Nadal respinge il futuro ma il tempo di Thiem è vicino (Clerici). E col rinato Del Potro sarà ancora battaglia (Bertolucci). Agassi si schiera con Nadal: "Più forte di Federer" (Semeraro). Grazie Leonessa (Lopes Pegna). Smetto ma non troppo (Azzolini). Au revoir, Francesca (Mancuso)

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Nadal respinge il futuro ma il tempo di Thiem è vicino (Clerici). E col rinato Del Potro sarà ancora battaglia (Bertolucci). Agassi si schiera con Nadal: “Più forte di Federer” (Semeraro). Grazie Leonessa (Lopes Pegna). Smetto ma non troppo (Azzolini). Au revoir, Francesca (Mancuso)

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Nadal respinge il futuro ma il tempo di Thiem è vicino (Gianni Clerici, Repubblica)

Sul palcoscenico stava profilandosi una nuova commedia. Stavo per scrivere tragedia, se il tennis non fosse un gioco. Dopo l’uscita di Federer, stava profilandosi quella di Nadal. Ad un’ora disadatta al tennis, non meno che al teatro, le due di notte, l’altro primattore Rafael Nadal stava per essere battuto da una nuova stella, che conduceva, dopo quattro ore e mezza, per 6-5 al quinto set. Mentre Federer pareva essersi dimenticato l’abituale maschera di vegliardo imbattibile, Nadal aveva salvata la propria, abituale, il suo tennis mai visto, quello di un destro divenuto mancino, il diritto dall’angolo destro, il rovescio bimane liftato o monomano tagliato, le improvvise discese a rete. Tutto quell’arsenale che aveva via via assemblato insieme allo zio Toni, per ricavarne un tennis mai visto. Ma, per una volta, aveva di fronte a sé un nuovo attore, una sorta di Federer ringiovanito di dieci e più anni, capace, sui rimbalzi, di non apparire meno temibile di rovescio che di diritto, capace di attaccare con colpi liftati o piatti, capace di cercare sempre il punto vincente. Un giovanotto chiamato Tim, anche se per l’anagrafe si scrive Thiem, così come Rafael è ormai divenuto Rafa. Tim aveva iniziato quasi Rafa fosse un dilettante sprovveduto, sforacchiandolo. Rafa non è abituato a vicende simili, ma aveva saggiamente pensato soltanto a ritrovare il suo gioco, quello di costringere l’avversario a peggiorare il proprio. Simile copione è ritornato di attualità nel secondo e nel terzo set (6-4, 7-5) per Rafa, ma si è eclissato nel quarto, in cui Tim è ritornato al suo tennis di schiaffi intelligenti. Simili termini non paiono complementari, ma per qualche fenomeno lo sono, e oggi lo erano per entrambi. Nadal, che non cessava di correre non meno del giovane, ha risalito quel tiebreak da 0-3, poi da 2-5, arrestandosi sul 4-6. Ed eccoci al quinto atto. Incollati i due fenomeni, lontani non più di un punto. Nadal 4-3, poi Tim 5-4, su una riga mancata da Rafa di un cm. E ancora Rafa con una seconda al corpo, 5 pari, 6-5 con una volée seguita da uno smash, e un definitivo smash, mancato da Tim. Così terminava uno spettacolo di 4 ore e 49 minuti, lo stadio rigurgitante di spettatori che non se n’erano andati. Terminava con Rafa che dichiarava sinceramente agli spettatori che gli spiaceva per Tim «ma sono riuscito a dimenticare un primo set nel quale ho vinto solo sei punti». E ripeteva emozionatissimo «Ho giocato contro un grande. Uno dei migliori del tour»… [SEGUE].


