19/12/2013 11:47 CEST - Personaggi

Billie Jean King e il gelo olimpico

TENNIS - Barack Obama ha scelto Billie Jean King nella delegazione che rappresenterò gli Usa ai Giochi di Sochi. Un messaggio contro la legge che punisce chi diffonde informazioni sull'omosessualità. Le Olimpiadi e la politica, una lunga storia. Alessandro Mastroluca

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Billie Jean King (Getty Images North America Matthew Stockman)
Billie Jean King (Getty Images North America Matthew Stockman)

Barack Obama ha scelto l’ex tennista Billie Jean King come membro della delegazione che rappresenterà ufficialmente gli Stati Uniti alle Olimpiadi invernali di Sochi, che si terranno in Russia dal 7 al 23 febbraio 2014.  Ed è difficile non pensare che dietro ci sia la volontà di mandare un messaggio forte alla Russia, contro la contestata legge approvata lo scorso giugno che prevede ingenti multe per chiunque “diffonda informazioni sull’omosessualità” ai minori di 18 anni e organizzi manifestazioni a sostegno delle persone omosessuali. Una legge che, secondo molte associazioni per i diritti umani, di fatto vieta di parlare di omosessualità.

E non è l'unico "schiaffo" al capo del Cremlino. L'amministrazione Usa ha fatto sapere da tempo che Obama non andrà a Sochi per l'apertura dei Giochi: per la prima volta dal 2000 la delegazione Usa non comprende né il presidente degli Stati Uniti, né il vicepresidente, né un ex-presidente, né una delle loro mogli. Nella delegazione Usa non ci sarà nessun componente del suo governo. A guidare la rappresentanza americana sarà Janet Napolitano, ex segretario della Sicurezza Interna, oggi presidente dell'Università della California.

La presenza di Billie Jean King, componente del President's Council on Fitness, Sports and Nutrition, rappresenta un messaggio chiarissimo per Mosca. Tanto più che la portabandiera alla cerimonia di chiusura sarà Caitlin Cahow, giocatrice di hockey su ghiaccio, anche lei lesbica.

La delegazione, ha detto la portavoce della Casa Bianca Shin Inouye, "rappresenta la diversità che caratterizza gli Stati Uniti. Il presidente sa che gli atleti mostreranno al mondo il meglio dell'America". Non è la prima volta che le Olimpiadi diventano il teatro di partite con in palio ben più di una medaglia.

Berlino 1936

Avery Brundage è il capo del comitato statunitense che ha permesso a Hitler di ospitare i Giochi di Berlino del 1936,che il ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, e la regista Leni Riefenstahl, trasformano in una festa di regime. La star dei Giochi per gli Stati Uniti è Jesse Owens, che porta a casa quattro medaglie d'oro, compresa quella vinta nella staffetta 4x100. Una gara che non avrebbe dovuto disputare: nel quartetto, infatti, erano previsti Sam Stoller e Marty Glickman, due corridori ebrei, che Brundage ha voluto fossero sostituiti con i due neri Owens e Ralph Metcalfe.
Secondo i due atleti, gli unici due dell'intera spedizione Usa a non aver gareggiato, Brundage ha voluto evitare di dare una seconda umiliazione a Hitler: veder trionfare due ebrei dopo aver già assistito ai successi di Owens. Brundage si è sempre difeso sostenendo che, semplicemente, Owens e Metcalfe erano due velocisti migliori. Riefenstahl ha rievocato la lavorazione di Olympia, il film sulle Olimpiadi di Berlino, come scriveva Lorenzo Cairoli sulla Stampa, "rivelando, fra l’altro, che la leggenda secondo cui Hitler rifiutò di stringere la mano a Owens per motivi razziali fu tutta una bufala; la colpa fu invece del presidente del comitato olimpico francese, il conte Henri Graf de Baillet-Latour che chiese la sospensione del cerimoniale in cui Hitler si intratteneva coi vincitori nella sua tribuna d’onore, perché non previsto dal protocollo"

Città del Messico 1968

Tommie Smith è d'accordo con chi vorrebbe boicottare i Giochi del Messico, in quanto un gesto del genere servirebbe a dimostrare al mondo come gli Stati Uniti si siano serviti delle loro vittorie sportive per dare un'immagine distorta delle relazioni tra i bianchi e i neri. Un ulteriore sostegno arriva da Martin Luther King. Ma nel pieno delle proteste pacifiste dei neri, che si oppongono al "draft" e alla guerra in Vietnam, ragione per cui Mohammed Ali si è visto togliere un titolo mondiale, la proposta del boicottaggio rimane una chimera.

