Leggende

Il sapore della vittoria

La difesa dei diritti civili per gli afroamericani è sempre stata al centro della vita e della carriera di Arthur Ashe, il primo nero a trionfare a Wimbledon, nel 1975. Alessandro Mastroluca

Dimensione testo Testo molto piccolo Testo piccolo Testo normale Testo grande Testo molto grande

Un soldato dell'esercito Usa, una delle più illustri vittime dell'Aids, ma soprattutto un attivista per i diritti dei neri. Benché poi sia diventato ricco, quasi snob, non ha dimenticato le sue origini. Si è battuto contro l'apartheid in Sudafrica, e manifestando davanti all'ambasciata sudafricana negli Usa è stato arrestato.

Nel 1973 è diventato il primo nero a vincere un titolo di tennis in terra sudafricana, in doppio con Tom Okker. Il poeta Don Mattera l’ha elogiato così: “Grazie perché hai mostrato alla nostra gioventù nera che può competere con i bianchi e vincere”.

E' stato scelto insieme ad altri trenta sportivi afro-americani per comporre un team da mandare a Città del Capo per valutare il progresso politico nel Paese. Ha incontrato anche Nelson Mandela, che ha dichiarato di essere un suo fan.

In un anno sportivamente targato “Sudafrica” la sua è una storia simbolica. Perché fino alla sua morte la questione della razza è stata al centro della carriera, della vita, dell'identità di Arthur Ashe.

Gli inizi e il rapporto col padre
Un ragazzo che mostra sin da piccolo una estrema propensione per il tennis, ma che presto si scontra con la difficoltà dovuta alla sua connotazione razziale. A 12 anni, insieme a Ronald Charity, un istruttore part-time, provano a convincere Sam Woods, un “bianco” che in sostanza gestisce il tennis a Richmond, ad ottenere un visto perché Ashe disputi un torneo in città: Woods nega la richiesta. Ashe deve sottoporsi a lunghi spostamenti per coltivare la passione e il talento per il tennis, che comunque continua a crescere, tanto che Charity decide di mandarlo a perfezionarsi per un'estate dal dottor Robert Johnson.

Nei primi tempi, però, Ashe si rifiuta di fare qualunque cosa vada in senso contrario agli insegnamenti di Charity. Per provare a smuoverlo, suo padre, Arthur Ashe Sr, decide di affrontare il viaggio di tre ore in autobus per andare a parlare con suo figlio.

Tra i due c'è un rapporto stretto e particolare. Quando Arthur jr ha sette anni sua madre muore, e lascia parole toccanti al marito: “I figli sono tuoi, non li ho dati alla luce per me, o per mia madre, o per nessun altro, li ho dati alla luce per te”. Quando le confessa a suo figlio, Arthur risponde: “Allora finché staremo insieme non potrà accaderci niente di male”. Nulla di quanto raggiungerà in carriera negli anni successivi renderà Arthur Senior così fiero di suo figlio.

Ma Arthur junior, dopo la ramanzina subita nell'accademia del dottor Johnson, non parlerà mai più con suo padre. Già allora, e successivamente al college, la Sumner High School, la prima per soli neri ad ovest del Mississippi (dove ha studiato anche Tina Turner), subisce grandi pressioni, uno stress molto alto che affronta sopprimendo le emozioni, con quell'apparente freddezza esteriore che sarà una delle sue caratteristiche distintive.

Nel 1959 perde in finale agli Eastern Junior and Boys Championships, a Forest Hills, da Hugh Lynch III, da Bethesda, n.2 delle classifiche della MALTA (Middle Atlantic Lawn Tennis Association), classifica in cui Ashe non poteva comparire in quanto di colore. La tensione gli gioca un brutto scherzo prima del debutto agli Us National Championships: vomita a bordo campo prima di affrontare Rod Laver.