E col rinato Del Potro sarà ancora battaglia (Paolo Bertolucci, Gazzetta dello Sport)

In molti fremono nella speranza di poter assistere ad una nuova epica battaglia come quella che ha visto prevalere di un soffio Rafa Nadal sull’eroico Dominic Thiem. Le aspettative non sono certo campate in aria. Juan Martin Del Potro, odierno avversario dello spagnolo, possiede un prezioso arsenale tecnico, una notevole cilindrata fisica e un cuore immenso. Uscito prepotentemente dall’ombra in cui era stato relegato dai gravi infortuni al polso, l’argentino è tornato a respirare l’aria rarefatta del vertice mondiale grazie al micidiale dritto, al penetrante servizio e al ritrovato rovescio bimane. Dovrà essere in grado di creare e proporre gioco limitando i gratuiti evitando di farsi trascinare in un duello basato sulla corsa. Dal canto suo Rafa farà affidamento sulle sue proverbiali attitudini tecniche e sulla continuità mentale. Il suo tennis percentuale e la consueta ragnatela da dietro formeranno la base tattica ma lui è molto più di questo. Negli anni ha cambiato pelle, ha ampliato le soluzioni, non disdegna la smorzata e frequenta con maggior assiduità la rete… [SEGUE]. 


Acciaio Nadal. Thiem perde la maratona di New York (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)

Rafa Nadal spiega che vittorie come quella di martedì notte contro Dominic Thiem restano impresse nell’anima. «Se sai di aver dato tutto, non ha importanza il risultato: vai a casa soddisfatto. Certo è meglio vincere, ma anche dopo la sconfitta con Djokovic a Wimbledon non ero abbattuto. Contro Thiem ho avuto pure un pizzico di fortuna. Mi dispiace per lui: è un bravo ragazzo che farà tanta strada». Il numero uno del mondo parla alle tre del mattino, meno di un’ora dopo aver chiuso la sua ennesima maratona (4h48′) di cinque set: la sua specialità. È stato il suo match più lungo agli Us Open e il più lungo del torneo fino adesso. E in questi cinque incontri è rimasto sul cemento sempre bollente per 15h54′. Quando la differenza sono i dettagli e pochi punti, Rafa non fa quasi mai prigionieri. Con Thiem, che aveva battuto in finale al Roland Garros (e 7 volte su 10), l’ha spuntata al tie-break del quinto set, quando l’austriaco ha mandato malamente lungo uno smash. La sfida (la prima sul duro) era partita con un «bagel» (la ciambella di pane della New York ebraica) come gli americani chiamano qui il set in cui perdi a zero. Già, 0-6 al primo con la miseria di sette punti: gli era capitato due volte in uno slam nella frazione iniziale (finale Wimbledon del 2006 con Federer e al 2° round Us Open 2004 con Roddick) e aveva perso la partita. Non stavolta. «Sullo 0-4 ho pensato soltanto a finire in fretta, dimenticare l’accaduto e ricominciare da capo in quello successivo», racconta. La chiave? «Combatto fino all’ultimo: non mollo mai. E poi…». E poi? «Non cerco alibi. Non incolpo la racchetta o la tensione delle corde. Guardo solo me stesso. Mi sono detto: “Svegliati Rafa”. L’ho fatto». È felicissimo perché è in semifinale per la 7a volta su 13 partecipazioni. È il campione in carica con altri due titoli qui a Flushing (dei 17 Slam totali), ma nelle due edizioni precedenti non riuscì neppure ad arrivare ai quarti. Per noi resta storica la sua eliminazione al terzo turno del 2015: lo mandò a casa Fognini, con Rafa sopra di due set. A 32 anni sa bene di non avere più davanti un lungo futuro. Anche nel cuore della notte, risponde con serenità: «So che non mi rimane molto tennis da giocare. In questi anni mi sono dovuto fermare spesso per infortuni, ma proprio quei momenti difficili mi hanno permesso di capire quanto fossero pregiati tutti i successi passati. Quando torni in campo, poi apprezzi molto di più ogni singolo istante che riesci a passare con un racchetta in mano» [SEGUE].


