Brian Vahaly e il suo coming out: “L’ATP non aiuta i gay a sentirsi parte del tennis”

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Brian Vahaly e il suo coming out: “L’ATP non aiuta i gay a sentirsi parte del tennis”

Quando l’ex numero 64 del mondo disse apertamente di essere gay ricevette oltre 1000 messaggi da parte degli hater, comprese minacce di rapimento per i suoi figli. Nonostante questo, spera che il suo percorso di auto-accettazione ispiri anche altri

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Brian Vahaly ai tempi della sua carriera da professionista (Credit: @Tennis on Twitter)
 

Qui l’articolo originale di ubitennis.net

L’americano Brian Vahaly non ha mai vinto un titolo ATP durante la sua carriera, ma in tanti lo considerando un apripista del mondo del tennis. Da giovane si impose come una delle più brillanti promesse del circuito juniores vincendo l’Easter Bowl e arrivando tra i primi venti al mondo. Dopo questi successi, Vahaly non passò subito al circuito maggiore ma scelse di giocare al college e laurearsi, un approccio che non era così comune a fine anni Novanta, a differenza di quanto succede adesso. Rappresentando Virginia raggiunse anche la finale del campionato NCAA da non testa di serie.

Da pro, Vahaly ha raggiunto un best ranking di numero 64 ATP e ha vinto cinque titoli Challenger. Durante la sua carriera ha affrontato giocatori come Micheal Chang, Andre Agassi, Juan Carlos Ferrero, Lleyton Hewitt, Carlos Moya e Gustavo Kuerten. Verso la fine della sua carriera, gli infortuni hanno iniziato ad ostacolare le sue performances sul circuito. Brian si è ritirato nel 2006 all’età di 27 anni e undici anni dopo ha detto per la prima volta di essere gay in un podcast. Una mossa coraggiosa che Vahaly spera possa ispirare altri nonostante tutta la negatività che ha ricevuto. Brian ha detto a Ubitennis.net che dopo quel podcast ha ricevuto più di 1000 messaggi d’odio. Nell’Open Era non c’è mai stato un tennista apertamente gay che abbia preso parte a un torneo del Grande Slam.

Oggi Vahaly vive a Washington con suo marito Bill Jones; la coppia ha due gemelli. Attualmente è l’amministratore delegato di Youfit Health Clubs, e ha deciso di parlare ad Ubitennis del percorso di accettazione della realtà che dovrebbe fare il tennis per essere più inclusivo verso i giocatori LGBTQ, della gestione della sua salute mentale da giocatore e di molti altri argomenti.

Sei stato al numero 64 del mondo, hai vinto cinque Challenger e hai giocato sette tornei dello Slam. Qual è il miglior ricordo della tua carriera?

Penso di poter dare due risposte. Un momento magico è stato quando ho battuto Micheal Chang, un mio idolo da adolescente. Il secondo è stato il torneo di Indian Wells 2003, quando vinsi contro Juan Carlos Ferrero (che di lì a poco sarebbe diventato numero uno del mondo), Fernando Gonzalez e Tommy Robredo. Quello fu un grandissimo momento per la mia carriera.

Prima di arrivare al circuito ATP hai giocato molto nei tornei dei college americani.

Ho giocato per Virginia per quattro anni. Mi sono laureato in un momento in cui non così tanti atleti dei college riuscivano a sbarcare nel circuito ATP. Le cose sono cambiate da John Isner e Steve Johnson in poi. Ora è bello vedere che diversi giocatori cresciuti nei college poi riescono a diventare professionisti. Personalmente, per me l’istruzione era molto importante.

Verso la fine della tua carriera hai patito un infortunio e precedentemente avevi detto che avevi bisogno di passare un periodo lontano dal tennis per gestire cose relative alla tua vita personale. Perché hai sentito la necessità di lasciare i campi per occuparti di questioni personali?