E' sophomore (ovvero al secondo anno) alla UCLA quando entra nella storia come il primo tennista nero ad essere convocato per la nazionale Usa di Davis, nel 1963: quell'anno giocherà solo un match, un dead rubber contro il venezuelano Orlando Bracamonte. In carriera raccoglie 27 vittorie in singolare in Davis, e da capitano non giocatore sarà il secondo nella storia a stelle e strisce a conquistare due titoli di fila, nel 1981 e 1982.

La sua arma migliore è sempre stata il servizio. John Newcombe, battuto in due set nelle semifinali del Queensland Championships del 1966, dopo quella partita ammette: “Serve talmente forte che nemmeno se sapevi che la palla stava per arrivare riuscivi a fare qualcosa”. Quell'anno un articolo definisce il “negro americano” Ashe “il primo tennista maschio della sua razza ad aver raggiunto i più alti livelli dello sport del tennis”. Un reporter scrive: “in un mondo popolato di bianchi, il 21enne Arthur Ashe Jr è una stranezza atletica”.

L'anno successivo riceve un'offerta per diventare professionista dalla World Tennis Championships, che gli invia a casa una proposta di contratto e una confezione di calzini: Ashe rimanda indietro il contratto non firmato e si tiene i calzini.

Ne avrà un'altra, nel 1968, da George McCall, che gli offre 400 mila dollari per giocare cinque anni per lui. Rifiuta, come i compagni di Davis Charlie Pasarell, Stan Smith e Bob Lutz. Il tennis diventa Open, e Ashe diventa il primo tennista nero a vincere un torneo dello Slam. Agli Us Open del 1968 13 atleti professionisti perdono contro avversari dilettanti. Arthur Ashe, che rientra nella seconda categoria, raggiunge la finale, che si gioca di lunedì, e davanti a 7 mila spettatori batte 14-12 5-7 6-3 3-6 6-3 Tom Okker. All'olandese andranno 14 mila dollari, Ashe colleziona 280 dollari di spese (20 al giorno), una coppa e una pacca sulle spalle. All'epoca Ashe era luogotenente dell'esercito a West Point. Quando la sperequazione dei premi viene resa pubblica, una signora invia ad Ashe un pacchetto di azioni della General Motors per un valore di 8900 dollari.

Il tennis però ancora non riceve un'importanza mediatica commensurabile alla crescente popolarità dello sport in generale: Ashe è una delle figure chiave nella fondazione dell'Association of Tennis Professionals (ATP).

La razza
Per alcuni il suo successo costituisce un'apertura significativa nel muro del mondo segregato dei country clubs. Ashe veniva invitato da protagonista in tornei in cui i neri potevano entrare solo come camerieri o addetti agli spogliatoi. Eppure Ashe non vive la sua immagine e il suo ruolo come un martire dell'integrazione. Non si sente né un crociato, né un fenomeno sociale. Ma durante un torneo trasmesso in tv, come rivela Kevin O'Keefe in un articolo per Tennis Match del 1999, fa in modo che a sua figlia Camera venga tolta la bambola bianca che aveva ricevuto in regalo e con cui stava giocando, temendo che se la scena fosse stata ripresa gli afro-americani avrebbero potuto erroneamente pensare che la sua famiglia avesse dimenticato le proprie origini.

Origini che Ashe ha sempre difeso con orgoglio, tanto da attirarsi qualche critica quando annuncia di voler aprire un centro di tennis per soli neri perché la USTA non aveva fatto abbastanza per incentivare il talento tennistico nelle comunità afro-americane: si disse che invece di stimolare l'integrazione, azioni del genere non costituivano altro che una forma di contro-segregazione.