È davvero Nadalissimo (Roberto Zanni, Corriere dello Sport)

«Sono sicuro che nella mia carriera, a causa degli infortuni, ho dovuto saltare più Slam di tutti, paragonandomi con i top player». Rafa Nadal dopo i 289 minuti di pura battaglia agonistica con Dominic Thiem è più che mai lanciato alla conquista del suo 18° Slam, che sarebbe anche il secondo consecutivo a New York (quarto in totale). E visto che Roger Federer, già a casa, con 20 guida la specialissima classifica, ecco che lo spagnolo in poche parole ha anche spiegato il motivo per il quale lassù, almeno per ora, non c’è lui: 32 anni, cinque in meno dello svizzero, non c’è dubbio però che il futuro, più o meno improvvisamente, adesso sia di nuovo tutto per Rafa. Numero 1 al mondo e non solo per i freddi numeri del ranking, dopo quello che si è visto martedì notte. Quattro ore e 49 minuti di gioco a livelli esasperati, una partenza shock, 6-0 per Thiem, poi il successo artigliato al tie-break nel quinto set. Roba d’altri tempi, epico ha scritto l’Atp sulla propria webpage, che ha tenuto il pubblico dell’Arthur Ashe Stadium incollato alla sedia fino alle 2.04 di notte compreso l’attore Ben Stiller, una delle tante star apparse a Flushing Meadows, seduto proprio nel box del team di Rafa. Nadal e Thiern, appena l’ultima pallina aveva segnato la fine del match si sono abbracciati a rete e così hanno proseguito fino a bordo campo, parlando tra loro. «Davvero, mi dispiace per Dominic – le prime parole di Rafa – un vero amico nel tour, un grande ragazzo, un grande giocatore e un grande avversario». Il quarto di finale andato in scena martedì sotto le luci di New York è stata la classica partita che avrebbe dovuto avere due vincitori. «Mi dispiace per lui – ha ripetuto Nadal – è uno di quelli forti, uno dei migliori del tour. Gioca sempre e si allena con una straordinaria attitudine. Ed è triste per lui perchè quando arrivano questi momenti, ha fatto tutte le cose per vincere la partita. Anch’io, credo. Ho lottato fino all’ultimo, così alla fine è sempre una questione di quel pizzico di fortuna». Unico giocatore del tour quest’anno a raggiungere almeno i quarti in tutti e quattro gli Slam, Nadal ha centrato per la settima volta la semifinale di New York, dodicesima partita vinta di fila agli U.S. Open… [SEGUE]. E nel tentativo di eguagliare John McEnroe, quattro titoli a New York (nell’era Open al comando con 5 ci sono Connors, Sampras e Federer), come l’anno scorso si troverà in semifinale l’argentino Juan Martin Del Potro (3 al mondo). Il bilancio è 11-5 per lo spagnolo, ma nel 2009, l’anno del successo di Delpo a New York, anche allora la semifinale vide la sfida iberico-argentina. Sarà quindi tra i due la terza semi a Flushing Meadows, senza dimenticare che quest’anno si sono già incrociati a Parigi e Wimbledon, doppietta Rafa… [SEGUE].


Agassi si schiera con Nadal: “Più forte di Federer” (Stefano Semeraro, Stampa)