Smith vince l'oro nei 200 metri in 19”83. Secondo arriva l'australiano Peter Norman, terzo è John Carlos. La cerimonia di premiazione, i pugni di Smith e Carlos alzati al cielo, i guanti neri nel cielo del Messico, fanno il giro del mondo. Ogni dettaglio è studiato per dare un messaggio. Sono entrambi senza scarpe, con un paio di calze nere, per simboleggiare la povertà dei neri. Smith ha una sciarpa nera al collo, per simboleggiare l'orgoglio afroamericano, Carlos ha la felpa sbottonata, omaggio agli operai che lavorano negli Usa e ha una collana di perline, idealmente una per ogni nero linciato o ucciso di cui nessuno ha pianto la morte. È una cerimonia a cui anche Norman vuole partecipare: lo fa appuntandosi sul petto la coccarda gialla dell'Olympic Project for Human Rights, un gruppo di atleti di colore che si battono contro le discriminazioni di cui fa parte anche Smith. La cerimonia di quello che è passato alla storia come il Black Power Salute è completa.

Monaco 1972

Il 15 luglio 1972, a Piazza della Rotonda, a Roma, si incontrano due alti esponenti di Al Fatah (Muhammad Dawud Awda, conosciuto come Abu Dawud, e Salah Khalaf, conosciuto come Abu Iyad) con Abu Muhammad, dirigente dell’organizzazione terroristica Settembre Nero. Inizia qui la preparazione dell'attentato del 5 settembre al Villaggio Olimpico. Fanno irruzione nella palazzina degli atleti israeliani: ne uccidono subito due (Moshe Weinberg, allenatore di lotta greco-romana, e Yossef Romano, che gareggia nel sollevamento pesi) e ne sequestrano altri nove. Alle 5 di mattina lanciano un ultimatum: entro le 9 vogliono tre aerei per lasciare la Germania e la liberazione di 234 palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Ne nasce una lunga trattativa (anche se il primo ministro israeliano Golda Meir aveva respinto l'idea), l'ultimatum viene posticipato.

Si tenta allora la soluzione estrema. Ostaggi e terroristi vengono trasferiti in un piazzale del villaggio olimpico e da lì fatti salire su due elicotteri Bell UH-1 Iroquois per l’aeroporto di Furstenfeldbruck dove, viene detto loro, avrebbero trovato due Boeing 727 della Lufthansa per il Cairo.  Ma chi ha organizzato l’operazione scopre con colpevole ritardo che gli arabi sono più del previsto. All’arrivo degli elicotteri, nasce una sparatoria che porta alla morte di cinque fedayn e di uno dei poliziotti. Gli altri membri del commando di terroristi uccidono tutti gli atleti. All’una e mezza della notte del 6 settembre 1972 finisce tutto. Ma i Giochi vanno avanti.

Mosca 1980

Alle sei e mezza di mattina del 4 novembre 1979, centinaia di studenti si riversano nell'ambasciata Usa a Teheran. Cinquantadue ostaggi vengono presi, bendati e fatti passare davanti ai fotografi. L’ayatollah Khomeini, la sera stessa, definirà l’azione come l’inizio della «seconda rivoluzione» perché l’ambasciata è «un centro di spionaggio americano». Gli ostaggi resteranno prigionieri per 444 giorni (il blitz per la loro liberazione è raccontato nel libro "Sulle ali delle aquile" di Ken Follett e nel film "Argo").
Ne sono passati cinquantaquattro quando, il 27 settembre 1979, alle diciannove, settecento soldati con le uniformi delle truppe sovietiche occupano Kabul. È l’inizio dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Da nord entrano le truppe del Maresciallo Sergei Sokolov: in due settimane le forze sovietiche salgono a centomila uomini.  Dopo l’invasione il presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter sospende le negoziazioni sulle limitazioni di armi strategiche (e non ratifica l’accordo Salt II firmato a Vienna nel 1975), condanna
l’azione dei sovietici all’Onu e il 20 febbraio minaccia di boicottare le Olimpiadi di Mosca se l’Armata Rossa non lascerà l’Afghanistan entro il mezzogiorno del 21 marzo. «Non pensavo avrebbe dato sèguito alla minaccia» dirà anni dopo Steve Scott, mezzofondista ex campione Ncaa nei 1500 metri. «Gli Stati Uniti non potevano boicottare le Olimpiadi». Si sbagliava.