La sua voce è complementare a quella dei leader del movimento per i diritti dei neri, soprattutto H. Rap Brown e Stokely Carmichael, che rispetta anche se non ne condivide le politiche estreme e violente. Carmichael vede la nonviolenza come una tattica piuttosto che un principio, e questo lo separava dai leader moderati del movimento per i diritti civili come Martin Luther King. Carmichael diventa critico nei confronti dei leader per i diritti civili che chiedono semplicemente l'integrazione degli afroamericani nelle esistenti istituzioni della classe media del paese. Crede piuttosto nell'importanza per i neri di essere uniti e solidali, e conquistare l'indipendenza. “Noi non abbiamo mai combattuto per il diritto di integrarci, noi stavamo combattendo contro la supremazia bianca. Ora, se vogliamo comprendere la supremazia bianca dobbiamo abbandonare il concetto sbagliato che i bianchi possano dare la libertà a qualcuno. Nessun uomo può dare a qualcuno la sua libertà. Un uomo nasce libero” dice nel famoso Black Power speech, all'università di Berkeley, il fondatore di quello che sarà chiamato il Black Panther Party.

Il 1968 è un anno chiave, sotto molti aspetti. L'assassinio di Martin Luther King, la protesta contro la Guerra in Vietnam, il successo di Anne Marie Braffheid, la prima ragazza di colore ad arrivare seconda a Miss Universo. “Say it good (I'm black and I'm proud”) di James Brown è l'inno della protesta, che si esalta nel gesto tipico delle Black Panthers, il pugno inguantato di nero alzato al cielo, mostrato con orgoglio al mondo da Tommie Smith e John Carlos sul podio dei Giochi Olimpici del Messico. “Rispetto il modo in cui hanno portato avanti le lori idee” dirà Ashe, “e soprattutto il loro desiderio di essere ascoltati anche in materie che trascendono l'atletica”.

In un'intervista concessa a Hugh McIlvanney per il London Observer il 21 luglio 1968, così Ashe spiega il suo pensiero. “Per generazioni la nostra gente è stata indottrinata a pensare che 'bianco è bello e nero è brutto'. Da qui tutto il nonsense di stirarsi i capelli e così via. C'è da cancellare un gap di dignità: Quello che stiamo facendo somiglia più al buttar giù un muro che all'aprire una porta. I ragazzi come Stokely stanno facendo tanto. Certo, a volte cade in qualche esagerazione. Urla che 'nero è bello', ed è vero, ma questo non vuol necessariamente dire che bianco sia brutto. A volte è un po' estremo, lo riconosco, ma conosco parecchia gente qui che lo fa sembrare Mary Poppins”.

La finale di Wimbledon
Sette anni dopo, quel ragazzo è ormai diventato un uomo di 32 anni, in fase calante della carriera. Ma nel tempio del tennis dei gesti bianchi, sull'aristocratico centrale di Wimbledon, l'afro-americano Arthur Ashe è a un passo dal realizzare il sogno di una vita.

Il 5 luglio 1975 è un sabato. Del resto nel Regno Unito non si fa nulla di domenica, nemmeno giocare a Wimbledon: una tradizione solida come il tè delle cinque, sconfitta solo dai milioni delle pay-tv.

Sul centrale si preparano per la finale Arthur Ashe e il ventunenne mancino Jimmy Connors, allora numero 1 del mondo. Dal 1973 Ashe aveva iniziato ad attaccare pesantemente Jimbo e il suo manager di allora, Bill Riordan. Ashe disse che Connors si “era venduto l'anima”, andando a giocare per l'associazione rivale Team Tennis, ma aveva comunque beneficiato dei vantaggi delle azioni dell'Atp. Lo aveva definito non patriottico per aver rifiutato una convocazione in Davis. Ma soprattutto, per la sua appartenenza a Team Tennis, da presidente dell'Atp gli aveva impedito di iscriversi al Roland Garros 1974, in un anno in cui Connors portò a casa Australian Open, Wimbledon e Us Open. Per questo Connors e Riordan avviarono anche una causa contro Ashe con una richiesta di risarcimento danni per 5 milioni di dollari che poi sarà ritirata dopo la finale di Wimbledon del 1975.