Andre Agassi, campione amatissimo, è uno degli otto uomini che sono stati capaci di vincere in carriera tutti e quattro i tornei dello Slam e in questi giorni è agli Us Open anche nella veste di ambasciatore del marchio Lavazza – l’unico, a sua volta, a comparire come sponsor nei quattro ‘major’. Andre, cosa l’ha impressionata nell’ennesima impresa di Rafa Nadal, vincitore in cinque magnifici set contro Thiem nel quarti di finale? «Rafa ci ha dato un altro esempio del motivo per cui lo ammiriamo. Non importa l’occasione, il turno o l’avversario: dà sempre il massimo, con professionalità assoluta. Mi impressiona come sa mettere il 100 per cento dell’energia, sia morale sia fisica, in tutto quello che fa. Non l’ho mai visto comportarsi diversamente». Federer invece è inciampato contro Millman: è sul viale del tramonto? «Vuole una previsione? Semplice: da qui in avanti Roger perderà più di quanto vincerà. Credo possa ancora giocare al massimo livello. Forse aveva bisogno di qualche match in più, sicuramente l’anno prossimo dovrà prendere molte decisioni importanti. Quando smetterà? Non so dirlo: mi ha sorpreso già più di una volta in passato». Come capisce un n.1 quando è il momento di fermarsi? «Nel mio caso è stato il mio corpo a dire stop. Ci deve essere un equilibrio tra la tua vita e gli sforzi che richiede essere numero 1. Ognuno ha il suo punto di rottura, mentale o fisico, a un certo punto non ce la fai più. Ma lasciamo che sia Federer a decidere il suo». Nadal o Djokovic possono battere i suoi record? «Nadal come numero di Slam vinti è più vicino, ma quando ho lavorato per nove mesi con Novak ero convinto che avrebbe vinto due Slam all’anno minimo per altri tre anni. Tutti e due hanno la possibilità di farcela. Per Nadal dipende molto da quanta energia gli rimane, ma può vincere l’anno prossimo al Roland Garros e anche qui. Solo il tempo ce lo dirà». E vero che secondo lei Nadal può essere considerato il più grande di sempre? «La mia idea era una risposta a quanti sostengono che Federer sia indiscutibilmente il numero 1: come puoi esserne così certo? Ci sono diversi motivi per cui potremmo dire la stessa cosa di Nadal. E anche Djokovic, alla lunga, potrebbe rivendicarlo. Rafa è sicuramente il più grande agonista nella storia dello sport, non solo del tennis, Federer fa sembrare tutto facile. Certo, 20 Slam sono 20 Slam. Ma i numeri non dicono tutto». Cosa manca ai giovani che stentano a emergere? «Gli mancano gli Slam… Ma non è facile, se quei tre davanti ti lasciano le briciole. Thiem ha un tennis molto potente, sta facendo grandi progressi sul cemento e sarà il prossimo n. 1 sulla terra. Kyrgios ha il talento per diventare più forte di tutti, ma si fa distrarre. Per essere il n.1 il talento non basta, ma lo capisci quando maturi»[SEGUE]. È d’accordo sul tie-break al quinto set in tutti i tornei per limitare i match-maratona? «Sul 6 pari del quinto set bisognerebbe tirare la monetina. Non ha senso continuare una guerra sanguinosa solo per scoprire, come è successo quest’anno a Wimbledon, che chi ne esce vincitore non ha poi chance di vincere la finale. Anche per gli spettatori non è bello sapere prima chi vincerà la partita». Adriano Panatta teme che il futuro del tennis sarà una guerra fra muscolari sfasciapalline. E lei? «Fracassare palline non sarà mai sufficiente per diventare Federer o Nadal. Serve molto di più, non si preoccupi neanche Adriano…».


Grazie Leonessa. “Basta così, ho realizzato i miei sogni” (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)