Ho avuto un problema alla cuffia dei rotatori e sono stato operato diverse volte. All’epoca pochi giocatori riuscivano a mantenersi competitivi quando arrivavano alla soglia dei trent’anni. Anche per questo ho iniziato a pensare di smettere, anche se poi le cose sono cambiate. Ho iniziato ad accettare la mia sessualità cercando di capire chi ero davvero. Semplicemente non mi sentivo incluso o accettato dallo sport che amavo. Più specificamente, era un ambiente molto conservatore. Quindi quando ho smesso di giocare sono sparito per un po’. In questo modo ho potuto riflettere meglio su alcune cose riguardanti me stesso e su quello che volevo davvero. Si è trattato di un processo di auto-esplorazione e all’epoca pensavo di poter riuscire a farlo meglio lontano dal tennis.

Hai detto che quello del tennis era un ambiente molto conservatore. Cosa intendi con questo?

Sul tour si facevano un sacco di battute omofobe. Si tratta di un circuito molto maschilista e competitivo. Non c’è rappresentanza per i gay, a differenza del circuito femminile. Sicuramente da giovane non avevo una grande personalità e avevo bisogno di capire al massimo me stesso, e sentivo che nel tennis non ci fosse nessuno con cui parlarne e nessuno che attraversasse qualcosa di simile.

Ti sei mai chiesto se la tua carriera avrebbe potuto essere diversa nel caso in cui avessi fatto coming out mentre eri attivo sul circuito?

Non mi piace pensare al “come sarebbe stato se”. Però mi chiedo se la qualità del mio gioco ne avrebbe beneficiato nel caso in cui fossi stato più libero mentalmente. Detto questo, so che durante gli anni Duemila non mi sarei sentito a mio agio a viaggiare in giro per il mondo. Alcuni paesi sono tuttora molto ostili nei confronti dei gay. C’era comunque una componente di rischio in un eventuale coming out, anche dal punto di vista economico. Come avrebbero reagito gli sponsor? Non si può sapere. Sono rischi che non vuoi correre se hai passato 25 anni a lavorare come tennista.

Oggi si parla molto di salute mentale dei giocatori riguardo anche casi famosi come quello di Naomi Osaka. Quindici anni fa queste discussioni non erano così accese, quindi come gestivi la tua vita sul tour?

Quando ero sul circuito avevo una psicologa sportiva, una donna di nome Alexis Castorri. Lei è stata molto influente su di me sia nel cercare di trarre quanto più era possibile dalla mia carriera sia una volta che ho smesso nell’aiutarmi a venire a patti con la mia sessualità. La salute mentale è un tema fondamentale per me. Sono seguito da una psicologa da 19 anni, e supporterò sempre chi dà priorità a questo aspetto.

Nel 2017 hai parlato pubblicamente della tua sessualità per la prima volta. Ti aspettavi quel tipo di reazioni?

Sapevo che per me sarebbe stato importante parlarne apertamente appena ne avessi avuto l’opportunità. Volevo solo dirlo una volta per tutte. Non prevedevo che sarei diventato un difensore di questa causa. Ma non volevo sentirmi come se mi stessi nascondendo, anche se ero già sposato. Dopo aver avuto figli, è cambiato il modo di pensare riguardo a ogni cosa e ho pensato che dovessi farmi avanti in qualche modo. Sono molto introverso, quindi tengo molto alla mia privacy, ma il fatto di avere figli ti cambia le cose.

Da quando ti sei esposto ci sono stati giocatori che ti hanno chiesto aiuto o consigli?

Non ho sentito nessuno del circuito ATP. Qualcuno con cui sono cresciuto ai tempi del tennis dei college sì, ma nessuno dal circuito professionistico. Dopo quel podcast in cui ho fatto coming out ho ricevuto una buona quantità di e-mail spiacevoli. Forse più di 1000 messaggi da persone che erano disgustate dal fatto che due uomini crescessero figli insieme. Ho ricevuto molto odio, ma sono stato avvantaggiato dal fatto di avere già una certa età, ero preparato psicologicamente e dunque tutto questo non ha avuto un grande impatto su di me. Ma quando la gente mi diceva che sapevano dove abitavo e che sarebbero venuti a portare via i bambini era spaventoso. La mia esperienza non è stata tutta rose e fiori, insomma. Devo accettare il fatto che c’è una buona parte degli Stati Uniti, e del resto del mondo che non crede sia accettabile il modo in cui la famiglia vive. Però lo sport mi ha insegnato a gestire le avversità.

