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Reading: Flavio Cobolli, da Amburgo a Bologna via Wimbledon: l’anno che cambiò tutto
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Italiani

Flavio Cobolli, da Amburgo a Bologna via Wimbledon: l’anno che cambiò tutto

Il 2025 di Flavio Cobolli, l'inizio disastroso e il trionfo in Davis. Nel mezzo, i primi titoli e i quarti di finale ai Championships con la benedizione di Djokovic

Ultimo aggiornamento: 01/12/2025 18:00
Di Carlo Galati Pubblicato il 02/12/2025
16 min di lettura 💬 Vai ai commenti
Flavio Cobolli - Amburgo 2025 (x @atptour)

Annate che diventano spartiacque. Sono quei crocevia un po’ romantici e un po’ crudeli in cui si decide chi si vorrebbe essere e chi si è davvero; un bivio nel quale imboccare la strada giusta significa molto più che scegliere “la soluzione del momento”: è mettere un timbro sul futuro, indirizzare una carriera.
È pur vero che, vox populi, la cosa importante non sia la destinazione, ma il viaggio. Però scegliere quando e come partire può essere fondamentale. E il 2025 di Flavio Cobolli è stato esattamente questo: un anno iniziato male fino a Miami, con 8 sconfitte in 9 partite, unica vittoria nel challenger di Phoenix con l’ottimo (?!) Spizzirri…insomma, più dubbi che punti. “Sono lontano dalla mia forma migliore”, “Sono lontano dal 100% ma i risultati arriveranno”.  Poi la campagna europea e la terra rossa, dalle vittorie di Bucarest e Amburgo, ai quarti di Wimbledon, fino a quell’abbraccio di Novak Djokovic a rete e la frase che ogni tennista si sognerebbe la notte: “Entrerai tra i primi dieci al mondo.”
Detto da uno che qualcosina di tennis capisce. Di sicuro più di noi. 
Infine, a sugello, la gioia più grande: la Coppa Davis vinta da assoluto protagonista con Matteo Berrettini. Una coppia di amici che, senza retorica, la vita ha reso fratelli, in grado di trascinare l’Italia alla storica tripletta di Davis. 

Sezioni
Un anno di svolta: dal “work in progress” al giocatore veroBucarest e Amburgo: Cobolli prende la terra e non la molla piùWimbledon e la sorpresa sull’erba: i quarti, Djokovic e la Top 20La campagna americana e la Laver CupLa Davis e il definitivo salto di status: l’eroe di BolognaVincere è bello, confermarsi di più

E quindi godiamoci questo viaggio, in tutto e per tutto: dai dolori iniziali, alla pazza gioia di Bologna.

Un anno di svolta: dal “work in progress” al giocatore vero

A gennaio, Cobolli era ancora catalogabile come “talento in evoluzione”. Parlava di “un grande risultato nei Masters 1000 o negli Slam”, desideri legittimi ma che, fino a quel momento, non avevano trovato troppi riscontri sul campo.
La stagione parte in maniera disastrosa. Fuori al primo turno ad ogni torneo da Auckland a Miami, passando per Rotterdam. Sì è vero ragazzo giovane che crescerà, sì ma non un 18enne di belle speranze ma un 23enne che voleva abbandonarle abbracciando le certezze. Nelle stanze segrete, che non sono stanze, né tantomeno segrete, dei tornei, che spesso diventano confessionali per addetti ai lavori più o meno improvvisati, si percepiva che il ragazzo aveva qualcosa. Quello che mancava ancora era la scintilla: rimaneva un giocatore in costruzione, con mattoni solidi e di qualità, sparsi e nessuna certezza su come montare la casa.
Poi, come spesso succede nel tennis (e nella vita), arriva quel momento che devia i binari. Un momento, un’istante che diventano un’accelerazione vera e propria.

Bucarest e Amburgo: Cobolli prende la terra e non la molla più

La prima svolta di stagione arriva ad aprile: precisamente con il ritorno alla vittoria in una partita del circuito maggiore, al Țiriac Open di Bucarest, su Richard Gasquet, un momento di lucidità, un momento di concretezza che riallinea i pianeti del suo tennis, forse in maniera definitiva. Flavio, da quella prima partita, mette insieme una settimana lucida e concreta, culminata nel successo in finale su Sebastian Baez. Un 6-4 6-4 che vale il primo titolo ATP della carriera e, soprattutto, un’iniezione di fiducia che arriva giusto quando serve, dopo settimane in cui la bussola sembrava segnare un po’ troppe direzioni. 

Dopo questo successo, la strada però torna ad essere in salita: si può perdere a Monte Carlo da un ottimo Fils, non si può invece perdere da Luca Nardi (che lo aveva già battuto ad Auckland) al primo turno a Roma. Torneo di casa, alte aspettative, perdita di lucidità: “Qui mi sento sempre fuori posto, sono condizionato da fattori esterni”. 