È vestita da tennista come se dovesse scendere in campo, Francesca Schiavone. Anche se nel foglio scarabocchiato che ha davanti a sé ha scritto le parole che decretano la fine di una fetta importante della sua vita: si ritira. La Wta le ha concesso l’onore delle armi: la sala interviste numero uno, quella riservata ai grandi personaggi. Almeno per un’ultima volta. Va dritta al punto, Francesca, come se si volesse togliere il peso il più in fretta possibile. «È questo un momento memorabile. Sono qui per dire addio al tennis. Ho preso la decisione con il cuore, perché con la testa vorrei andare a lottare e a battere molte di queste ragazze. Ma il cuore mi suggerisce che sono in pace e felice per tutte le soddisfazioni che mi sono tolta in carriera e nella vita. Perciò mi sveglio la mattina e mi sento bene». A 38 anni, è scesa a n° 454 del mondo e nei pochi tornei che ha giocato nel 2018, nei tabelloni principali, non ha più vinto. Era una scelta scontata, prima o poi doveva succedere. «Dopo Parigi ci ho riflettuto per due o tre mesi, poi ho capito che era la cosa giusta da fare. Ho chiamato la Wta perché il momento è adesso: dovevo coglierlo». Una pausa. La voce si strozza, gli occhi si inumidiscono: «Voglio ringraziare la mia famiglia: grazie mamma, grazie papà. Non volevo piangere, ma non riesco a trattenermi. Sono una passionale, forse per questo sono sempre stata un po’ matta e ho avuto degli alti e bassi». Finalmente sorride: «Oggi è un giorno lieto, non uno triste e stasera stapperò una bottiglia di champagne». Si ferma un attimo e scruta la platea. Poi dice: «Quando avevo 18 anni avevo due sogni: vincere il Roland Garros ed entrare nelle Top 10 donne del mondo. Li ho realizzati entrambi e per questo sono felice e fortunata». È stata la prima italiana a conquistare uno Slam, nel 2010 a Parigi (è ancora l’unica ad aver espugnato il Roland Garros), e l’unica a centrare due finali di un Major, sempre Parigi l’anno seguente. Diventò numero 4 del ranking nel 2011, posizione mai raggiunta da nessun altra azzurra, dopo la vittoria agli ottavi degli Australian Open contro la Kuznetsova. Ora ha altri sogni che vuole inseguire: «Un giorno mi piacerebbe venire a uno Slam come allenatrice di un mio giocatore. Sarebbe una soddisfazione grandissima». Sarà questa la sua nuova esistenza professionale nella sua casetta di Miami, dove risiede da alcuni anni. «Da alcuni mesi sto già allenando. È molto differente da quello che facevo, ma c’è sempre la passione per questo sport e la possibilità di insegnare quello che so. Ci sono alcune nozioni per me fondamentali che ho appreso giocando a tennis: essere una persona semplice, umana e di avere un bell’atteggiamento». Un’altra pausa per riflettere: «Ho molti esempi in testa. Gente come Roger (Federer), Rafa (Nadal), Serena e Venus (le Williams). È stato un onore poterci giocare e crescere con loro». Ritiene che la sua partita più bella fu con la Li Na a Parigi, quando la eliminò al 3° turno l’anno della vittoria. Se potesse affrontare qualcuna in una finale sarebbe Serena: «Ma non qui agli Us Open, troppo dura. No, sulla terra, così avrei più possibilità di batterla». Pensa che uno dei momenti più memorabili sia stato il match con la Sugiyama su questo cemento nel 2003 al quarto turno: «Una sfida che durò quattro giorni e con cui mi qualificai per i quarti. Mi portarono qui per l’intervista in questa stessa stanza: ero felice. Ma quella gioia durò pochissimo perché due ore dopo mi batté la Capriati. Però ho una memoria nitida e bella di quei giorni». Ripensa a quando con la Kuznekova stabilì il primato per la partita (ancora oggi) più lunga del tennis femminile (4h44′) agli Australian Open del 2011: «Ci sono degli highlights che durano mezz’ora e mi dico: “Ma come ho fatto a giocare per tutto quel tempo?”». Ricorda con piacere le tre vittorie in Fed Cup: «Giochi per il tuo Paese e non per soldi. E ho avuto l’opportunità di vincerla tre volte con mie colleghe che erano anche amiche. Un’esperienza straordinaria»[SEGUE].


