27/01/2014 12:31 CEST - PERSONAGGI

Wawrinka, morte di un perdente

TENNIS – La vittoria di Wawrinka agli Australian Open è stata drammatica per molti motivi. Il principale è che abbiamo rischiato di perdere irrimediabilmente un potenziale campione. Daniele Vallotto

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Wawrinka durante la finale degli Australian Open
Wawrinka durante la finale degli Australian Open
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Non poteva esserci partita peggiore per il miglior giorno nella vita tennistica di Stanislas Wawrinka, il perdente nato. Abituato ad essere da sempre il numero due di Svizzera, fino a domenica ha vissuto il torneo più bello della carriera. Ai quarti ha vinto uno dei match più importanti della sua carriera, vendicando una sconfitta amarissima da digerire. In semifinale ha saputo usare la testa in una condizione di perfetto equilibrio. Ma alla vigilia della finale la strada sembrava sbarrata: contro Rafael Nadal c’erano cifre, condizioni e precedenti che non lasciavano scampo al numero due di Svizzera.

Il problema non è il 12-0” ha detto il giorno prima della finale, “il problema è Nadal”. A dirla tutta il problema non era solo Nadal.  Era anche dentro di lui, incapace di vincere un set nei dodici precedenti. Un giocatore con una tempra di cristallo contro uno che ha fatto della lotta il marchio distintivo delle sue innumerevoli vittorie (e rinascite). Al Masters Stan c’è andato vicino e nonostante la dodicesima sconfitta si era capito che qualcosa poteva cambiare nel loro head-to-head. Un soffio avrebbe potuto cambiare quell'equilibrio. E quel soffio storicamente è sempre stato nei polmoni di Nadal. Ma già contro Novak Djokovic Stan ha dimostrato che qualcosa è cambiato nella sua mentalità. Tuttavia, quello che è successo ieri non ci permette ancora di capire se queste due settimane (in particolar modo la vittoria di martedì) siano il turning point della carriera di Wawrinka.

Una finale persa contro un Nadal nella condizione mostrata contro Roger Federer non avrebbe intaccato minimamente le sicurezze di un giocatore che non aveva nulla da perdere. Purtroppo una finale vinta (anche) per le condizioni inadeguate dell’avversario non ci può assicurare di aver assistito alla nascita di un nuovo Wawrinka. Perché sì, Stanislas ha giocato undici game di livello abbacinante ma quella che si è giocata dopo il 6-3 2-0 – cioè nel momento in cui Nadal ha chiamato il Medical Time Out – non è più stata una partita di tennis. Non è più stata una partita di tennis perché i dritti e i rovesci che stavano facendo arretrare sempre di più Nadal all’improvviso sono scomparsi. Tutt’a un tratto il destino di un perdente cronico ha rischiato di deragliare ancora una volta. È diventata una battaglia di nervi tra un Nadal che ha dimostrato ancora una volta di non possedere il cromosoma dell’arrendevolezza e un Wawrinka che si è fatto possedere da quello della paura, intrappolato da una partita che non poteva più sfuggirgli di mano. Stan è passato dall’underdog che non ha nulla da perdere al favoritissimo che aveva al suo cospetto un giocatore con un handicap troppo palese.

Durante la partita il dramma interiore di Stanislas mi ha ricordato un episodio dell’anime giapponese "Mila e Shiro" che spopolava nelle televisioni degli anni ’80 e ’90. Contro la sua grande avversaria Kaori Takigawa, Mila si fa impietosire dalla momentanea debolezza della rivale ed evita di infierire su un nemico in difficoltà. Ma finisce per perdere la partita. In un primo momento Stanislas è sembrato in grado di sfruttare la debolezza di Nadal ma quando lo spagnolo è riuscito a stringere i denti lo svizzero ha perso un set, palesando una pericolosa sindrome “Mila Hazuki” che ha fatto più di qualche vittima negli anni: Albert Montañes al Roland Garros 2011, per esempio. E poteva succedere davvero di tutto in quel quarto set. Ecco, forse lì Wawrinka ci ha dato una delle prove necessarie a dirci che sta per diventare un campione a tutti gli effetti. Il controbreak subìto sul 4-2 è stato un game orrendo, troppo brutto da raccontare. Subito dopo, però, Stanislas ha raccolto tutto il coraggio a disposizione per brekkare nuovamente l’avversario. E come successo con Berdych in semifinale ha indicato la testa. Perché quello non è stato un break fatto solo di dritti e rovesci. È stato soprattutto il break della consapevolezza. Aver ritrovato il miglior tennis nel momento più delicato della partita è un grandissimo merito dello svizzero e che fa ben sperare chi si augura un suo definitivo salto di qualità.

Ora che è numero tre del mondo, ora che non vedrà più sminuito il suo talento di fronte a quello del più blasonato connazionale, ora che ha passato un esame di maturità che mai avrebbe voluto affrontare (quello di giocare all’improvviso una finale Slam da favorito e doverla vincere) le strade che si aprono sono molteplici: quella dell’appagamento, certo, ma anche quella della conferma, di un Wawrinka spariglia carte, della maturità che arriva anche a ventott'anni. Da un bellissimo perdente qual era ora ha un’imperdibile chance di effettuare la svolta tanto attesa. Ieri è morto un Wawrinka e ne è quasi nato un altro. Se sarà un vincente lo sapremo tra non molto. Ma ieri abbiamo rischiato di assistere all’aborto di un campione. Perché lo sa Stan, lo sa Magnus Norman e lo sanno tutti i suoi tifosi: avesse perso una partita che prima non poteva vincere e che poi non poteva perdere, Stanislas Wawrinka non avrebbe mai più avuto la possibilità di diventare un campione.

Daniele Vallotto

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