Una settimana dopo, ad Amburgo, arriva però il vero capolavoro. Sette giorni durissimi, iniziati con la vittoria in rimonta sull’ucraino Sachko e terminati nella finalissima con Andrey Rublev, uno che in campo tira di racchette come un muratore indemoniato fa di cazzuola. Cobolli non solo vince: domina: 6-2 6-4, primo ATP 500 della vita, best ranking immediato alla n. 26. “Ho giocato la migliore partita della mia carriera”. Vero, verissimo.

L’indomani infatti non sarà più “il giovane promettente”, ma acquisirà lo status definitivo di uno che il tennis di alto livello lo maneggia, e pure bene. Amburgo lo adotta, lo applaude e intona ad alta voce sulle note di Toto Cutugno: “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano, […] sono un italiano, un italiano vero”. Tutto molto bello.

Due titoli sulla terra in due mesi. Un tennis più solido, una gestione mentale da giocatore vero. Il pubblico inizia a guardarlo diversamente e i giocatori che adesso lo vedono entrare nel club delle teste di serie del torneo, ovvero la parta d’entrata dell’elite. Se ne accorge anche Sasha Zverev che al Roland Garros lo batte in tre set, ma che ha dovuto faticare più di quanto si aspettasse e con un risultato troppo severo per quello visto in campo. Il saluto a rete fra i due certifica l’ingresso di Flavio nella nobiltà tennistica mondiale.

Wimbledon e la sorpresa sull’erba: i quarti, Djokovic e la Top 20

Che Cobolli potesse far bene sulla terra lo si poteva intuire. Che arrivasse a giocarsi i quarti di Wimbledon… onestamente no. Non ancora almeno. Lo diceva il suo tennis, la sua storia su questa superficie, la sua attitudine alla lotta. E invece Flavio comincia a vincere anche sui prati: elimina un ex campione Slam come Marin CiliC, si guadagna il suo primo quarto di finale in uno Slam e, come premio, trova dall’altra parte della rete Novak Djokovic.
Partita tostissima. Flavio perde, ma mostra presenza, coraggio, solidità nei momenti chiave: abbastanza per convincere Djokovic a stringerlo a rete e consegnargli quella frase profetica che ancora oggi gli rimbomba nelle orecchie. “Arriverai tra i primi 10 al mondo” detto da Djokovic è più di una previsione; sa di sentenza.
Grazie al percorso londinese vola al numero 19 del mondo, poi al numero 17 suo best ranking ottenuto il 28 luglio. Top 20 vera
, non “matematiche combinazioni” o “se perde quello e vince quell’altro”. Ci arriva perché se lo prende. Con il suo tennis, con la sua folle determinazione ma soprattutto con la consapevolezza. A Bologna, dopo la vittoria in coppa Davis gli ho chiesto dove fosse arrivato il click mentale: “Di sicuro la vittoria di Bucarest mi ha reso consapevole dei miei mezzi”. Appunto.

La campagna americana e la Laver Cup

L’estate nordamericana di Cobolli prende forma già a Washington, dove il romano, pur senza acuti da copertina, inizia a rimettere ordine nel proprio tennis: percentuali più solide con la prima, qualche variazione in più sul rovescio lungolinea, una postura diversa nei momenti scomodi. E infatti arriva a New York, nel frastuono dello US Open, quando Cobolli gioca una delle partite più incredibili della sua stagione con Jenson Brooksby, autentico idolo locale.

Chi vi scrive era sul campo 14 di Flushing Meadows, per 4 ore e 31 minuti di un match sporco, pieno di scambi lungi, trappole tattiche, cambi di ritmo, in cui Flavio mostra un lato del suo repertorio che raramente si era visto con questa continuità: il coraggio di restare fedele al proprio piano anche quando il punteggio dice il contrario. Lo porta al quinto, con il pubblico inebriato (e un po’-tanto- alticcio che gridava “USA, USA, USA”) lo porta vicino alla linea del traguardo, lo porta, soprattutto, dentro un livello competitivo che fin lì aveva solo sfiorato.

Il problema, per lui, è che al turno successivo trova Musetti, un avversario che conosce bene e che a New York ritrova il tennis delle grandi occasioni. Il derby azzurro è bello, intenso, pieno di variazioni, ma alla lunga la maggiore forza del carrarino e la stanchezza dei giorni precedenti lasciano il segno. Cobolli esce, sì, ma esce con la sensazione di essere “più giocatore” di quanto fosse entrato nel torneo. Ormai una sua sconfitta è una notizia. È l’altra faccia della medaglia, quella bella, che ridà luce nonostante il buio dell’eliminazione.

Il percorso fin qui gli vale qualcosa che, per molti giocatori del suo ranking, rimane un desiderio: la chiamata alla Laver Cup. E non come comprimario, come sparring o come “esperienza”. No: stavolta Cobolli viene convocato da titolare nel Team Europe. Dal punto di vista tennistico, forse, non sposta gli equilibri, perde il suo match con Joao Fonseca (altro di cui sentiremo parlare), paga un po’ l’emozione, un po’ la struttura dell’evento, che premia chi è abituato a gestire certi palcoscenici. Ma dal punto di vista del prestigio, dell’immagine, della percezione nel circuito, vale moltissimo. 