Grinta, estro e super rovescio. Da ragazza di periferia a regina (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Il ciclo si chiude, la porta dorata di una generazione irripetibile non solo per il tennis, ma per tutto lo sport italiano, lascia dietro di sé la primogenita, colei che aprì la strada a un percorso lastricato solo di gloria e che ha trasformato la storia sua e di un gruppo di donne formidabili e di amiche per la pelle, legate dal sacro fuoco della competizione e del successo, in una leggenda che non finiremo mai di raccontare. Francesca Schiavone è stata unica, e non soltanto perché per una semplice questione anagrafica è arrivata prima delle altre a rivoluzionare le racchette in rosa in un decennio travolgente: unica perché in lei il tennis si è fatto vita, quotidianità, espressione dei sentimenti più puri e carnali, gioia e dolore, senza lo schermo della finzione. Francesca è sempre stata lei, prendere o lasciare, con il suo carico di emozioni e di adrenalina che finiva per catturarti e coinvolgerti oppure, perché no, respingerti. Lo ha detto lei stessa mille e mille volte, lo ha ripetuto come un mantra: il suo tennis è, o meglio era, istinto animalesco. E dunque con uno stile assolutamente non riproducibile, colpi piatti e taglienti appesi a un rovescio a una mano di una bellezza stordente e a un dritto penetrante e potente, mescolati a un estro di artista condito da smorzate, volée, attacchi in controtempo. Una meraviglia d’altri tempi. La Schiavone nasce a Milano, nel quartiere popolare del Gallaratese, che nel 1980 è ancora periferia lontana di gente perbene arrivata dal Sud con il boom economico. Papà Franco, origini irpine, è autista Atm, mamma Luiscita, bresciana, casalinga: i campi del Tennis Milano, in via Cilea, sono davanti a casa. Francesca comincia lì e a 20 anni è già al terzo turno degli Us Open e in finale a Tashkent. Ma per una sorta di maledizione, all’enorme talento non si abbina la gloria sublime di una vittoria: nelle prime otto finali giocate, fino al 2006, perderà sempre. Eppure nel 2002 ha scalzato la Farina dal ruolo di prima giocatrice d’Italia, eppure quel gioco scintillante dovrà per forza approdare allo zucchero dei trionfi. Nonostante il tennis rappresenti l’essenza dell’individualità, sarà una gara a squadre, insieme alla maturazione come donna («Sono sempre stata una vera, ma all’inizio ero troppo chiusa in me stessa»), a illuminare la scintilla del paradiso. In Fed Cup incrocia prima la Pennetta e la Vinci, poi la Errani: le differenze diventano presto unità, gli stimoli reciproci conducono ciascuna di loro a crescere e migliorare. È del 2006 il primo successo, la Schiavone ci aggiunge, nel primo turno, la vittoria sulla Mauresmo, allora numero uno del mondo. È il segno dell’esplosione, della consapevolezza raggiunta, della Schiavone che diventa Leonessa e può cavalcare i sogni più reconditi come fa con la Ducati Monster quando vuole godersi la libertà. Fin da bambina, non si è persa una finale del Roland Garros, memorizzando ogni discorso delle vincitrici, sicura che un giorno sarebbe toccato a lei. Profetica e mitica. L’apoteosi nel 2010, con il trionfo sulla Stosur, il bacio con discorso alla terra rossa e i complimenti di McEnroe («Hai una volée migliore della mia»). Uno Slam, prima donna italiana a riuscirci… [SEGUE].


Smetto ma non troppo (Daniele Azzolini, Tuttosport)

«Smettetela di chiedermelo», diceva tempo fa, con il sorriso di chi la sapeva lunga, «una come me non si ritirerà mai dal tennis». In fondo, non è così? Dicevano fosse il giorno dell’addio, quello di ieri, ma non è mica vero… Anche SchiavoChannel, su YouTube, fa le bizze, si rifiuta di collaborare, di mostrarla in conferenza stampa, di mettere la parola fine. “The End” non esiste, non per lei. Nessuno sente il bisogno di dire che Francesca Schiavone si è ritirata dal tennis, perché non è la verità. Ha solo detto che cambierà il suo modo di stare in questo nostro sport. E allora, se permettete, cosa cambia? Non più giocatrice ma coach, ha davvero importanza? Per noi no. Francesca sarà da domani quella che è stata fino a oggi, che era anche ieri, e lo è stata così a lungo che qualcuno si è messo lì a fare i conti ed è saltata fuori una cifra iperbolica: 8 mila e 58 giorni di tennis, 8.058 giorni con noi. Francesca è la giocatrice del primo Slam italiano, la ragazza che ha guardato negli occhi il sole, la tennista dei sogni che finiscono solo per dare spazio ad altri sogni, e poi altri ancora, in un gioco infinito che ha irrorato di sé tutto il nostro tennis. Francesca è la giocatrice che vale sempre il prezzo del biglietto, che anche nella peggior partita ti regala un momento che ti fa balzare in piedi e ti fa sentire contento di essere lì. Francesca è un rovescio a una mano tutto istinto e naturalezza. Francesca è l’atleta che ha posto il lavoro alla base di tutto, l’umiltà come condizione senza la quale non ci sarebbe stato tutto il resto, ma non è mai stata umile nella scelta dei colpi e delle soluzioni per battere le sue avversarie, anzi è stata ardita, spesso sopra le righe, e ha tentato il tutto per tutto, sempre: perché il tennis non è per gli umili se vuoi vincere il Roland Garros ed entrare nelle prime dieci del mondo. E lei quello voleva, quello ha inseguito e infine raggiunto. Quando ha vinto il Roland Garros nel 2010 Francesca ha prima baciato poi mangiato la terra del Philippe Chatrier. Il bisogno di immergersi sino in fondo all’anima nello sport che ama, fino a sentirlo sul proprio corpo: questo è stato il suo spirito guida, una gestualità quasi pagana, che le ha permesso di vivere intensamente l’avventura e di restare in campo fino a 38 anni. Più di ogni altra, più delle altre italiane, sue amiche, protagoniste con lei di uno dei periodi più belli del nostro sport, Francesca ha mostrato che il tennis si può affrontare fino in fondo sognando, sorridendo, divertendosi, imparando. Non più giocatrice nel circuito, ma tennista sempre… [SEGUE]. Non è l’annuncio di un addio, il suo. Ma di una vita che continua, di un tennis che non finisce qui. L’augurio nostro è che sia sempre emozionante, divertente, e le dia sempre qualcosa di nuovo da imparare.