Sul circuito ATP tuttora non ci sono membri LGBTQ, il che potrebbe essere una coincidenza oppure no. Pensi che il tennis maschile debba fare qualcosa in più per diventare un ambiente più aperto?

Se guardi a cosa stanno facendo nella NFL e nella NBA confrontandolo a quello che succede nell’ATP, delle differenze ci sono. Una delle ragioni per cui ora siedo nel board della USTA è cercare di cambiare in questo senso lo US Open. Come possiamo organizzare un Pride? Come possiamo allestire eventi simili? La USTA e lo US Open negli ultimi due anni hanno fatto ottimi passi avanti. Penso che l’ATP potrebbe aiutare, se avesse una mentalità più aperta. Al momento hanno deciso di non farlo. Direi che l’Australian Open in merito sta facendo un ottimo lavoro e mi auguro continui così. Non voglio fare prediche, ma sto cercando di promuovere una mentalità più aperta in modo che le persone LGBTQ capiscano che anche loro possono fare parte di questo sport.

Di recente il giocatore di football americano Carl Nassib ha fatto coming out. Quanto è stato importante?

La NFL è una cosa e il tennis un’altra, ma penso che comunque sia una cosa che aiuti. Il football americano del resto è uno degli sport dove il machismo impera di più. Vedere come tifosi e giocatori reagiscono è molto importante. Penso che Carl abbia gestito bene la situazione. Penso che non sia nemmeno una cosa su cui si debba discutere più di tanto. Spero che i tifosi lo capiscano, quando vedono un gay competere esattamente come gli altri. Il cambio di mentalità avverrà in tempi lunghi, ma è importante vedere che atleti così importanti prestano attenzione al tema.

Considerato quel che hai passato, che consigli daresti a chi potrebbe attraversare la tua stessa esperienza?

Trova qualcuno con cui parlare, qualcuno di cui ti fidi. Sappi che ci sono persone come noi là fuori, se hai domande. È bello avere qualcuno con cui parlare che possa aiutarti a imparare qualcosa su te stesso. Quello che faccio io è cercare di avere una vita normale. Ho una casa e due bambini, e li accompagno a scuola la mattina. Parlando di sport, vorrei far capire che puoi avere una grande carriera da atleta ed avere una famiglia a prescindere dalla tua sessualità.

Ora che ti sei ritirato dal tour da un po’ di anni, prenderesti in considerazione l’opportunità di tornare da coach o da addetto ai lavori, se arrivasse?

Onestamente non penso che sarei in grado di essere un buon coach. Sono abbastanza bravo a spiegare la tecnica e la meccanica dei colpi, ma finisce lì. Mi sono spostato nel settore del business e mi piace. Ho avuto alcuni grandi successi nella vita lontano dal tennis. E poi non penso che viaggiare molto mi piacerebbe ancora. Funzionava bene quando ero single e avevo vent’anni, ma ora sono un uomo di famiglia e mi piace passare del tempo a casa con i miei bambini. Certo, sarei felice se potessi essere d’aiuto a qualche giocatore, aiutando gli atleti relativamente alla loro forza mentale.

Cos’hai imparato nella tua carriera di tennista che ti ha poi aiutato in quella da imprenditore?

Amo il tennis e quello che mi ha insegnato in termini di gestione della sconfitta, della vittoria, della strategia di gioco. Grazie a questo ora sono molto competitivo nel settore del business e ho sviluppato buon intuito e buona capacità di prendere decisioni. Lavorando al di fuori del tennis ho capito che ci sono molte persone più intelligenti di me che però utilizzano in modo sbagliato le informazioni che hanno nel prendere una decisione. Tutto quel che ho ottenuto nel settore dell’imprenditoria lo devo a quel che ho imparato sul campo da tennis.

Traduzione a cura di Gianluca Sartori

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