Flavio porta il suo nome e la sua bandiera dentro una delle vetrine più identitarie del tennis moderno. Condivide lo spogliatoio con top player affermati, respira un’atmosfera che fino a poco prima aveva vissuto marginalmente, impara da vicino cosa significhi stare in un team che rappresenta un continente. E se la stagione 2025 lo ha messo più volte davanti ai suoi limiti, talvolta superati, talvolta subiti, questo finale d’anno gli ricorda che il tennis, spesso, cresce attraverso i contesti, non solo attraverso i risultati.

La Davis e il definitivo salto di status: l’eroe di Bologna

E poi c’è la Coppa Davis. Per la fase finale di novembre, con l’Italia senza Sinner e senza Musetti, serve qualcuno che si prenda responsabilità pesanti e Cobolli, invece di scappare dalla pressione, sembra quasi divertirsi. Nei quarti vince un match complicato, in semifinale annulla sette match point a Zizou Bergs in un tiebreak infinito, roba che in tribuna stampa si cominciava a ipotizzare l’evacuazione per stress collettivo. E anche chi l’ha vista da casa non se l’è vissuta meglio. Poi la finale, con la Spagna, sul 1-6 iniziale contro Munar, chiunque avrebbe cercato un’uscita di sicurezza. Un modo onorevole di rimandare tutto al doppio finale, dopo la vittoria di Matteo Berrettini nel primo match con Pablo Carreno-Busta. Lui no: rimonta, lotta, chiude 1-6 7-6(5) 7-5 e consegna all’Italia la terza Davis consecutiva.
Da possibile riserva, a protagonista totale. Da “promessa”, a uomo squadra. Ripetendo ogni giorno, dalla prima vittoria su Misolic, passando per Bergs e fino a Munar, il solito refrain: “È stata la vittoria più importante della mia carriera”…Basta questo exursus emozionale, ma soprattutto percettivo, per dare la misura di ciò che è stato. 

Vincere è bello, confermarsi di più

Il 2026 sarà un anno diverso. Più pressioni, più aspettative, più telecamere pronte a cogliere il primo rovescio sbagliato per decretare che “è finito l’effetto sorpresa”, ma soprattutto tanti punti da difendere. Flavio Cobolli versione 2025 ha dimostrato che può stare in alto. Che può diventare un punto fermo del tennis italiano, uno che nei tabelloni ATP, negli Slam, entra dalla porta principale, e si cambia nello spogliatoio delle teste di serie. Insomma, tra i migliori.  Il salto nei Top 20 gli dà sorteggi migliori, condizioni più favorevoli, fiducia nuova, ma soprattutto la percezione del livello raggiunto. C’è e vuole restarci. Poi, certo, la strada è lunga. 

Se c’è una cosa che il 2025 ci ha insegnato è che Cobolli ha tutto il necessario per arrivare lontano: lo abbiamo seguito in quella settimana folle di Amburgo, dove passo dopo passo, è arrivato il successo più importante della sua carriera (con il massimo rispetto per la Davis), eravamo con lui a Wimbledon, durante gli allenamenti con Sinner e nel suo esordio sul Campo Centrale. Senza dimenticare la già citata New York e Bologna. Il suo 2025, ci perdonerete voi, ci perdonerà Flavio, è stato un po’ anche il mio. “Cosa vuoi che faccia Cobolli ad Amburgo?” mi dicevano. 

Ha vinto tutto, si è preso quello che gli spettava, non di diritto, ma per vocazione, sacrificio, lavoro e talento. Perché la retorica del ragazzo che lotta piace tantissimo ed è caratteristica nonché caratterizzante del personaggio. Ma senza talento, no…non si va da nessuna parte e quello per fortuna c’è. 

E a dirlo non è chi vi ha raccontato questo viaggio, in preda a chissà quale delirio di conoscenza; lo ha detto Novak Djokovic sul centrale di Wimbledon. Insomma, non male come investitura. 

E poi ci sono i tifosi italiani, persino quelli che guardano il tennis da quando un signore altoatesino ha decido di dominare il mondo: il suo nome ormai è scolpito. Cobolli è diventato qualcuno di cui fidarsi. Uno che ti porta in viaggio con se. Come abbiamo più volte modo di scrivere il tempismo nel tennis è tutto, nei colpi, negli spostamenti in campo ma non solo; stavolta, scegliere quando partire, per questo viaggio tennistico, è stata la mossa giusta. Perché si fa tanta fatica ad arrivare in cima, ma lissù dove l’aria è più rarefatta, tocca avere ossigeno a sufficienza per non soffrire di vertigini, certificando, che sì, le alte quote fanno per lui. Fanno per Flavio Cobolli. 


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