Au revoir, Francesca (Angelo Mancuso, Messaggero)

«A 38 anni è arrivato il momento di dire basta e ho deciso di comunicarlo»[SEGUE]. Superfluo addentrarsi in annosi dibattiti sul fatto se sia stata la più forte o meno tra le tenniste azzurre. Di sicuro è stata l’apripista di un miracolo italiano. E forse neppure miracolo è la parola adatta, perché l’epopea che ha portato in cima al mondo il nostro tennis femminile (dopo di lei Flavia Pennetta. Roberta Vinci e Sara Errani) è fondata sul lavoro, sul sacrificio. Oltre che, naturalmente, sulle qualità tecniche. Grazie Francesca, dunque, per le emozioni e le sfide leggendarie che ci hai regalato. Al di là degli 8 titoli vinti (l’ultimo a Bogotà a 37 anni la passata stagione), delle 4 Fed Cup alzate al cielo, del n.4 del ranking raggiunto nel 2011: mai nessuna azzurra così in alto. Perché il mondo della Schiavone è ben più complesso dell’incredibile successo a Parigi, quando il 5 giugno 2010 è diventata Nostra Signora dello Slam. Qualcuno aveva baciato la terra rossa, qualcun altro ci si era tuffato. Qualcun altro ancora ci aveva dipinto un cuore grande così. Ma nessuno l’aveva mangiata, come ha fatto lei. Viene da una famiglia modesta e ciò ne accresce i meriti. Nel 1951 suo nonno emigrò a Milano perché aveva trovato lavoro presso l’ATM, l’azienda trasporti milanese. Arivava da Manocalzati, un paesino di 3.000 anime in provincia di Avellino. Con lui il figlio Francesco, Ilenne, futuro papà di Francesca dopo essere convolato a giuste nozze con la signora Luiscita. Pure lui ha lavorato presso l’ATM. Gente semplice, gli Schiavone. Nessun background tennistico: abitavano nel quartiere Gallaratese. È cresciuta in un immenso casermone che era il secondo condominio più grande d’Europa: oltre mille famiglie e tanti parchi giochi. Sin da bimba aveva un carattere competitivo, da maschiaccio per intenderci. Il colpo di fulmine con il tennis a 8 anni: a due passi c’era un piccolo club con 4 campi. Da quel piccolo circolo di periferia Daniela Porzio, ex n.1 d’Italia, la portò al prestigioso Tennis Club Milano. Poi la solita trafila con annessi gli studi di ragioneria. La notarono a Roma e venne convocata presso il Centro Tecnico di allora. Lì conobbe la Pennetta, compagna dei futuri trionfi, persino amica, nonostante l’ovvia rivalità. Ha giocato il suo primo match nel circuito nel 1999, quando ancora c’era la lira. Nel 2001, giovanissima, raggiunse i quarti al Foro Italico e disse: «Sono una bomba pronta a esplodere». Ha avuto ragione lei: il resto è storia nota. Oltre allo storico titolo del Roland Garros, 70 Slam giocati: è l’unica italiana ad aver raggiunto almeno i quarti in tutti e 4 i Major. La “Leonessa”, così l’hanno soprannominata.

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