Ashe, tanto perché fosse chiaro che non aveva affatto dimenticato la controversia sulla Coppa Davis si presenta per il riscaldamento con un giubbetto blu con la scritta rossa USA sul petto. Ma per gli addetti ai lavori il 32enne ha poche possibilità: i bookmakers lo danno 11 a 2, nonostante nei quarti abbia eliminato nientemeno che Bjorn Borg. Connors arriva alla finale senza aver perso nemmeno un set (l'incontro più lottato è il secondo turno contro Vijay Amritraj, vinto 9-8 6-0 8-6). Il percorso di Ashe è stato decisamente più accidentato ai Championships. E' stato costretto al quarto al primo turno da Bob Hewitt, da Graham Stilwell al quarto turno, e da Borg nei quarti. In semifinale emerge da una battaglia contro Tony Roche, testa di serie numero 16 che aveva sorpreso Ken Rosewall, 5-7 6-4 7-5 8-9 6-4. In più Connors ha un miglior rendimento di Ashe sull'erba, e ha vinto tutti i tre precedenti confronti diretti, a Boston e due volte a Johannesburg, sempre in finale e sul cemento.

Ashe, che vive di contrasti, che non dimentica le sue origini ma intanto è diventato ricco e orgogliosamente capitalista, è davanti al sogno della sua vita, vincere nel tempio del tennis gigliato, dei gesti (e non solo quelli) bianchi, nella cattedrale del colonialismo britannico che si esprime attraverso la versione moderna della pallacorda.

Il match inizia e il pubblico capisce prima di tutti la voglia di vincere del 32enne che tanti troppo frettolosamente danno sul viale del tramonto. Per la prima volta in carriera, Ashe decide di non accettare il braccio di ferro con Connors. I servizi uncinati esterni sul rovescio mancino a due mani tolgono a Connors ritmo e potenza, mentre gli slices da sinistra lo costringono spesso sulla difensiva. Ashe sceglie anche di non attaccare fino in fondo dal lato del dritto per ridurre il numero di errori gratuiti ricorrendo ad una delle sue armi migliori, il rovescio in topspin. In più costringe Jimbo a rispondere ad una serie innumerevole di palle basse dal lato del dritto, spingendo in modo sempre più convinto sul punto debole dell'avversario. Una strategia che ha studiato con il suo staff la sera prima della partita e che ripassa, nei cinque-sei punti chiave che ha sintetizzato su un foglietto, ai cambi campo.

L’inedita strategia di Ashe si rivela azzeccata. L'afro-americano tiene a zero il primo turno di battuta e strappa subito il servizio all'avversario prima di vincere il primo set 6-1 in 19 minuti. Il secondo fila via con lo stesso punteggio e quasi altrettanto velocemente.

Nel terzo set Connors va subito sotto prima 0-2 poi 1-3, ma si rialza, vince 7-5 e sale 3-0 nel quarto con un break di vantaggio. “Quando ho perso il terzo set mi sono sentito quasi sollevato” ha detto Ashe dopo la partita. “L'idea che potessi vincere contro Connors in tre set violava il mio senso del normale”.

L'afro-americano continua a mostrare calma, durante gli scambi e i cambi campo e vince sei degli ultimi sette giochi, trovando il controbreak decisivo nel quinto game: prima costringe Connors sulla difensiva con un lob, poi lo passa con un dritto lungolinea su cui Jimbo non controlla la volée. Di classe la chiusura. Nel decimo gioco, Ashe al servizio sale 40-15 e dopo una debole risposta a due mani chiude con una volée vincente.

E' stata la vittoria dell'intelligenza contro la forza, “un trionfo che ha trasformato un grande uomo in un grande campione” come scrisse Richard Evans per World Tennis. “Un successo in cui l'intelletto ha guidato la prestazione fino a farle sfiorare la perfezione”.

 

Alessandro Mastroluca

Cerca su Quotidiano.Net nel Web