Partite storiche

Michael, Stefan e quella finale…

A più di vent’anni di distanza, ripercorriamo insieme le fasi del match giocato da Michael Chang e Stefan Edberg per il titolo a Parigi nel 1989 in una delle edizioni più incredibili del Roland Garros. Mauro Cappiello
 

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edberg e chang

Uno per liberarsi dell’etichetta di giocatore adatto solo alle superfici veloci. L’altro per stupire il mondo e diventare il più giovane vincitore di sempre in una prova del Grande Slam. Sul Court Central del Roland Garros, l’11 giugno del 1989 si scrive la storia. Stefan Edberg e Michael Chang giocheranno una delle finali più memorabili dell’era Open. Non tanto per la qualità del gioco (“Un match deciso in larga parte dagli errori” scriverà Nick Stout del New York Times il giorno dopo), quanto per le circostanze e gli sviluppi rocamboleschi della sua trama.

Sono cinque anni che un americano non vince un torneo dello Slam, ma, soprattutto, sono passate trentaquattro stagioni dall’ultimo trionfo a stelle e strisce a Parigi: nel 1955 ci riuscì Tony Trabert che completò la sua doppietta in terra di Francia battendo in finale proprio uno svedese, Sven Davidson. Da allora più niente. Le speranze di una nazione poggiano, quindi, sulle esili spalle di questo cinesino nato nel New Jersey, uno Speedy Gonzales made in USA, che si danna l’anima correndo da una parte all’altra del campo a velocità mai viste e che qualche giorno prima ha letteralmente fatto impazzire il numero 1 del mondo Ivan Lendl, servendo dal basso e rispondendo all’altezza del rettangolo di battuta. Ma Michael alla storia non ci vuole pensare: «Mi metterebbe addosso solo ulteriore pressione. Andrò in campo per dare tutto me stesso. Quel che succede, succede».

Chang ha già incontrato Edberg in tre precedenti ed è riuscito a vincere per la prima volta proprio nel confronto diretto più recente, sul cemento di Indian Wells. I due non si sono invece mai incontrati sulla terra, una superficie su cui «molti credevano che non potessi giocare bene, anche se io non ho mai dubitato di poterlo fare». Parola di un raggiante Stefan Edberg, uscito vincitore in semifinale sul rivale di sempre Boris Becker dopo una battaglia di tre ore e 55 minuti in cui era avanti di due set, ma ha dovuto recuperare un break di svantaggio al quinto. Stesso copione che Stefan seguirà a Wimbledon contro lo stesso avversario nella finale dell’anno successivo. Ma questa è un’altra storia.

Edberg, a 23 anni, è alla prima vera grande prestazione su terra battuta. A Parigi non è mai andato oltre i quarti e sul lento è riuscito a vincere un unico torneo fino a quel punto della sua carriera, nel 1986 a Gstaad, dove peraltro si gioca in alta quota e, quindi, a velocità di palla più elevate.

Alla vigilia dell’incontro, il numero 3 del mondo sa esattamente cosa aspettarsi dalla sfida finale: «Se servo bene, ho buone chance. Non si può giocare contro Chang dal fondo, bisogna attaccarlo. Avrò delle possibilità sul suo servizio, perché non fa molti ace». Edberg spera di sfiancare con le sue discese a rete un avversario già messo a dura prova da due match molto combattuti: oltre a quello contro Lendl negli ottavi, in cui era riuscito a rimontare due set e a sconfiggere i crampi con l’aiuto di qualche banana, anche la semifinale contro Chesnokov. Quattro set, di cui tre tiratissimi, durati più di quattro ore.

Ma all’inizio dell’incontro il più stanco sembra invece lo svedese. Nelle parole del grande Gianni Clerici, la prima fase vede «un Edberg curiosamente impacciato, incapace di trovare la palla», mentre l’americano è «fenomenale nel moltiplicarsi, quasi un illusionista acrobata del Circo di Pechino». Il primo set dura 31 minuti ed è un monologo di Chang. Un Edberg svogliato e lento fatica a rispondere ai passanti dell’avversario che arrivano da ogni lato del campo. La testa di serie numero 15 sembra risuscitata rispetto al giocatore quasi costretto ad essere portato fuori dal campo a braccia pochi giorni prima.

Quando Chang prende un break di vantaggio nel quinto gioco del secondo set, pare che la vicenda sia destinata a risolversi velocemente. Qui, però, lo svedese riesce finalmente a prendere le misure all’avversario e a far iniziare il match che tutti si aspettavano. Edberg comincia a disegnare il campo con ispirate geometrie, segue a rete appena possibile i suoi attacchi in back di rovescio, e, sollecitato dai recuperi fenomenali di Chang, cerca gli angoli più impossibili con delle volée chirurgiche. È il momento più spettacolare del match, in cui la differenza di stili fra i due protagonisti in campo esalta il pubblico parigino che, grande estimatore del serve&volley, vede in Edberg un degno successore di Noah, ultimo grande attaccante vincitore a Parigi nel 1983. Lo svedese recupera il break e si aggiudica il secondo set, mettendo a segno un parziale di ben sette game consecutivi.

