Diavolo De Minaur. Liam si arrende: “Ma parto da qui” (Crivelli). Tiafoe, sogno americano alla conquista di Milano (Cocchi). Rublev vince poco convinto (Semeraro)

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Diavolo De Minaur. Liam si arrende: “Ma parto da qui” (Crivelli). Tiafoe, sogno americano alla conquista di Milano (Cocchi). Rublev vince poco convinto (Semeraro)

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Diavolo De Minaur. Liam si arrende: “Ma parto da qui” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Il Demone ha gli artigli ancora troppo aguzzi per coltivare qualche speranza di consegnare all’Italia il primo successo alle Next Gen. E d’altronde la classifica è li a marcare tutta la differenza del mondo: «Demon» De Minaur, il nuovo Hewitt, è numero 31 del ranking e in stagione ha vinto 24 partite (e giocato due finali), mentre Liam Caruana boccheggia per adesso al numero 622 e alle spalle ha un solo match Atp in carriera, malgrado l’anno in più rispetto al rivale australiano (20 a 19). Quindi umiltà, innanzitutto: «Su cosa devo migliorare? Su tutto. Ma mi piace essere aggressivo,  dunque non devo snaturarmi.  Devo continuare a cercare di aggredire e di andare a rete quando posso. Poi spero di ritrovarmi, fra un anno, più in alto di dove mi trovo ora». Milano per cominciare a sognare. Tre giorni con ragazzi della propria età già ben introdotti al piano superiore, mentre Liam ha faticato tutto l’anno tra Futures e Challenger. Da piccolo papà Max lo portò con sé negli Stati Uniti per riunire lui e il fratello agli altri tre figli avuti da un precedente matrimonio. Sotto il sole della California il piccolo Caruana dimostra subito doti innate con la racchetta: «Quando ha compiuto 12 anni – racconta il padre, che è anche suo coach – ci siamo resi conto che poteva avere un futuro come tennista: intanto, era già diventato il più forte dello Stato nella sua categoria d’età, proprio davanti a Taylor Fritz». Ma due anni dopo sarà un viaggio in Texas, al Tennis Ranch di Austin della leggenda John Newcombe, a cambiare la vita a genitore e figlio: «Aveva ottenuto un invito, doveva rimanere tre mesi e invece è ancora là». I campi veloci plasmano subito il suo gioco tutto all’attacco, l’iscrizione al college per un semestre lo rende eleggibile per vestire la ma glia degli Stati Uniti («Ma fu un errore dell’Itf», spiega papà Max) e il suo ultimo torneo da «americano» è del 2016, in Costa Rica. Da quel momento, la Federazione italiana gli garantisce copertura economica e logistica, tanto che Tirrenia, insieme a Austin e all’Argentina, diventa uno dei tre poli della sua preparazione. Spostamenti che Liam finirà per pagare proprio quest’anno: «Con la sua classifica – analizza il genitore-coach – il calendario è per forza compresso e fare base in due continenti per allenarsi gli ha sottratto energie: dopo un buon inizio di stagione (n. 375, ndr) è calato molto. Ma non serve a nulla piangersi addosso, oggi il giocatore di livello deve essere forte soprattutto fuori dal campo, deve essere in grado di gestire i viaggi e le situazioni complicate da solo, senza più l’ombrello di papà. Non ho mai pensato che si possano scindere le due figure, quella di genitore e quella di allenatore: non si finisce mai di essere padre. Se mi accorgessi che non è più così, smetterei di seguirlo nella parte tecnica». Affidata in ogni caso anche ad altri tre coach a rotazione, tra cui l’argentino Monachesi: «E’ importante avere più punti di vista – afferma Max – e la funzione di un padre è pure quella di insegnare al figlio a seguire i consigli dati dal resto dello staff». Ma i Caruana, tra un anno, potranno dirsi soddisfatti di fronte a quale progresso in classifica? «Non è una questione di numeri – ammette Caruana senior – tant’è che non sappiamo ancora quali tornei giocheremo a gennaio. Siamo consapevoli che il ranking per adesso non ci consente voli di fantasia, è già stata una bella impresa qualificarci alle Next Gen, ma adesso dovrà ributtarsi nel circuito minore. In qualche partita, quest’anno, Liam è stato alla pari contro avversari top 100, l’obiettivo è di dare continuità a quel livello. Mentalmente credo sia già preparato». Con l’ultimo tocco: «Per essere competitivo, un giocatore deve vincere anche quando gioca male». E allora auguri di tante brutte vittorie, Liam.