Dopo l'annuncio del boicottaggio, a metà di una sessione di allenamento alla Mission Viejo
Nadadores, il nuotatore Brian Goodell, due volte medaglia d'oro a Montreal nel 1976, si ferma e si volta verso l’allenatore Mark Schubert.  «Per cosa stiamo facendo tutto questo?» chiede Goodell. «Non
lo so più» gli risponde Schubert con la voce rotta.

Los Angeles 1984

Il 1984 si apre in un'atmosfera di distensione. Juan Antonio Samaranch, presidente del CIO dal 1980, ha avviato una riforma chiave verso il professionismo degli atleti e l’effettiva universalità dell’evento a cinque cerchi. Ha creato anche la Commissione per la Solidarietà Olimpica, con lo scopo di gestire i proventi dei diritti televisivi e utilizzarli a sostegno delle nazioni povere. Un'atmosfera che rimane per tutti i Giochi di Sarajevo, la prima (e tuttora unica) Olimpiade invernale ospitata in un paese socialista.

Dopo i Giochi di Sarajevo, però, il leader sovietico, Yuri Andropov, muore. Le comunicazioni si fanno più frammentarie, i toni meno cordiali, e peggiorano con la nomina di Cernenko, l’uomo che era stato il
più vicino di tutti a Breznev. Le comunicazioni si fanno gelide finché, il 9 aprile, l’Urss accusa il comitato organizzatore di aver violato la Carta Olimpica: il casus belli è l’invito per un tour negli Usa della squadra di rugby del Sudafrica, espulso dal Cio per le politiche di apartheid.

L’8 maggio 1984 la tv sovietica afferma che l’Urss boicotterà i Giochi di Los Angeles. Accusano la
commercializzazione eccessiva, sostengono che gli Usa stiano usando l’evento «per scopi politici» e per «un’insistente propaganda antisovietica». E minacciano di portare dalla loro parte oltre
cento nazioni.

Peter Ueberroth, presidente del comitato organizzatore, organizza una squadra di inviati che spedisce nei Paesi ancora indecisi per convincerli a partecipare ai Giochi. In cima alla lista c’è la Cina: a Pechino invia
Charles Lee, all’epoca procuratore federale a Los Angeles (è stato poi giudice dell’Alta Corte) che parla fluentemente mandarino. L’ha studiato in Marina negli anni Sessanta, poi è andato a perfezionarlo due
anni a Taiwan. Sua moglie, Miranda, è nata in Cina e cresciuta a Hong Kong.

Dopo una serie di incontri con i ministri cinesi, che l’hanno accolto benissimo, Lee ottiene quello che vuole e chiede che l’accordo venga messo per iscritto. Il 12 maggio 1984 può telefonare a Ueberroth che depenna il primo nome della lista. I Giochi sono salvi.

Pechino 2008

Nell’aprile 2001, Kiu Jingmin, vicepresidente del Comitato promotore cinese, afferma davanti al Comitato Olimpico Internazionale: "Assegnando a Pechino i Giochi, aiuterete lo sviluppo dei diritti umani". Non sarà così. A otto mesi dalla cerimonia inaugurale Amnesty International rileva come "nonostante alcune riforme in tema di pena di morte e di maggiore libertà di stampa per i media internazionali, questo impegno appare lontano dall’essere rispettato. In vista delle Olimpiadi, presentiamo al governo cinese quattro richieste fondamentali: adottare provvedimenti che riducano significativamente l’applicazione della pena di morte, come primo passo verso la sua completa abolizione; applicare tutte le forme di detenzione in accordo con le norme e gli standard internazionali sui diritti umani e introdurre misure che tutelino il diritto a un processo equo e prevengano la tortura; garantire piena libertà d’azione ai difensori dei diritti umani, ponendo fine a minacce, intimidazioni, arresti e condanne nei loro confronti; porre fine alla censura, soprattutto nei confronti degli utenti di Internet". Una censura che diventa paranoia, fino al divieto di ogni ripresa televisiva da Piazza Tienanmen.

Ai Giochi si arriva con le tensioni crescenti a Taiwan e in Tibet. Ma Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, straordinario simbolo della libertà del Tibet, si pronuncia contro il boicottaggio dei Giochi. "La Cina è un grande Paese e si merita i Giochi. Penso che, per essere un buon ospite, Pechino dovrebbe prestare più attenzione alle preoccupazioni di governi e Ong sulle violazioni dei diritti umani, la libertà religiosa e di espressione, il rispetto dell’ambiente".

Alessandro Mastroluca

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