché” ha raccontato Pilic. “Disse che era in ritardo per l'allenamento e e che non aveva tempo da perdere. Non aveva ancora 13 anni, ma aveva le idee chiarissime su cosa fare nella vita. Non avevo dubbi che sarebbe diventato un grande giocatore”.

Per sostenere la sua carriera, Srdjan finisce in mano agli usurai: “Ci chiedevano interessi del 15% al mese. In Serbia molti non capiscono che chi ha successo nello sport, nella scienza, nella cultura, anche se non genera profitto, rappresenta la Serbia nel mondo. All'epoca solo due persone mi hanno aiutato: un amico di mio fratello mi ha dato 5 mila marchi (nell'intervista parla di maraka, che è il marco bosniaco, NdT) quando Novak aveva 14 anni dicendomi di restituirglieli quando avrei potuto. Un amico di un mio amico me ne ha dati 20 mila, mi ha detto: "Srdjan, so che sei in difficoltà e che Novak è un atleta incredibile. Questi sono per lui, per fargli avere successo come atleta, e se non lo avrà, nella vita". Ha aiutato anche il Partizan quando Novak è tornato lì ad allenarsi dopo essere rientrato da Monaco”.

Un anno dopo, Djokovic aveva appena finito un programma di allenamenti pesanti sulle Alpi austriache e tutti gli altri ragazzi sono pronti a festeggiare. Novak però è indeciso. “Se esco stasera, sarà bene per il mio tennis?” chiede al suo manager, Dirk Hordorff. “Hai lavorato tanto, vai e basta, divertiti” risponde. “Non ti ho chiesto se farebbe bene a me, ma se farebbe bene al mio tennis”. La famiglia, in fondo, ha scommesso tutto su di lui: Novak non conosce tutti i dettagli, ma sa abbastanza da aver capito di avere una grande responsabilità sulle spalle.

La strada verso il successo
Djokovic vince il terzo Futures cui prende parte (in Serbia, in finale sullo spagnolo Ferrer-Victoria) e il secondo Challenger che gioca, a San Marino in finale su Francesco Aldi, ma la federazione non ha abbastanza fondi per finanziarlo. All'inizio del 2006, quando Novak diventa il più giovane giocatore in top-100, Srdjan è talmente disperato da andare a parlare insieme alla moglie con i rappresentanti della Lawn Tennis Association. In ballo c'è la possibilità che Novak e i suoi fratelli, Marko e Djordje, cambino nazionalità e inizino a giocare per l'Inghilterra. Novak però rifiuta. “La decisione è stata solo mia. Non ho mai voluto cambiare nazionalità: è una parte di me. Siamo fieri delle nostre origini”.

Un mese dopo, a Parigi, Djokovic incontra il coach slovallo Marian Vajda. Gli chiede consiglio a titolo ancora informale e raggiunge i primi quarti di finale slam della sua carriera, al Roland Garros. Guadagna 149.590 dollari e lo assume a tempo pieno. Con lui vince i suoi primi titoli ATP, ad Amersfoort e Metz e chiude la stagione al numero 16 del mondo. Srdjan prova a fargli i complimenti per aver finito tra i primi 20, ma Novak lo ferma: “Quando sarò numero 1, allora potrai farmeli”.

Glieli farà a Wimbledon, quattro anni e mezzo più in là, cantando e ballando con tutta la famiglia avvolta nella bandiera serba nel cuore dell'All England Club.

Alessandro Mastroluca

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