Nel terzo set Edberg riesce a imporsi sfruttando il break conquistato all’avvio. «Quei due set piuttosto ovvi sarebbero dunque finiti 6-3, 6-4 per Edberg, ma, dissimulata dalla banalità del punteggio, rimaneva la difesa cocciuta del piccolo, quel suo stoico rinviare una volta più del possibile, quelle sue corse a perdifiato che avrebbero stroncato anche un Wilander d'annata. Sembrava avere, quella difesa, i connotati della disperazione», continua lo Scriba.

Invece no, non è disperazione, ma voglia di non mollare, tenacia, come se quella fosse non la prima ma l’ultima occasione della carriera per quell’imberbe diciassettenne. Nel quarto set Edberg strappa il servizio nel primo gioco e sembra involarsi sicuro verso il trionfo. Il cinesino però inaspettatamente ribreakka al game successivo e da lì inizia a rintuzzare gli attacchi del suo avversario costantemente proiettato a rete. Nel terzo gioco risale da 15-40, annulla quattro palle break e spreca tre vantaggi prima di tenere il servizio. Sul 3-3 si trova a dover rimontare da 0-40 e ci riesce, grazie a due errori di Edberg e a un suo passante vincente. Annulla altre due palle break e sale 4-3. Nel successivo turno di servizio riesce ancora a cancellare un’occasione per lo svedese di strappargli la battuta. In tutto fanno dieci opportunità di break per Edberg in un quarto set per lui stregato. E, come vuole una legge non scritta dello sport, alla fine sarà Chang a vincere il set, costringendo l’avversario, con una gran risposta, a mettere in rete una volée.

Due set pari, si ricomincia. E mentre il match va ancora una volta per le lunghe rimane da vedere chi dei due saprà resistere meglio alla fatica. Edberg prende di nuovo un break di vantaggio nel primo gioco dell’ultimo parziale, al termine di un altro game estenuante della partita, andato in parità per ben sei volte. Ma da questo punto in avanti è proprio lo svedese a finire stremato dalla sua stessa strategia: le risposte anticipate di Chang, che aspetta la sua seconda palla con i piedi poco dietro il rettangolo di servizio, lo hanno costretto per tutto il match ad improbabili allunghi per colpire la prima volée, qualcosa di estremo anche per un gioco di volo rodato come il suo. Normale, che superate le tre ore, il campione uscente di Wimbledon inizi ad accusare la fatica.

Ed è così che Chang rinasce per l’ennesima volta in questa sua straordinaria cavalcata parigina. Vince quattro giochi consecutivi, non prima di essersi salvato altre due volte nel quinto game da altrettante palle break che avrebbero riammesso Edberg nel match. Sul 4-1 per il suo avversario, lo svedese non ha più l’energia per ritornare in partita. Pesano come macigni le troppe occasioni mancate sul servizio dell’americano che non hanno permesso alla profezia pre-partita dello svedese di avverarsi.

Chang chiude 6-2 su un dritto d’attacco tirato malamente in rete da Edberg e alza le braccia al cielo sfinito, come se fosse lui il primo a non crederci. Ha vinto un torneo incredibile al termine di una finale durata tre ore e 41 minuti in cui è stato costretto a rincorrere in quattro dei cinque set disputati.

 

Il suo nome si aggiunge nell’albo d’oro del torneo a quello di Arantxa Sanchez, vincitrice 17enne sulla Graf del Grande Slam 1988. 34 anni in due, Michael e Arantxa, quasi come le primavere del vincitore del Roland Garros l’anno dopo, il trentenne ecuadoregno Gomez. A testimonianza di un’edizione del torneo parigino da consegnare agli annali.

«Nel quarto set pensavo che il match fosse finito – dirà Michael a fine partita, non prima di aver ringraziato, come di consueto, Dio per averlo guidato verso la vittoria –. Probabilmente qualche punto mi ha ispirato a provarci ancora di più e a credere che ci fosse una possibilità di rimontare».

 

«Ha giocato molti match duri ed è riuscito sempre a rimontare. Bisogna ammirarlo per questo – controbatterà son la solita signorilità Edberg –. È giovane, forse non ci pensa poi tanto». In effetti forse Chang non avrebbe mai pensato che quello, ottenuto nell’età dell’incoscienza, sarebbe stato per lui l’unico successo nel Grande Slam. Negli anni successivi l’americano, pur più completo tecnicamente e dotato, grazie a una racchetta più lunga costruita apposta per lui, di un servizio che sfiorava i 200 km/h, avrebbe raccolto solo le briciole nelle altre tre finali di Slam centrate: nel 1995 contro Muster di nuovo a Parigi e nel 1996 in Australia, contro Becker, e a New York, contro Sampras.

D’altro canto neanche Edberg sapeva che quella del 1989 sarebbe stata per lui la prima e unica grande occasione di aggiudicarsi il solo torneo major che, a fine carriera, sarebbe mancato nella sua bacheca. Edberg, che avrebbe poi vinto un altro titolo a Wimbledon e due US Open, battendo in tutti e tre i tornei sempre Michael Chang sulla strada verso la finale, avrebbe ricevuto solo la soddisfazione della rivincita proprio contro l’americano, superato in quattro set al terzo turno del Roland Garros nel 1996, l’anno del suo ritiro. Soddisfazione che non avrebbe cancellato il rimpianto per quelle appena sei palle break sfruttate su 25 nella finale del 1989.

Mauro Cappiello

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