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Tiafoe, sogno americano alla conquista di Milano (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Lo scorso anno non ci è riuscito: «Non le ho nemmeno guardate in tv, mi scocciava non essere lì a Milano con gli altri», stavolta invece se la sta godendo. Prima del torneo, Frances Tiafoe è andato a vedere la partita di Eurolega dell’Armani Jeans insieme al collega Jaume Munar, allievo prediletto dell’accademia di Rafa Nadal. Frances ha esordito ieri sera con la vittoria contro il polacco Hubert Hurkacz, entrato in corsa dopo il forfeit del canadese Denis Shapovalov. La novità delle regole lo agitava alla vigilia: «E un format molto divertente — ha detto Frances — prima di entrare in campo ero nervosissimo, non sapevo cosa aspettarmi e invece poi tutto è filato liscio!». La qualificazione è stata la ciliegina sulla torta di una stagione che l’ha visto sollevare il primo titolo Atp della carriera a Delray Beach e chiudere la stagione nella top 40: «Essere qui a Milano è il modo migliore di festeggiare un 2018 bellissimo, sono contento di essere con gli altri ragazzi». Tiafoe ha avuto modo di apprezzare alcune delle novità sperimentate in campo: «Giocare senza i vantaggi è particolare, penso sia molto divertente per il pubblico. Ma se dovessi portarne subito una sul circuito penso che prendere gli asciugamani da sé sia una buona idea. Tiafoe è forse la speranza più concreta per il futuro degli Stati Uniti, potente ma ancora avvezzo a qualche errore di gioventù. Nel tennis giovanile aveva già fatto grandi cose affermandosi come il più giovane vincitore dell’Orange Bowl: era il 2013 e aveva appena 15 anni. Tiafoe è l’incarnazione del sogno americano: suo padre Frances senior e la mamma Alphina Kamara sono originari della Sierra Leone, dove hanno vissuto sulla loro pelle la povertà più dura: il padre ha iniziato da ragazzino a lavorare in miniera per sopravvivere e aiutare la famiglia. Frances e Alphina sono poi scappati negli Stati Uniti per scampare alla guerra civile. In Maryland hanno allargato la famiglia con Frances jr e il fratello gemello, Franidin. Per mantenere i figli, papà Tiafoe trova lavoro come operaio per la costruzione di un centro tennistico, dove poi continuerà a lavorare come custode. E’ proprio lì che Frances jr si appassiona a quella pallina gialla: «Ho iniziato a giocare contro il muro, tutto il giorno. Era divertente, possiamo dire che la racchetta è stata per lungo tempo la mia babysitter».

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Rublev vince poco convinto (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Il nemico comune di Andrey Rublev e Stefanos Tsitsipas, nella prima giornata delle Atp Next Gen Finals di Milano, è stato l’asciugamano. I due sono i favoriti di questa edizione e ieri hanno tenuto fede ai pronostici, Tsitsipas superando in quattro set (corti) Jaime Muna; lo spagnolo che si allena all’Academy di Rafa Nadal a Manaco; e Rublev faticandone cinque contro Taylor Fritz, l’unico fra gli otto “maestrini” ad essere già marito e papà. Alla fine hanno avuto entrambi da ridire sulla nuova regola (sperimentale) che obbliga i tennisti a occuparsi dell’asciugamano, invece di farsi servire come al solito dai raccattapalle. «In campo voglio pensare solo al tennis, non badare a dove ho lasciato l’asciugamano», ha borbottato Tsitsipas. «Quello è un compito dei raccattapalle». Apriti cielo (o internet): sui social sono piovuti commenti acidi sui capricci da divo di Stefanos. Più accomodante e spiritoso Rublev, che però ha confessato di aver vissuto qualche momento imbarazzante. «È una regola, quindi va bene, ma dovevo sempre ricordarmi di prenderlo prima del cambio campo. C’è stato un momento in cui me lo sono proprio dimenticato e dopo essermi seduto sono dovuto andare a riprendermelo». Il russo è l’unico fra i partecipanti della scorsa edizione a non aver migliorato il ranking a fine 2018 (anche se a febbraio era arrivato fino al n. 31, ora è 68), complice anche un infortunio alla schiena che lo ha tenuto fermo da aprile a luglio. «Ultimamente non ho fatto neppure i test – ha spiegato – perché magari salta fuori che c’è qualche problema e mi fermano ancora…». Nel 2017 è esploso vincendo, da lucky loser il suo primo torneo a Umago, e agli US Open ha sorpreso il n. 9 Dimitrov e il n. 14 Goffin. «Sono state vittorie importanti, ma ora è tempo di lavorare più duro e diventare forti. L’esperienza contro i top player mi ha insegnato che non conta solo il talento, ma soprattutto la continuità di rendimento». Andrey si allena in Barcellona ed è grande amico di Karen Khachanov, il vincitore di Djokovic a Bercy che l’anno scorso perse subito a Milano. «Ci siamo messaggiati, non l’ho mai sentito così felice. Uscire nei gironi a Milano per lui fu dura, vedere quello che è riuscito a fare è una motivazione in più per vincere qui». Milano, del resto, a Rublev piace. «Mi è mancato il calore del pubblico. Quest’anno i campi sono due volte più veloci, e la trasportation è migliorata, per il resto è tutto uguale. Forse i ragazzini che corrono attorno al campo sono ancora più rumorosi, ma è ok». Solo le regole, compresi i set a 4 game, non gli vanno proprio giù. «Livellano troppo le differenze: guardate a Tsistsipas che ha dovuto faticare con Munar. Non serve essere forti fisicamente, e questo non va bene, perché il tennis non è così. Qui contano tanto la fortuna e la concentrazione». Quella, però, meglio non perderla dietro ad un asciugamano.

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